American Psycho
Copertina della prima edizione in lingua inglese del romanzo "American Psycho" di Bret Easton Ellis

American Psycho di Bret Easton Ellis. Un caso di ferocia maschile

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Con questo articolo del nostro Franco Garofalo vediamo il nesso tra American Psycho e la ferocia maschile di cui questo romanzo divenuto un classico dell’era contemporanea sembra esprimere un variante molto particolare.


Una critica che è sempre possibile rivolgere alle opere d’arte, di ogni magnitudine e di ogni tempo, è che esse ci ingannano, poiché l’opera d’arte, per certe caratteristiche che le sono proprie, tende a rappresentare uomini, cose e stati relativi più belli di quanto non siano in realtà.

Ciò equivale alla norma, se consideriamo l’arte in tutto il suo sviluppo storico; ma esiste pure un più piccolo gruppo di opere le quali, all’opposto, manifestano la tendenza a rappresentazioni più brutte della naturale bruttezza, o incompiutezza della realtà.

Le opere che si pongono nella dimensione dell’oscenità vogliono appartenere a tale categoria. È ormai noto, in critica letteraria, l’importanza attribuita alla focalizzazione, “alta” o “bassa” a seconda se il narratore – e di conseguenza il lettore – conosce un maggiore o minor numero di fatti del personaggio principale.

Nell’analisi del testo letterario, lo studio della focalizzazione e la validità delle ipotesi sulle strutture narrative è stato davvero fondamentale; a seguire da questa, è stato possibile capire che sicuramente la focalizzazione alta, da narratore onnisciente, che pure ha frequenti e notevolissimi esempi nella storia,[1] oggi appare una delle caratteristiche della narrativa ingenua e dilettantesca, mentre la focalizzazione bassa[2] è un indizio di grande raffinatezza tecnica.

È chiaro che non bisogna nemmeno farsi troppo incantare da tassonomie di sapore quantitativo, ma è innegabile che qualche tentativo di rendere il giudizio letterario meno capriccioso, ed una certa capacità di “pesare” più accuratamente le opere, esprimono meglio il carattere di scientificità della critica.

Bret Easton Ellis, già noto per il suo romanzo d’esordio Less than zero del 1985, scrive con ogni probabilità American Psycho (link al libro, ndr) nel 1990; questa data ha un elevato valore simbolico, dato che è l’ultimo anno dei fatidici Ottanta, e nel contempo reca la cifra del decennio seguente: questa cifra è il primo mutante che lavora, impercettibilmente, nel sottofondo dell’opera. Ellis affermava e forse invocava, sul finire della decade, l’estinzione dell’esperienza che l’aveva reso il decennio-tipo, l’immortale ed immorale tipo del disimpegno e della prepotenza affaristica.

Il decennio di Reagan, della Thatcher, della svalutazione galoppante e degli yuppies, presentava una versione aggiornata e tecnologica degli Encroyables resi immortali dalla rivoluzione francese.[3] Questo approccio può dunque dare evidenza alla questione dell’eroe negativo, Patrick Bateman, e alla necessità rigorosa secondo la quale l’eroe di un romanzo, che si propone di essere la sintesi degli anni Ottanta, non poteva non essere un maniaco assassino seriale.

La laicità solo abbozzata e il moralismo di American Psycho

In questo decennio laico, la cui laicità si afferma e deve affermarsi a scapito di concetti, come quelli di solidarietà e carità, derivanti dal cristianesimo, Bateman rappresenta la nullità, la vanità e il conformismo ricercati con ostinazione fanatica perfino nella conversazione, e nei pochi frammenti di idee che in questa devono pur apparire – ovviamente in qualità di comparse e di (uso qui la vera parola magica di quel tempo) immagini di idee assolutamente svuotate di ogni sostanza.

Che B. E. Ellis ambisca ad essere un moralista mi pare facilmente deducibile; che nelle pagine del suo Less than zero risuonino gli stessi echi di sazietà e disperazione di Foe di Coetzee, de Il giardino di cemento o Fra le lenzuola dell’inglese McEwan, del Grande raccordo anulare di Marco Lodoli, o di Altri libertini di P. V. Tondelli, mi sembra più discutibile. Bisogna intendersi sul carattere di moralista di chi vive in un’epoca immoralistica. Oggi le sporcature del personaggio tipicamente Eighties ci appaiono anacronistiche: sesso libero non protetto, droga tollerata, disprezzo degli umili e donne usate come vittime passive sono oggi sregolatezze, prima che terribili, inconcepibili; ma anche l’ossessivo ricorso alla lavanderia cinese da parte di Bateman dopo le orge di sangue per salvare.

In Altri libertini ci sono i ragazzi di allora che avevano modo di guadagnare qualche soldo seducendo più maturi gays, i quali trovavano a loro volta, nei cortei e nei concerti, una riserva praticamente inesauribile di adolescenti disponibili a contatti carnali.[4] Questo il clima. È a fronte di questo relativismo diffuso, perbene, che l’ autore formato dai classici, abituato a pensare che la più fondamentale di tutte le trasgressioni sia la cultura, entra rapidamente in conflitto con sé stesso e inizia a vivere nella scissione fra vissuto e pensato.

La personalità, così sdoppiata e quindi indebolita, non può che ammirare il campione del suo opposto, cioè l’ individuo-massa sradicato, internazionale senza essere cosmopolita. Scrivendo American Psycho Ellis si è assunto inoltre un rischio non indifferente: quello di concepire con la propria esperienza emotiva l’antagonista perfetto, che lo deformerà; il perfetto effimero, un essere talmente up-to-date, talmente al passo coi tempi da diventare, neanche dieci anni dopo, totalmente obsoleto. Che cos’ è il mondo ultramoderno della P & P di Bateman, quando gli smartphone che tutti oggi possiedono non esistevano, o se esistevano, erano grossi obici come il NEC 9000? Che senso ha la febbrile onnipotenza di questi giovani vicepresidenti, se i loro dati si conservavano dentro archeologici Commodore 64? Bateman, come il Dolmancé di Sade è, da questo punto di vista, un melenso puttaniere babypensionato: Dolmancé, in quanto la sua crudeltà comparata al Terrore appare come un patetico balbettamento; Patrick Bateman perché è troppo abile per lasciare in giro anche un solo testimone dei suoi efferati omicidi. Questi, quantunque compiuti, vengono trangugiati e rimossi nell’ implacabile processo digestivo della Grande Mela, e pertanto non esistono. Bateman, posseduto dal furor delle baccanti, non ha neppure un lucido ricordo del numero delle sue vittime: e anche quando gli sembra di potersi aggrappare alla certezza di aver ucciso e smembrato un suo collega d’ affari, Carnes, il suo avvocato, sbagliando il suo nome, gli nega anche il piacere di questa confessione.

“No!” urlo. “Stammi a sentire, Carnes. Ascolta. Stammi a sentire, molto attentamente. Io ho ucciso Paul Owen, e mi ha dato un enorme piacere, ammazzarlo. Sono stato io, Carnes. Gli ho spiccato la testa dal collo. Potrei essere più chiaro di così?” Parlo con tanta foga che mi strangolo.

“Ma è semplicemente impossibile,” dice Carnes scansandosi. “E poi la cosa non mi diverte più.”

“Ma non deve mica essere divertente!” Esclamo. Poi soggiungo: “Impossibile, perché?”

“Perché è impossibile,” dice, guardandomi con aria preoccupata.

“Perché no?” grido, al di sopra della musica. [ … ]

Mi guarda come se fossimo entrambi sottacqua, e mi risponde a gran voce, scandendo bene ogni parola, al di sopra del brusìo: “Perché… ho cenato… con Paul Owen… due volte, a Londra… Appena dieci giorni fa.” [5]

Una regola teorica del diritto penale afferma: perché vi sia un crimine, deve sussistere almeno una fra tre condizioni: movente, vittima, corpo del reato. In assenza completa di queste condizioni il crimine, quantunque perpetrato, non è comprovabile. Ma il destino di Bateman va ancora oltre. Egli può, deve, dubitare di aver fatto ciò che si attribuisce, sebbene ricordi truculenti gli indichino il contrario; indicano cioè, che lui è un mostro. Ma questa è altra questione. La mostruosità è un relitto di identità cui Patrick si aggrappa per essere qualcosa di differente, per essere qualcosa… Ma andiamo con ordine.

Io pongo sottilmente al lettore, in ogni momento della lettura, il problema della identità: che cos’è il mio essere, e soprattutto, chi è? La questione in filosofia è annosa, e non è il caso di sollevarla in tutta la sua ampiezza, cosa che ci costringerebbe ad un lungo e tedioso elenco di luoghi topici. Mi limito all’essenziale.

Tu affermi Sono una cosa che pensa: ben detto. Infatti, per il fatto che penso, oppure che ho un pensiero (phàntasma) sia quando sono sveglio, sia quando sogno, se ne deduce che sono pensante; la stessa cosa infatti significano penso e sono pensante. E per il fatto che sono pensante ne segue che io sono; perché ciò che pensa non è nulla. Ma quando l’ autore soggiunge cioè sono mente, animo, intelletto, ragione, nasce il dubbio. Non sembra infatti una giusta argomentazione dire: io sono uno che pensa, e dunque io sono un pensiero;io sono intelligente, dunque io sono un intelletto. Infatti allo stesso modo potrei dire sono un passeggiante, quindi sono una passeggiata.

Risposta di Cartesio:

Dove ho detto: cioè mente, animo, intelletto e ragione, non ho inteso indicare attraverso questi nomi le sole facoltà, ma le cose dotate della facoltà di pensare come tutti intendono comunemente per i due primi, e frequentemente per i due seguenti; e questo l’ho detto in maniera così chiara e l’ho spiegato in tanti punti che non sembra vi sia stata occasione di dubitarne.

Né qui vi è un rapporto tra la passeggiata e il pensiero; poiché col termine passeggiata intendiamo soltanto l’ azione; col termine pensiero invece indichiamo talvolta l’ azione, talvolta la facoltà, talvolta la cosa in cui vi è la facoltà.[6]

La famosa obiezione al cogito cartesiano di Th. Hobbes, il cosiddetto argomento “della passeggiata”, intende mettere in problema non che il soggetto sia qualcosa, ma che cosa il soggetto sia: se cioè esso sia, come afferma Cartesio, intelletto, mente – e, nel senso cartesiano, ciò significa ente di ragione ancora privo di corpo. Questo è per Hobbes inaccettabile. Il soggetto, specie se capace di conoscenza, deve essere anche un corpo. Al contrario, per Cartesio ciò non è affatto necessario. Ma allora, cos’ è il corpo?

Per Cartesio, esso è ciò che possiamo conoscere esclusivamente dall’ esterno. Se infatti vogliamo declinare l’ umanità di un uomo, dovremo cercarla esclusivamente nel suo pensiero, poiché questo è simultaneamente la facoltà pura, l’ atto di avere pensieri, l’ ente che pensa. Il corpo invece, compreso il nostro stesso corpo, dovremo trattarlo alla stregua di ogni altra machina, verificarne il funzionamento, osservarne la dinamica o l’ inerzia, distinguerne e classificarne le parti. In altre parole per Cartesio, e per tutta la coscienza occidentale che in qualche modo si fa derivare dal cogito, il corpo è opaco, preumano e non sostanziale.

Questa premessa fonda la concezione moderna e borghese di corpo. Esso, che non è sostanziale, è quindi un accidente; e non solo per la facilità con cui muta figura e qualità, ma perché privo di identità ontologica. La mente, per Cartesio, non è la mente del corpo, ma è mente in sé, pura dimensione mentale; essa conduce il corpo e vi si accompagna, non appartenendogli in nessun modo.

Vi è tutto il preludio non scritto del romanzo, pur ponderoso, di Ellis, che potrebbe corrispondere a questo ragionamento. Bateman in questo scenario – peraltro interdetto alla scrittura minimalista, per il divieto assoluto di ragionamento astratto in questo modello narrativo –  si accorge a un certo punto di essere privo di pensieri propri; e, conseguente al suo sistema di valori innatus o addictus, dubita di esistere e quindi oppone un rifiuto radicale, metafisico, all’ idea di essere un ente separato dal suo stile di vita, dalle sue abitudini alimentari, dai suoi amici. Ma qualcosa di nuovo si agita dentro di lui; il corpo, così tirannicamente sottomesso, vuole venire all’ esistenza attraverso l’ unica porta disponibile: l’ azione. L’ azione è del corpo, gli conferisce identità. Il tenace allenamento dei fasci muscolari non è il mero esercizio estetico della cura di sé, ma esige una destinazione, un impiego: per la stessa inesorabile natura della concezione utilitaristica – che forma una parte consistente dell’ eredità culturale nordamericana – l’ impiego più completo del corpo scrupolosamente addestrato è la distruttività, poiché essa contiene il maggior numero di variabili impreviste ( l’ imboscata, il colpire, la lotta, lo scempio della vittima ) che possono mettere alla prova le capacità di reazione del corpo.

Perversamente, il movente di Bateman è del tutto analogo a quello dei supereroi dei fumetti i quali, dopo essersi lungamente addestrati per superare qualche handicap iniziale (la timidezza di Clark Kent/Superman, la cecità di Devil nella serie della Marvel, il taedium vitae del miliardario Bruce Wayne/Batman) devono passare all’ azione, sennò sentirebbero di essere un puro spreco di potenti energie identitarie.

Voglio inoltre far qui osservare l’ estremo interesse dell’ espressione phàntasma, riferita da Hobbes alle idee o ai pensieri. Essa mette in gioco il carattere fantasmatico del pensiero, il suo essere “scorrevole” come la materia, ma su un diverso piano. Questo phàntasma forma un curioso contrasto con il nome che Ellis dà all’avvocato di Bateman, “Carnes”. Sappiamo che in inglese meat, nel senso di carne alimentare, e flesh in quello di carne umana, traducono il nostro vocabolo “carne”. E’ tuttavia impossibile negare con sicurezza che il nome Carnes contenga un’ allusione di qualche tipo, poiché tutta l’ opera è attraversata da giochi linguistici che rimandano ossessivamente all’ idea di una carne umana come elemento inorganico.

Hobbes, nell’atto stesso di pensare il phàntasma come la parvenza delle idee, attribuisce ad esse una tenuità sensibile che non aggiunge nulla alla natura delle idee, mentre le subordina agli oggetti dell’ esperienza. Il filosofo rileva la relativa debolezza dell’ idea nel suo presentarsi come sensibile fra oggetti sensibili; Cartesio sembra aver invece chiaro che le idee stanno sopra, cioè presiedono alla percezione di oggetti. Mentre il carattere fantasmatico della materia ci è nascosto dal suo presentarsi immediato come interazione-con-noi, il pensiero, che non crea un intralcio istantaneo, sensibile, appare irretito nella fantasmaticità, fonte di inganni che ha, per estremo effetto, la solitudine, una forma oscura di malattia.

Il pensiero dunque è malattia, la filosofia è malattia, e meglio sarebbe non essere mai nati, se si è nati per pensare: è la nausea di sapere di cui parla Cioran.[7] Naturalmente, nella versione di Patrick Bateman, la disperazione della mente diviene il tripudio del corpo e della sua capacità di delinquere.

[1] Dei molti esempi di focalizzazione “alta” che si potrebbero fare, mi viene in mente il ciclo di quattro romanzi Storia contemporanea, di Anatole France, in italiano Einaudi, 1976.

[2] Nella Recherche  Marcel Proust costruisce un gioco assai complesso sulla focalizzazione, portando il Narratore da una consapevolezza degli eventi “bassa”, ad una alta ed onnicomprensiva, ne Il tempo ritrovato.

[3]Thomas Carlyle, The French Revolution, (https://www.ibs.it/french-revolution-libro-inglese-thomas-carlyle/e/9780198815594?lgw_code=1122-X9780198815594&gad_source=1&gclid=CjwKCAiApaarBhB7EiwAYiMwqox3v1mvhLrQCCV1WEaABp5n9xgKLGrchfidjHUvGh35I0_qOc4yYBoCibgQAvD_BwE)

[4] TONDELLI P. V., Altri libertini, Feltrinelli 1987 (https://www.lafeltrinelli.it/altri-libertini-libro-pier-vittorio-tondelli/e/9788807883811)

[5] ELLIS B. E., American Psycho, Bompiani 1991, trad. di P. F. Paolini. Pag. 426.

[6] Dalle Obiezioni terze di Thomas Hobbes, in CARTESIO R., Meditazioni metafisiche, Armando 1996.

[7] CIORAN E. M., Il culmine della disperazione, Adelphi, 19XX, pag. XX.

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