Dio di illusioni di Donna Tartt

La trappola della bellezza: “Dio di illusioni”, di Donna Tartt

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Un gruppo di ragazzi privilegiati che hanno tutto e potrebbero avere anche di più; apparentemente intoccabili, che scelgono di rinchiudersi in un a bolla, luccicante e perfetta. Protetti, almeno in apparenza, dallo scudo inscalfibile della bellezza, che dall’esterno li rende irresistibili.

Fino a quando ci si avvicina, e si rende conto che quella bellezza è effimera. E cosa fare quando la bolla scoppia e si corrompe in bruttura?

Il caso editoriale che rivive sui social: Dio di illusioni di Donna Tartt

È questa la premessa di Dio di Illusioni di Donna Tartt, caso editoriale degli anni Novanta che spopola sui social, vivendo una vera e propria reinassance, fino a diventare simbolo e manifesto dell’estetica Dark Academia e forse l’opera più famosa di Tartt (qui il libro)

È stato l’esordio di Donna Tartt, una delle principali scrittrici statunitensi contemporanee. Nel 2014 la sua penna è stata ufficialmente consacrata con la vittoria del premio Pulitzer per la narrativa con il romanzo “Il Cardellino”.

Ma cos’ha di speciale “Dio di Illusioni”?

È un romanzo elegante, dalle atmosfere misteriose e personaggi affascinanti, costellato (e originato) da richiami alla cultura classica, il fulcro degli avvenimenti. Tutto ciò crea una cornice impeccabile, superba e inaccessibile, dove i più bassi istinti umani vengono sfogati. È proprio questa catarsi a costituire il successo dell’opera di Tartt.

La trama è lineare: Richard Papen, ragazzo californiano vissuto tra abusi e grigiore, arriva nel prestigioso Hampton College, in Vermont, ed è da subito attratto dagli affascinanti membri dell’elitaria classe di greco.

Sono cinque ragazzi che sembrano usciti da un’altra epoca, o meglio da un altro universo: eleganti e misteriosi, che godono della guida del loro carismatico docente, Julian.

Richard ne rimarrà incantato, e sarà disposto a qualunque cosa pur di entrare nella loro cerchia, anche perdere se stesso.

Sempre con un piede dentro e uno fuori, mai pienamente parte del gruppo, Richard assisterà a eventi che lo segneranno a vita e che lo macchieranno per sempre: tra tutti, quello che apre il romanzo.

La neve sulle montagne si stava sciogliendo e Bunny era già morto da molte settimane prima che arrivassimo a comprendere la gravita della nostra situazione. Era già morto da dieci giorni quando lo trovarono, sapete. Fu la più grande battuta della storia del Vermont – polizia dello Stato, FBI, persino un elicottero dell’esercito; il college chiuse, la fabbrica di colori a Hampden serrò i battenti, la gente veniva dal New Hampshire, dal nord dello Stato di New York, addirittura da Boston.

Un gruppo di ragazzi paranoici, inaffidabili e bellissimi. Quando l’inferno è accorgersi troppo tardi della verità

Richard narra in prima persona gli eventi che hanno portato all’omicidio di Bunny, anch’egli membro del gruppo d’élite, ma visto come l’anello debole, la nota stonante di un ingranaggio altresì perfetto. In una narrazione paranoica e inaffidabile, il lettore assiste alla lente discesa nella follia del gruppo e di Richard, accecati da ideali di bellezza che li condurranno in un viaggio verso l’inferno.

Convinti della loro invincibilità, accecati dalla hybris, voleranno anche loro troppo vicino al sole, e le loro fragili ali di cera si scioglieranno, facendoli schiantare a terra.

Dio di illusioni di Donna di Tartt è ascrivibile al genere del thriller, in quanto gli elementi ci sono tutti, ma è innanzitutto una storia in cui i personaggi pretendono di schiodarsi dalle norme sociali: le rifiutano e le ignorano, preferendo l’isolamento e l’autosuggestione, la ricerca di mondi fantastici raggiungibili solo abbandonando la propria essenza umana, fino al momento in cui si scontrano con la più terrena delle cose: la morte.

I cinque (il calcolatore Henry, l’eccentrico Francis, l’enigmatica Camilla, il socievole Charles e lo spensierato Bunny) escono, in realtà, come delle statue, dalla descrizione che ne fa Richard. Magnifici, ma calchi della realtà, fissi nella loro essenza monodimensionale.

A partire dalla prima interazione con il gruppo della classe di greco, che Richard descrive come personaggi di un quadro che si girano a guardarlo. Un rapporto, il loro, che non sarà mai da pari.

Non ho ora né ho mai avuto niente in comune con nessuno di loro, niente eccetto la conoscenza del greco e l’anno della mia vita che ho passato in loro compagnia. E se l’amore è una cosa vissuta collettivamente, suppongo che avessimo anche quello in comune, sebbene mi renda conto che ciò possa sembrare strano alla luce della storia che sto per raccontare.

Gli stessi personaggi vengono trattati come esseri ultraterreni, divinità venerate da Richard, l’unico uomo della storia, che cerca in tutti i modi di ottenere la loro benevolenza.

Ma la sua è una percezione distorta: perché nonostante la loro particolare apparenza, anche i suoi beniamini sono profondamente umani, e non nel senso positivo nel termine, come scoprirà anche lui.

La morale, in Dio di illusioni, è un mero orpello. Viene deformata a seconda del bisogno, e il bisogno primario di Richard è quello di far parte di qualcosa, di sentirsi importante, un eroe. Anche se il prezzo da pagare è la propria umanità.

Confinato al ruolo dello spettatore, la narrazione in prima persona di Richard, che avviene svariati anni dopo gli avvenimenti, è simile a un sogno per alcuni punti, a un incubo per altri.

La magistralità della penna di Tartt sta qui, nel descrivere avvenimenti agghiaccianti con fredda eleganza, dipingendo un ritratto magistrale e impeccabile che ci restituisce uno scenario terrificante

La morte è la madre della bellezza – disse Henry.

E cos’è la bellezza?

Terrore.

Ben detto! – esclamò Julian – La bellezza è raramente dolce o consolatoria. Quasi l’opposto. La vera bellezza è sempre un po’ inquietante.

In Dio di Illusioni la bellezza nasconde sempre un lato marcio. È una trappola: una ragnatela luccicante tessuta in modo da catturare ignari insetti. Richard è uno di loro: e per quanto sia riuscito a scappare, rimarrà indissolubilmente legato alla classe di greco e all’anno trascorso con loro – quella che è “l’unica storia che potrà mai raccontare”.

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