Donne a pezzi: Barbie e la domanda senza risposta sull’identità femminile

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Pubblichiamo questo scritto dopo l’uscita del film che ha fatto discutere. Non una recensione, scrive l’Autrice, bensì una riflessione su Barbie e l’identità femminile. Per noi è un racconto che si potrebbe intitolare Nascita di una femminista, che trova nelle contraddizioni sia il motivo di essere femministe sia la difficoltà che ciò comporta in un mondo maschile, lineare, un labirinto assoluto, il peggiore che esista proprio nel rettilineo che traccia nel mondo, un’unica strada che non pare si possa abbandonare, pena addentrarsi in un deserto di possibilità. Buona lettura.


Barbie e l’identità femminile. La filosofia dà il meglio di sé quando è messa in relazione con la cultura pop

Ultimamente mi sono ritrovata a pensare molto spesso a cosa fosse una donna: gli estremi dello spettro lungo cui viaggiava la mia mente erano rispettivamente la recente uscita di Barbie (Greta Gerwig, 2023) e la lettura di This Sex Which is Not One di Luce Irigaray. Due poli inconciliabili, si potrebbe pensare. Ma la filosofia sboccia, almeno per quel che mi riguarda, quando si affianca alla cultura pop.

Da un lato, dunque, un mondo zuccheroso, utopico, in cui le donne ce l’hanno fatta e tengono in mano le redini del potere – e lo fanno in maniera tutt’altro che oppressiva e svilente (anche se molti ragazzi con cui ho parlato mi hanno risposto, sull’orlo delle lacrime, che si sono sentiti estremamente attaccati dal modo in cui il “maschio” è stato rappresentato nell’universo di questo nuovo blockbuster. Lacrime di coccodrillo, se chiedete a me, ma questo è un altro discorso.)

Barbie, il film. Questa non è una recensione

Se non avete visto Barbie perché vivete sotto una pietra, o perché per voi l’unico buon cinema è Roma città aperta, ecco un sunto veloce: Barbie è perfetta. Barbie è bionda, stupenda, ha una casa da sogno, e vive in armonia con le altre Barbie e i Ken. Finché un giorno i suoi piedi, i suoi iconici piedi modellati per indossare solo scarpe col tacco, non si schiacciano al suolo. Barbie ora cammina come una donna. Non finisce qui: Barbie inizia ad avere pensieri sulla morte, sulla finitezza e effimerità della vita, e, quel che è peggio, le sue cosce perfette si riempiono di cellulite. Tutta una serie di elucubrazioni esistenzialiste che non si abbinano bene alle borsette rosa (forse). Barbie, dunque, attraversa una vera e propria crisi ormonale, una sorta di menopausa di plastica. Per tornare alla normalità, Barbie deve attraversare tutta Barbieland e arrivare al mondo reale, e trovare la bambina che sta giocando con lei (tramite una serie di parallelismi fantascientifici che, devo essere onesta, non ho capito).

Come si potrà intuire a breve, questa non vuole essere una recensione del film, bensì una (pleonastica) riflessione scaturita dalla sua visione.

Lasciamo Ken da parte, visto che gli uomini che hanno visto il film sono ancora in un angolino a leccarsi le ferite. Parliamo di donne. Quando ho scoperto che sarebbe uscito un film su Barbie ho letteralmente squittito dall’entusiasmo. Ho pensato che fosse finalmente un’occasione per parlare di donne – donne in quanto donne, donne e basta – su uno sfondo pop, colorato ed esteticamente molto appagante.

Faccio un passo indietro.

Nascita di una feminista

Quando ho scoperto la parola “femminismo” ero in seconda media ed ero convinta che indicasse lo schieramento dalla parte delle donne o da quella degli uomini. Una sera, a cena, annunciai a mio padre con orgoglio da accademica che mi definivo femminista perché, a conti fatti, mi sembrava che le donne ontologicamente fossero migliori degli uomini: a mia discolpa, l’unico esempio empirico di uomo che avevo a disposizione aveva in media quattordici anni, una passione per le battute sconce e un afrore prepuberale insensibile al più efficace sapone di Marsiglia. Le donne, per come le immaginavano, giocavano in un campionato completamente diverso. Mio padre, sentendo queste parole, deve aver appoggiato il cucchiaio della minestra sul piatto, stanco come Dio, e deve poi avermi chiesto da dove avessi tratto queste conclusioni. Purtroppo (o per fortuna) non ricordo ulteriori sviluppi di quella conversazione.

Successivamente, al liceo, entrai in contatto con il femminismo dei social, fatto di liberté, égalité, fraternité e autodeterminazione, ma soprattutto di repulsione decisa di qualsiasi effetto o suppellettile che vagamente riconducesse al genere femminile. Allora, come alle medie, “essere una femmina” era la peggiore definizione che ci si potesse attribuire. Non era così illogico, se ci pensate: l’esempio di rispetto e successo lo ponevano sempre i maschi. Le femmine, invece, nell’immaginario collettivo, avevano più terra in faccia che sotto i piedi ed erano frivole, meschine, false come monete da tre euro. Allora si “lottava” per il diritto di non riconoscersi nella propria femminilità.

Lentamente, con un’informazione più precisa e il supporto di donne incredibili, mi lavai di dosso quella patina incattivita. Iniziai ad abbracciare tutte le parti di quella femminilità che prima avevo così orgogliosamente ripudiato: indossare il rossetto rosso per andare a scuola divenne un atto politico. Voleva dire “io sono donna, non ho paura di essere femminile e non potrai mai farmi sentire inferiore per questo.” Leggevo di tutto, a quei tempi, dalle neuroscienze a Shakespeare, perché volevo che, nel caso in cui il mio aspetto femminile mi avesse fatta sembrare stupida, la conoscenza di tutto mi avrebbe salvata. La preparazione su qualsiasi fronte divenne il mio scudo, il mio passe-partout per essere presa sul serio da tutti, soprattutto dai maschi. Sì, esatto. Perché a diciassette anni ero orgogliosamente femminista, ma ritenevo assolutamente necessario che i maschi mi accettassero nel circolo delle persone importanti. Forse pensavo che fosse l’unica cosa veramente importante che avrei mai potuto fare nella mia vita. Le regole per sedersi alla Tavola Rotonda le detenevano, ora come allora, solo loro, e io volevo a tutti costi uno sgabello lì.

Non so cosa sia cambiato, quando ho iniziato l’università

Forse mi sono semplicemente stancata di mascherarmi continuamente. Riflettevo, alle lezioni di Linguistica Generale che non ho mai ascoltato, sul fatto che essere donna per me era ormai diventato un continuo spogliarmi di pelli di serpente che si facevano sempre più scomode, solo per vivere secondo i modi e la società dei maschi. Io crescevo, mi espandevo, mi allargavo, ed arrivava sempre il punto in cui il maglione di letture ed esperienze che intrecciavo iniziava a cedere sotto le spinte della mia propagazione di essere umano. E come Penelope, mi toccava disfare tutto daccapo, facendo attenzione a non rompere nulla; disfacevo le trame di quella che ero stata e pensavo a nuove sequenze con cui intrecciare le vecchie conoscenze con le nuove, lasciando spazio per il futuro.

All’oggi, devo essere onesta, mi trovo con le dita piene di gomitoli sciolti, una massa sconclusionata di fili, e mi sembra che un lapsus fulminante mi abbia privata della capacità di filare questi materiali.

Colpa di Barbie, colpa di Luce Irigaray, colpa di mille altre cose che iniziano a farti dubitare del modo in cui hai sempre percepito te stessa e il mondo; complici persino innamoramenti che ti scombinano meridiani e paralleli.

Non ho intenzione di offrire un parere sul film, né sul saggio di Irigaray – non sono titolata per fare nessuna delle due perché 1) sono una studentessa di teatro, 2) non so trovare le parole per descrivere l’impatto che quella lettura ha avuto su di me. Posso dire solamente che ho comprato il biglietto per Barbie più velocemente possibile perché avevo fame di risposte: volevo un film scritto, prodotto e diretto da una donna che mi dicesse: “ecco che cos’è una donna.”

Da questo punto di vista, con gli occhi ancora pieni di fotografia e costumi eccezionali, sono rimasta delusa.

Mi aspettavo un film sulle donne, e ho visto un film femminista

Non c’è assolutamente nulla di sbagliato nel produrre un film femminista, sia ben chiaro: ma il mio bisogno non era legato alla volontà di immaginare un mondo parallelo in cui le donne avessero diritti e doveri dignitosi. Non volevo una propaganda che mi mostrasse che le cose possono andare così, se continuiamo a lottare. Forse questo fa di me una pessima femminista.

Il mio era un desiderio più profondo, più radicato, più obliquo.

Ho trovato una risposta parziale leggendo Luce Irigaray, come dicevo – se mai si potrà trovare una risposta a questa questione, s’intende: “le donne costituiscono l’irrappresentabile. In altre parole, le donne rappresentano il sesso che non può essere pensato, un’assenza e un’opacità linguistica.”

Ho dovuto abbassare gli occhi dalla pagina e fissare il muro per un po’.

Per quanto assurda, per quanto queste brevi frasi non facessero che designare un concetto confuso dalla forma affatto definita, mi sono sentita acquietata per un po’. In un mondo di uomini, ho pensato, una donna che non vuole stare alle loro regole è un concetto astratto. Non ci sono le parole per definirla, per stilare una lista ciò che la compone. L’evidenza è di fronte a te, empiricamente la si conosce e di certo viene assorbita dal nostro cervello: ma si ferma lì dentro. Non la si può esprimere con questi termini, con questi vocabolari meravigliosi, ricchi e vasti che gli uomini hanno creato. In questa società, in questi termini che decretano successo, fallimento, aspirazioni e strade da seguire, dobbiamo giocare secondo le regole degli uomini, se vogliamo giocare: sia che decidiamo spontaneamente di essere madri, mogli, devoti angeli del focolare, sia che vogliamo aprire un’impresa e diventare capitane di azienda.

Non è facile essere una femminista

E ancora, spesso bisogna mostrare di propendere sempre per la seconda possibilità, altrimenti si viene subito additate come “ancelle del patriarcato”. I fantasmi di Emily Wilding Davidson e Carla Lonzi si siedono sulle tue spalle e giudicano ogni tua mossa. Non è facile essere una femminista: l’impressione è quella di camminare in un campo minato a passi lenti, incerti, sapendo che se sfiori una mina anche solo con la punta dell’alluce potresti saltare in piedi; e credo che ciò sia imputabile al fatto che, come donne, dobbiamo stare attentissime ad essere coerenti e precise anche nella protesta. Non ci è consentito di essere sconclusionate, sottosopra. Cambiare idea, tornare sui nostri passi, capire di avere sbagliato non sono opzioni contemplabile, perché subito offre il fianco tenero alle lance degli obiettori, di persone così incapaci di ascoltare e considerare prospettive diverse dalla propria che preferiscono farti sentire inferiore, usano qualsiasi mezzo per schiacciarti. Le donne non possono sbagliare. Non esiste il particolare, per noi: la nostra esistenza viene sempre considerata sulla scala dell’universale, perché ogni azione, ogni parola, ogni pensiero ci definisce in toto. Per questo, come diceva Luce Irigaray, e come ha poi ripreso Judith Butler, una donna non si può definire come ente in sé e per sé, come condizione necessaria o sufficiente. O angeli, o Meduse, dentro le mura della società patriarcale.

Non è facile essere una femminista.

Barbie e l’identità femminile, una domanda senza risposta per le donne e fa piangere gli uomini

È un allenamento che ti forza a stare ferma sui tuoi piedi e nelle tue posizioni anche quando tutto intorno a te ti dice che ti stai sbagliando. Ed è anche il senso di colpa quando ti guardi troppo allo specchio e fai commenti infelici sui tuoi fianchi, ma anche l’appagamento che ti intiepidisce le guance quando ricevi un complimento. Tra Barbie e l’identità femminile cade l’ombra. È un continuo andare contro natura, contro te stessa, contro gli altri. Non credo che sia l’ideologia femminista il problema, quanto piuttosto il concetto di ideologia in sé. È anche vero che, senza una rigida schematizzazione politica, un film come Barbie avrebbe raggiunto con molta più fatica le masse in un modo così totale e puntuale. E da un lato sono soddisfatta che molte persone abbiano preso la visione del film come un invito a interessarsi maggiormente alle cose delle donne; non posso nemmeno negare di non aver sorriso compiaciuta quando, a una tavolata di ragazzi della mia età, ho assistito alle discussioni del maschio ferito che si è sentito estremamente alienato dalla rappresentazione, accusando Greta Gerwig di aver minacciato il proprio stato di essere umano e di aver allargato la frattura tra uomini e donne. Avrei voluto dirgli: “Giacomo, non è stata Greta Gerwig, è che abbiamo costantemente paura di essere stuprate e ammazzate, non preoccuparti.”

Niente di personale, signori uomini. Ho solo trovato incredibilmente buffa l’indignazione che ha preso una certa porzione del sesso maschile quando per una volta non sono stati messi al centro del discorso. E che ha dimostrato la fragilità di quel particolare tipo di ego davanti a una satira attuale in cui per una volta non si mette alla berlina la classica oca bionda e ricca.

Direi che dopo decenni di commedie americane che ci hanno dipinte come dee imbecilli o accademiche bruttine (senza nessuna via di mezzo), avrebbero potuto racimolare qualche cc di pazienza per incassare il colpo in maniera più elegante. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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