Il fato ci ha portato via questa volta il novantatrenne regista e sceneggiatore Giuliano Montaldo, giusto durante i giorni in cui la Mostra del Cinema di Venezia – giunta all’ottantesima edizione – è in pieno svolgimento. È comprensibile che a coloro che sono diventati adulti negli ultimi venti anni il suo nome non dica molto, se non attraverso le storie del cinema o i dibattiti occasionati dalle presentazioni del restauro di suoi film. Eppure Montaldo è stato, oltre che un professionista d’indiscutibile talento, un protagonista dell’internazionalizzazione del nostro cinema nei suoi anni migliori.
Giuliano Montaldo, gli esordi e la personale indipendenza negli anni del compromesso storico
Proprio a Venezia, infatti, Montaldo esordisce nel 1961 con Tiro al piccione. Molti anni dopo – essendo uomo dotato di spirito, colto e raffinato – durante una recente riproposizione della sua opera prima avrà a dire che, in realtà, il piccione evocato dal titolo era lui. Se ne comprendono le ragioni. L’Italia degli anni del boom economico era l’espressione di diversi compromessi, congegnati a partire dalla liberazione e conseguente nascita della repubblica. Uno di queste leggi non scritte che non appaiono nella Costituzione sanciva che in cambio dell’egemonia politica della Democrazia Cristiana, per poter formare governi in forza di una maggioranza relativa sempre, appunto, piuttosto relativa, il potente Partito Comunista Italiano (il più forte numericamente e il più ricco dei partiti comunisti dell’Europa occidentale) avrebbe esercitato l’egemonia culturale, oltre alla possibilità di sviluppare in talune regioni del centro Nord, Emilia Romagna e Toscana in particolare, un proprio esperimento di capitalismo socialista basato sulla rete del cooperativismo. Questo tacito accordo, seppure non gradito, aveva passato l’esame da parte del principale alleato del sistema NATO, cioè gli Stati Uniti, i quali restavano tuttavia categoricamente contrari ad ogni forma di associazione del PCI al governo nazionale.
Questa premessa era necessaria per descrivere in che modo Montaldo fosse organico al partito, come molti intellettuali e artisti della sua generazione; senza tuttavia mai rinunciare alla propria indipendenza nella scelta e sviluppo dei temi, tesa insomma a salvaguardare la sua autonomia creativa. L’esempio di Tiro al piccione è paradigmatico. Il film narra la vicenda di Marco, un giovane che dopo l’armistizio dell’ 8 settembre si arruola nell’ esercito della Repubblica Sociale Italiana. Si deve comprendere che un simile soggetto, nel 1961, veniva considerato decisamente provocatorio. Il guru dell’ortodossia comunista di allora, Mario Alicata, scrittore e occhiutissimo critico cinematografico, che era stato sceneggiatore di Ossessione, l’opera prima di Luchino Visconti, nonché membro della direzione del partito e dal 1962 direttore dell’Unità, ebbe a scrivere a proposito del film d’esordio di Montaldo “con la Guerra di Liberazione non si scherza”: evidente l’intenzione di bacchettare il giovane regista.
La trilogia che portò la fama. Visconti come riferimento, la singolarità dei temi e il genere spaghetti-war
Per celebrare lo scomparso ci focalizzeremo sulla trilogia che gli dette molta e giusta fama, nazionale e internazionale: Gott mit uns del 1970, Sacco e Vanzetti del ’71 e Giordano Bruno del ’73; con un’escursione critica su di un altro singolare film del 1989, Tempo di uccidere, tratto dall’omonimo romanzo di Ennio Flaiano.
Il tema scelto per Gott mit uns riecheggia la propensione di Montaldo per visioni laterali, angolature inusitate e letture originali dei fatti storici. A grandi linee si può far rientrare l’opera in un sottogenere, lo spaghetti-war, ancora fluido e indefinito nel 1970, a patto però di considerarlo uno dei prototipi del genere stesso: non sarà vano ricordare che proprio l’anno prima era uscito La caduta degli dei. Si può quindi ritenere il cinema di Visconti – che navigava in acque decisamente superiori e con ogni nuovo film rinnovava il suo prestigio di Maestro – un punto di riferimento anche per Montaldo. Nondimeno il tema di Gott mit uns è davvero singolare.
Nell’edizione francofona il titolo è stato tradotto All’alba del quinto giorno, e chiariremo perché. Un campo di prigionia nelle Fiandre, subito dopo la capitolazione della Germania nella Seconda guerra mondiale è gestito da un reparto dell’armata canadese. Due disertori tedeschi, il veterano Bruno Grauber e il giovane caporale Rainer Schultze, dopo un fallito tentativo di fuga a piedi si consegnano ad un militare canadese, Jelinek. Sono sicuri che comunque vada non la prigionia, ma la guerra per loro come per tutti sia finita. I canadesi e il comandante, capitano Miller, faticano molto a mantenere l’ordine fra i prigionieri. Un alto grado tedesco, colonnello von Bleicher, aizza continuamente i suoi soldati contro coloro che non ha cessato di considerare il nemico. Von Bleicher è peraltro attentissimo a verificare la puntuale applicazione delle convenzioni di Ginevra da parte dei guardiani. La situazione sembra sfuggire continuamente di mano ai canadesi, al punto che Miller decide di applicare la forza e spaventare i prigionieri con scariche di mitraglia esplose appena sopra le loro teste, danneggiando seriamente le baracche. La tensione raggiunge il massimo quando von Bleicher chiede di poter fucilare i due disertori con un proprio plotone d’esecuzione. Miller si rifiuta categoricamente di armare i prigionieri.
Segue il dialogo chiave del film. Il generale Snow, saputo dell’episodio dei colpi di mitraglia, simula una visita improvvisata al campo. Con parole ambigue ricorda a Miller che l’unico modo di preservare la pace è mantenere a qualunque costo la dignità del grado militare; i nemici di oggi saranno gli alleati di domani. Inoltre annuncia a Miller la sua promozione a maggiore. Ce n’è abbastanza per avviarci verso il finale: per quanto incredibile possa apparire, il maggiore Miller autorizza la fucilazione dei due disertori, consegnando ai componenti del plotone fucili con un unico colpo in canna. La fucilazione avviene all’alba del quinto giorno di pace: la legge marziale dei vinti viene imposta ai vincitori. Le fonti dicono che si tratta di un episodio realmente accaduto. Il messaggio sotteso è di semplice lettura, anche se la visione polemica della doppia morale degli Alleati difficilmente sarebbe, oggi, sostenuta da qualcuno, in tempi di accentuato “atlantismo”: fra i militari tedeschi e quelli alleati non c’è poi tanta differenza; il militarismo è un’ideologia trasversale che si fonda su una visione barbarica, teoricamente aborrita dalle “democrazie”, secondo cui il ricorso alla forza per risolvere le controversie fra le nazioni, e non di rado anche le loro crisi economiche, è stato decisivo nel corso di tutta la storia ed è quindi legittimo.
Giuliano Montaldo e “Il cinema civile”. La consacrazione internazionale con Sacco e Vanzetti
Insomma, Giuliano Montaldo si andava accreditando come eccellente autore del cosiddetto “cinema civile”, elaborando con molta personalità il cinema di genere di cui, all’epoca, gli italiani erano certamente dei virtuosi. Non diversamente dalle atmosfere claustrofobiche di Gott mit uns, il successivo Sacco e Vanzetti narra la vicenda – allora poco conosciuta e volutamente dimenticata dalle autorità americane – del processo agli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, i quali nel 1920 vengono rastrellati con altri immigrati e con deboli indizi accusati di un attentato dinamitardo. Dopo un processo durato ben sette anni, durante i quali si dividono nel Massachusetts le schiere contrapposte dei colpevolisti – con argomenti essenzialmente razzistici – e degli innocentisti, viene eseguita la loro condanna a morte mediante sedia elettrica.
Sacco e Vanzetti fu la consacrazione internazionale di Montaldo. Riccardo Cucciolla vinse a Cannes il premio per la migliore interpretazione, e in Italia il film vinse tre nastri d’argento. Impensabile, dato il clima politico, che ricevesse premi negli Stati Uniti; fu però realmente l’epicentro di un vasto, forse oceanico, movimento di opinione e di protesta. Altro motivo per la vasta eco del film fu la colonna sonora di Morricone e la canzone di Joan Baez Here’s to you, poi divenuta l’inno del pacifismo e dei movimenti “alternativi” in America e nel mondo, una sorta di Bella ciao per il suo forte impatto emotivo.
Dal punto di vista del linguaggio filmico Sacco e Vanzetti non si discosta molto dall’immediato precedente e rappresenta una precisa scelta produttiva. Quasi tutto ambientato in celle e aule di tribunale, l’intreccio slitta sapientemente verso la dimensione theatrical, di “film di attori”. Da questo punto di vista lo spettatore non può restare insensibile di fronte all’attenzione filologica della messinscena, ad esempio quando Montaldo descrive la radicale diversità di carattere dei protagonisti: Sacco poco istruito e del tutto a disagio con l’inglese, parla pochissimo; Vanzetti invece, artigiano piemontese autodidatta, protegge il compagno e appare estroverso e tribunizio. Lo scavo caratteriale rende ragione di quanto Montaldo avesse studiato il caso, nonostante le fonti storiche reticenti. E’ bene sottolineare come gli ambienti politici alternativi e radical, allora in pieno rigoglio soprattutto negli USA, adottarono il film quasi fosse un documento di prima mano e non comunque un film narrativo; il colpo di fortuna per sdoganare il “comunista” Montaldo fu, appunto, l’endorsement diretto e indiretto fornito dalla canzone della Baez.
Dal claustrofobico emergono le perle: il Giordano Bruno e l’inquisizione nel nostro tempo
Il terzo pannello della trilogia, Giordano Bruno, è ancora più sinistro e claustrofobico dei primi due; s’impernia su una splendida, irripetibile forse, prova d’attore di Gian Maria Volontè. Questa figura decisiva del nostro cinema migliore non è attualmente oggetto di speciali rievocazioni. Ma il Volontè uomo, scontroso, probabilmente segnato dalla depressione, è stato veramente il volto più enigmatico della multiformità del cinema italiano, un “autore di autori”. Figura consimile, forse meno nota al pubblico, è stata quella di Kim Arcalli, sceneggiatore, montatore e ispiratore de L’ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci.
Del film e del suo vasto “impegno”, che si può contrassegnare come riabilitazione di figure eroiche che, in ogni tempo, siano state vittime di straordinarie ingiustizie per effetto del sonno della ragione, ossia dell’affermazione autoritaria di dis-valori scambiati per salute pubblica, imposti dai poteri pubblici in una spirale di follia che – in fondo – non era altro che volontà di potenza per dominare in nome di una pretesa superiorità etica; insomma dell’ estetica low-cost di Montaldo, ma dal potente messaggio, ancora una volta rimangono impressi soprattutto singoli episodi. Nel caso di Giordano Bruno è la scena in cui al filosofo, mentre viene prelevato dalla cella per essere condotto al rogo, viene imposta la mordacchia. Si tratta di un orrendo attrezzo in ferro che si applicava alla bocca del condannato, con un lungo e spesso peduncolo che doveva scendergli profondamente nella gola. Durante la lugubre processione, Bruno sanguina lentamente dal margine della mordacchia. L’usanza, forse comune durante le esecuzioni del tempo, era ancor più voluta dagli aguzzini perché nel corso del processo romano gli inquisitori avevano particolarmente temuto la potenza oratoria dell’imputato. Due frasi fanno da perno al tragico finale: una di Bruno
Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam (Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla).
E l’altra di un inquisitore:
Ecclesia abhorret sanguinem (la Chiesa ha orrore del sangue).
Si tratta di un principio del processo inquisitorio secondo il quale il condannato andava, per l’esecuzione della sentenza, consegnato al braccio secolare, ossia ai laici, poiché la Chiesa non intendeva macchiarsi del suo sangue.
Ennio Flaiano e il Tempo di uccidere di Giuliano Montaldo
Un’ultima nota riguarda l’assai posteriore Tempo di uccidere, tratto dal romanzo di Ennio Flaiano e interpretato da Nicholas Cage. Un tenente delle truppe di occupazione italiane in Africa Orientale, durante la campagna di Etiopia, parte dall’accampamento per cercare qualche medico militare per curarsi da un forte mal di denti. Sulla strada s’imbatte in una bella etiope che, come un’Eva nera, sta prendendo nuda il bagno in un fiume. Il tenente Silvestri abusa di fatto di lei; tuttavia fra i due nasce un idillio, non privo di effusioni e tenerezze: Silvestri le regala ciò che ha nello zaino e perfino il proprio orologio.
Durante la notte però, mentre giacciono addormentati in una caverna, alcune iene si avvicinano minacciose; Silvestri spara per allontanarle, ma un colpo di rimbalzo raggiunge la ragazza, senza ucciderla immediatamente. Considerandola senza speranza, Silvestri la finisce con un secondo colpo e seppellisce il corpo nel pietrame, sperando così che non venga scempiata dalle belve. Ma Silvestri ha una mano ferita; nel villaggio da cui proveniva la giovane vi erano stati, come apprende successivamente, casi di lebbra. Silvestri può finalmente raggiungere un ufficiale medico, al quale chiede quali siano i sintomi della lebbra e quando si manifestino. Il dottore risponde che uno dei sintomi più certi è che le ferite non si rimarginano. Assediato dal senso di colpa per la uccisione della ragazza e temendo di aver contratto la lebbra, Silvestri si dà alla fuga per non venire denunciato e rinchiuso in un lebbrosario.
L’idea contenuta nel finale del film di Montaldo – Silvestri riesce ad imbarcarsi per l’Italia e, in sostanza, la fa franca – esce ovviamente dal solco del racconto di Flaiano. Una voce fuori campo recita il codice di guerra applicato ai territori appena occupati, ove risuona continuamente l’espressione vengano immediatamente passati per le armi riferita a eventuali resistenti alle forze armate italiane. Il tema è, dunque, la brutalità del colonialismo: che diritto hanno genti incivili di resistere agli invasori italiani? Per traslato, ciò discende fino al potere di vita o di morte di ogni occupante sulla popolazione invasa. I fugaci momenti di tenerezza cui Silvestri si è lasciato andare non sono un contrappeso alla violenza primitiva dell’invasore.
Giuliano Montaldo è stato una luminosa espressione del nostro cinema; ma questo cinema è di ieri. Gli anche ottimi cineasti italiani attuali scontano, in ogni caso, una sudditanza produttiva al gusto internazionale, americano in primo luogo ma non esclusivamente. Con raccapriccio ci siamo visti regredire alla condizione di paese dei mandolini e dei borghi storici dove tutti sorridono e si vogliono bene. Ma non smettiamo di sperare in una nuova ondata di libertà creativa, una riscoperta della sottile malizia con cui Montaldo metteva il dito sulle piaghe non rimarginate di ogni passato.
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