Il regista e sceneggiatore Daniele Costantini, David di Donatello per l’opera prima nel 1979, sperimentatore intransigente e nomadico, mina vagante nell’autocensorio cinema italiano, è autore del film Accattaroma, in uscita nelle sale a febbraio 2024, e un caro amico da molti anni.
Dopo la visione di Accattaroma ti dissi subito che mi sembrava un lavoro notevole; grande nella scelta del Mandrione, una promenade nel non-tempo della periferia; grande nella scelta dei personaggi e della loro guida, Vittorio, e nel bianco e nero di Maurizio Calvesi. Definiresti il tuo film neo-realista o neo-surrealista?
Neorealista no… Il Mandrione è un set involontario, non è più Roma. È una strada rimasta molto simile a cinquant’anni fa, con la differenza che è ora piena di graffiti, realizzati negli ultimi dieci anni. Parte della strada è chiusa al traffico perché si temeva che crollasse, quindi è ai margini della città contemporanea, non porta da nessuna parte. Non incontra qualcosa di vivo o attuale: esiste in una sorta di “sopravvita”. Invece il film neo-realista fotografava la vita sul fatto, in svolgimento.
Ha a che fare invece col surrealismo?
Forse… È il film che è venuto, avendo scelto una storia che si svolge nell’arco di una giornata, con un tempo narrativo molto stretto, dalla mattina al tramonto, con dei personaggi che non sono realistici ma di pura invenzione, che hanno i nomi di personaggi dei racconti di Pasolini; in particolare questi nomi provengono da La notte brava, un racconto pasoliniano degli anni Cinquanta che venne diretto da Mauro Bolognini (La notte brava di M. Bolognini, 1959, tratto da un racconto di Pasolini contenuto nella raccolta “Alì dagli occhi azzurri”, ndr. ). Il film era già oltre la stagione del neo-realismo: Terzieff e Brialy, gli interpreti, erano due attori francesi e non avevano nulla del borgataro romano, né l’aspetto né le movenze. La scelta di questi nomi quindi dipende anche dal fatto che è meno conosciuto di Accattone, Mamma Roma o La ricotta. Volevo nomi “pasoliniani” che non fossero arcinoti.
Puoi parlarci della dimensione produttiva? Si tratta di un film a basso costo, con delle collaborazioni eccellenti: Calvesi, uno dei migliori direttori della fotografia attuali, le musiche di Nicola Piovani… Accattaroma rivela grandi ambizioni di cinema di poesia, realizzato però con costi molto contenuti.
È stato fatto con un finanziamento davvero minimo. Non ci sono interpreti famosi; sono tredici attori tutti alla prima esperienza: dodici sono ragazze e ragazzi di venti-ventidue anni, poi uno più grande fra i quarantacinque e i cinquanta. L’adulto è Massimiliano Cardia, che ha fatto delle partecipazioni ma è la prima volta che regge sulle spalle un intero film. Il suo ruolo copre tutto l’arco del racconto, un impegno interpretativo davvero rilevante. Così i ragazzi: a parte uno, sono tutti allievi attori e sconosciuti. È importante dire che non abbiamo chiesto finanziamenti a nessuno. Cercarli, avrebbe comportato dei tempi lunghi: aprire un dialogo con il ministero, con RAI Cinema o con un’altra azienda privata o pubblica avrebbe diluito i tempi, mentre l’idea era di farlo subito. Quattro settimane di riprese, per la precisione diciannove giorni; è stato possibile perché era un set unico, tutto è girato in esterni, tranne due brevi sogni: uno dei due ambienti onirici è un arco del Mandrione che diventa una casa, alla fine pure quello un esterno. Nessuno spostamento, tempi molto rapidi di realizzazione. Se la storia avesse avuto bisogno di ambientazioni in vari quartieri, o di alternare esterni e interni, non sarei riuscito a finirlo in un tempo così breve.
Ricorrendo quindi alle unità aristoteliche di tempo-luogo-azione, qualcosa che oggi può sembrare d’avanguardia: la convenzione antica appare oggi non convenzionale. Personalmente credo che il pubblico sia interessato tanto al racconto quanto alla forma del cinema… Si può definire Accattaroma una indagine sul pasolinismo cinquanta, sessant’anni dopo, oppure descrive una realtà parallela e sospesa nel tempo?
Il film si svolge in un tempo che non è oggi né ieri. La narrazione è sospesa a un filo sottilissimo tra ieri e oggi; il linguaggio dei dialoghi è quello degli anni Sessanta, ma nello stesso tempo questi sono ragazzi di oggi, cui quel linguaggio non appartiene assolutamente; nessun giovane oggi si esprime con quelle parole, con un linguaggio di origine letteraria, quello delle sceneggiature di Pasolini ma anche delle sceneggiature di Sergio Citti. Amo molto Sergio Citti come regista; ha un umorismo molto particolare: distaccato, inquietante, ricco di risonanze enigmatiche e ho cercato di farlo un po’ mio. Citti aveva la cifra stilistica che voglio esprimere: surreale, senz’altro. Ma non amo molto definirlo così, perché ormai “surreale” è qualsiasi cosa appaia diversa e strana. È un luogo comune. È sì qualcosa che vuole sfuggire ai canoni, ma non mi piace definirlo surreale. Il riferimento al surrealismo come codice estetico lo accetto, ed è molto più presente nel cinema di Sergio Citti che in quello di Pasolini.
Penserei, oltre a Citti, ad un riferimento a L’age d’Or di Luis Buňuel
Ormai sono grande d’età; ho cominciato a vedere film in sala a sette anni, a sedici ho cominciato a fare delle scelte, per orientare quello che avrei poi fatto… Ho visto centinaia di film, e sicuramente uno degli autori che mi hanno più colpito e influenzato è proprio Luis Buňuel. Quindi dei richiami è possibile vi siano, ma di tipo inconscio.
C’è un altro aspetto del casting che mi ha colpito. Queste ragazze e questi ragazzi che interpretano dei borgatari, hanno invece corpi molto contemporanei: altezza, spalle larghe, portamento elegante… Quasi dei modelli per l’alta moda. È un gioco fondato sui contrasti, fra la fisionomia “classica” del borgataro e questi corpi in stile ventunesimo secolo?
I ragazzi sono tutti giovani attori, non sono neo-realisticamente presi dalla strada. Sono più belli della media, e poi sono ragazzi di oggi. Per il casting non sono andato in giro per i quartieri cercando quelli storticchi, pelosi e con la bocca sdentata (dettaglio molto “pasoliniano” anch’esso: il sorriso sdentato dell’adolescente in primo piano, ndr.), non intendevo fare la riproduzione meccanica di borgate che, oltretutto, non esistono più. È un mondo che non esiste più. I ragazzi di Accattaroma sono attori, anche piuttosto bravi, tutt’altro che dei borgatari! È vero però che la fisionomia del borgataro ha lasciato un’impronta profonda nel cinema. Franco Citti era molto bello. Era un imbianchino, e Pasolini ne ha fatto un attore. Il suo modo di camminare aveva proprio lo stampo del ragazzo di borgata. È lo stesso modo di camminare che ha il personaggio adulto, che si chiama Vittorio, come Accattone.
Massimiliano Cardia è una vera scoperta. La sua interpretazione dell’adulto, la guida, il narratore e alter ego dell’autore, ha spunti veramente straordinari – cerco di non rivelare troppo del film – e tenta costantemente di fare da ponte fra la memoria del passato, fra la glorificazione pasoliniana del borgataro, e i giovani. A tuo avviso Vittorio riesce in questa operazione?
C’è una specie di salto, di capriola da fare, per raggiungere – cosa che abbiamo fatto – per raggiungere questo risultato. Intanto perché è stato molto bravo. Tutti i ragazzi sono allievi di una scuola di recitazione, ed è lì che io li ho conosciuti, perché ho fatto molti stages con loro. È lì che è nata l’idea di fare un film assieme. Massimiliano è il fondatore di questa scuola, quindi è come se ci fosse già in partenza un rapporto fra dei seguaci e una guida. Però nel film si manifesta qualcosa di molto diverso da quanto succede in una scuola di recitazione; il personaggio di Vittorio vuole assolutamente che i giovani che lui conosce, e che frequentano la sua strada, conoscano le storie del passato; quelle del passato sono le storie dei racconti pasoliniani. Sono le storie di Accattone, di “Stracci”, il protagonista de La ricotta, di Mamma Roma. Sono queste storie che secondo lui meritano di essere tramandate. Inoltre Vittorio si è messo in cammino per andare a Rio della Grana. Si tratta di un racconto di sei pagine di Pasolini, che lessi da ragazzo e ne fui molto colpito. A metà fra racconto e sceneggiatura, fa parte della raccolta “Alì dagli occhi azzurri”, libro fantastico. E questo titolo mi è sempre rimasto come un’eco nella mente. Rio è un fiume – in realtà per qualche vecchio che ne aveva allora il ricordo, era un rigagnolo, forse un canale di scolo – e la grana è il sogno, quel che non c’è mai, il denaro, la “svorta”.
Esisteva realmente il Rio della Grana?
Stando al racconto di Pasolini sì, cinquant’anni fa. Sono andato anche a cercarlo, vent’anni fa. Sarebbe sopra Via Gregorio VII. Pasolini diceva che ci andavano a giocare i ragazzini ed era accanto alla borgata del Gelsomino. La borgata non esiste più, ma c’è Via del Gelsomino. Rio della Grana e la borgata del Gelsomino si trovavano a nemmeno mille metri dalla camera da letto del Papa. Via Gregorio VII è sopra Città del Vaticano, dunque doveva trovarsi lì. E proprio dalla terrazza sopra San Pietro che abbiamo girato l’inquadratura finale.
L’inquadratura fissa finale, pregevole, mi ha ricordato Empire di Andy Warhol…
Girandola ho pensato a Mamma Roma. Quando si vuole gettare dalla finestra dopo aver saputo della morte del figlio Ettore, e viene trattenuta a stento, dalla finestra si vede la cupola di San Pietro; poi a tutte le inquadrature fisse del cinema underground. E ai road-movie fatti a piedi: come in Satantango di Bela Tarr, dove si vedono degli uomini che camminano, e intanto il tempo passa.
In uno dei sogni Nicoletta vede tutti i suoi amici come dei morti viventi. Questo metaforizza la loro condizione di anime perse, di inattivi, questo deambulare senza senso e senza scopo tutto il giorno, il loro perdersi nell’acquario della canicola?
In realtà è scherzoso; è Nicoletta che si diverte a vederli così. Perché lei ha delle ambizioni piccolo borghesi: “se mio padre nun era morto, io facevo la maestra de’ scola” e invece è condannata ad accompagnarsi con un morto di fame senza una lira… Per esempio due di questi ragazzi fanno i “trovatori”. Che mestiere è, il trovatore…? Trovare cose per strada e andare a rivendersele.
L’Italia tanto amaramente criticata da Pasolini sullo sfondo di questa poetica borgata, perché nel tuo film riecheggia la requisitoria pasoliniana, quest’Italia piccolo-borghese pensi che abbia vinto o perso? Oppure ha vinto il poeta che la rappresentava, così arida e speculatrice?
Il poeta è rimasto un poeta, ma non ha vinto niente. Intanto perché è morto in maniera tragica, truculenta. È sempre molto difficile parlare di Pasolini, perché è conosciutissimo, popolarissimo, non so quanto amato veramente… È diventato un brand, e questo è esattamente il contrario di quel che avrebbe voluto.
Quindi alla fine è proprio la piccola borghesia ad avere prevalso, e sono dei piccolo-borghesi a lodarlo oggi ed a organizzare anniversari e celebrazioni. Paradossalmente Accattaroma, pur dichiarando fin dal titolo questo tributo, riesce ad essere un film molto originale ed equilibrato, anche molto godibile per lo spettatore. Il maestro Piovani si è innamorato ex post del film, vedendo il girato, o è stato coinvolto dall’inizio nel progetto?
Quando ho finito il primo montaggio l’ho chiamato, lo ha visto e ha aderito, in maniera molto amichevole e generosa.
La prima uscita di Accattaroma è stata al Festival del Cinema di Roma
Sì, nella sezione Freestyle.
Va dato atto al Direttore e agli organizzatori di avere ancora la voglia e la forza di presentare questi film particolari, autoriali, di dedicare al cinema d’arte un pezzo di red carpet.
Ad ogni modo Accattaroma sarà distribuito, a partire da febbraio, in tutte le sale, certamente nei capoluoghi; non si limiterà ad una circolazione d’essai.
I più fervidi auguri alla tua opera Daniele, sperando di vederne molte altre ancora!
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