La settimana scorsa abbiamo pubblicato la prima parte di Guerra e pace nel Nuovo Testamento. Come anticipato in quell’occasione, oggi l’Autore continua il ragionamento penetrando l’attenzione nella prima fase storica del Cristianesimo.
L’esortazione di San Paolo e il delicato rapporto tra libertà e autorità nel cristianesimo
Secondo la sua legge di fondazione, questa società riposava sulla fede in Gesù Cristo e sul rito del Battesimo (Marco, XVI 16); aperta a tutte le nazioni con la predicazione universale del vangelo (Matteo, XXVIII 19; Marco, XVI 15), essa si costituiva fin dall’origine come chiesa (Matteo, XVI 18) e annunciava un regno che non era di questo mondo. La discussione che sorgerà più tardi tra Pietro e Paolo, la distinzione persistente tra la Chiesa della Sinagoga e la Chiesa dei Gentili mostrano chiaramente quanto lo spirito ebraico abbia faticato ad accettare questo improvviso allargamento di prospettiva (Galati, II 8); ma, grazie all’apostolato di San Paolo, la nozione cristiana di una società religiosa veramente cattolica trionfò definitivamente. Da questo momento, il privilegio religioso del popolo ebraico si ridusse a quello d’esser stato scelto da Dio come testimone (Romani, III 1-2) e la condizione della salvezza divenne la stessa per tutti: non più l’osservanza della Legge, ma la giustizia della fede (Romani, IV 13-17; IX 6-13)(1).
È opportuno, a questo punto, formulare alcune considerazioni in ordine alla teoria dell’origine del potere politico, propria di San Paolo, per la sua fondamentale rilevanza su tutto il pensiero politico successivo e per il suo carattere di cornice necessaria alla riflessione sul problema della guerra.
Il pensiero fondamentale è espresso nella lettera ai Romani:
“Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto”(2).
Questo passo, importantissimo per l’intero sviluppo del pensiero politico medievale, essendo continuamente citato dal secondo secolo in poi, è fecondo e significativo in sommo grado. Esso definisce nel modo più perfetto la dottrina cristiana della natura della società politica, mentre ci fornisce il documento più interessante della condizione delle società cristiane nel periodo apostolico. Il significato generale delle parole di San Paolo è chiaro e preciso: L’ordinamento civile è di origine divina, derivando la propria autorità e sanzione da Dio stesso: il rifiuto di sottomettersi ad esso significa rifiuto di sottomettersi a Dio; l’obbedienza allo Stato non è soltanto una necessità politica, ma un obbligo religioso. Ma, possiamo domandarci, perché è così? Perché dobbiamo considerare l’ordinamento civile dello Stato un’istituzione divina, alla quale si deve obbedire come a Dio stesso? Anche qui la risposta di San Paolo è chiara e precisa: perché il fine e lo scopo del governo civile è di reprimere il male e incoraggiare il bene: Il sovrano è servo di Dio per un fine buono(3).
Per comprendere le ragioni sottese al pensiero di San Paolo che, di per sé, non appare altro che una esortazione abbastanza ovvia agli uomini onesti ad obbedire alle leggi e rispettare il potere civile, occorre tener presente anzitutto che tra gli Ebrei convertiti era latente, ma molto pronunciato, un atteggiamento anti-romano che costituiva uno strascico del mai sopito nazionalismo religioso.
È fortemente probabile, quindi, che San Paolo, peraltro cittadino romano per nascita, si sia trovato nella condizione di
affrontare il problema del rapporto fra i propri convertiti e il governo romano, e si potrebbe avanzare la ragionevole ipotesi che i passi che stiamo esaminando fossero intesi soprattutto a frenare qualsiasi tendenza dei membri delle comunità cristiane ad adottare l’atteggiamento nazionale ebraico nei confronti del governo romano(4).
Ma, probabilmente, il vero fondamento della teoria politica espressa nel passo di San Paolo deve essere ricercato in una ragione di carattere molto più generale che investe la problematica, estremamente delicata per il cristianesimo, del rapporto tra libertà ed autorità.
Infatti,
la libertà del Cristiano è una delle concezioni più importanti di San Paolo…ma è pure evidente che il principio della libertà del Cristiano andava incontro nella Chiesa primitiva alle stesse difficoltà che incontrerà in tempi posteriori…E’ sufficiente uno studio superficiale degli scritti degli apostoli per accorgersi che, se i primi maestri cristiani dovettero fare non piccola fatica per sopraffare il tradizionale legalitarismo degli Ebrei, dovettero pure affrontare una tendenza all’anarchia quasi altrettanto pericolosa, diffusa soprattutto presso i Gentili convertiti. Questa tendenza si palesa prima in una inclinazione a disprezzare gli ordinari doveri della vita, a rifiutare di sottomettersi alla disciplina della vita comune…(5).
Dalle lettere di San Paolo è evidente che a Tessalonica diversi cristiani, fraintendendo lo spirito di libertà e la coscienza della dignità del rapporto spirituale tra l’uomo e Dio, propri del cristianesimo, erano contrari all’osservanza dei normali doveri ed al rispetto dell’autorità, come pure, a Corinto, dovevano esservi diversi fedeli che avevano male interpretato l’insegnamento sulla indifferenza per le regole e le forme esteriori:
Tutto è lecito, sembra sia stata la parola d’ordine di questa tendenza. San Paolo sostiene invece che, se è vero che il Cristiano è libero dalla schiavitù della legge in vita, tuttavia deve ricordare che il suo comportamento deve essere governato dai principi fondamentali della società, i principi dell’amore e della stima reciproca”(6), come è evidente dal passo che segue: “Tutto è lecito!” Ma non tutto è utile! “Tutto è lecito!” Ma non tutto edifica. Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui(7).
Senza dubbio l’antica Chiesa fu turbata da tendenze anarchiche molto simili a quelle di certi movimenti anabattisti del secolo sedicesimo che ebbero origine analoga. La reazione contro lo spirito legalitario sviò alcuni, e San Paolo faticò non poco ad opporsi alle possibili conseguenze del proprio insegnamento(8).
Guerra e pace nel Vecchio Testamento e nel primo cristianesimo: la prima novità storica assoluta è che la pace diviene centrale e con essa i suoi Costruttori
Esaminando più da vicino il problema qui tematizzato come guerra e pace nel Nuovo Testamento nel primo cristianesimo si assiste ad un cambiamento di orizzonte rispetto all’Antico; la pace occupa decisamente il primo posto; è il dono che il Cristo lascia agli uomini; ad essere chiamati figli di Dio saranno i pacifici, nel senso proprio del termine greco eirenopoioi, che significa costruttori di pace.
Proprio questo significato positivo di pacificus permette, tuttavia, una comprensione più approfondita del valore della pace nel Vangelo; la pax Christi)(9) comporta un confronto anche conflittuale con il speculum (10): “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come il mondo la da, io la do a voi”(11); anche nel Nuovo Testamento la pace si fonda nel rapporto tra Dio e l’uomo e la pace con Dio non solo è diversa da quella da e con il mondo, ma può essere opposta ad essa; in realtà il cristiano, sull’insegnamento del Cristo, è continuamente chiamato a scegliere tra due diversi tipi di pace.
Il Vangelo non si pronuncia direttamente sulla liceità o meno per il cristiano di portare le armi e partecipare alla guerra; anche se il “Tu non occides” che la legge mosaica limitava ai soli rapporti interni al popolo di Dio diviene un comandamento d’amore universale, i soldati sono personaggi che il Vangelo tratta con simpatia e mostra di accettarne lo status senza vedere in esso, di per sé, nulla di negativo(12), come è evidente nella risposta del Battista: “Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi che dobbiamo fare?” Rispose: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”(13).
In effetti, in tutto il Vangelo l’unico personaggio il cui atteggiamento fideistico suscitò l’ammirazione dello stesso Gesù al punto di indurlo a pronunciare le parole: “In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande”(14), fu il centurione di Cafarnao, come fu il centurione che lo aveva scortato sul Golgota a pronunciare la grande ed esplicita confessione della Sua divinità: “Davvero costui era Figlio di Dio!”(15).
Le parole di Gesù sulla guerra e la pace. Vivere la fede come i soldati romani vivevano la loro militia
Gesù stesso non ha disdegnato di fare riferimento anche alle armi nel descrivere la Sua missione: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”(16); e ancora: “Poi disse: “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?”: Risposero: “Nulla”. Ed egli soggiunse: “ Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una”(17).
Peraltro, l’atteggiamento del Vangelo e delle prime comunità cristiane nei confronti della guerra e della militia è analogo a quello concernente le cose terrene in genere, perché il cristiano, pur vivendo nel mondo, non è del mondo; la disciplina militaris, tanto ammirata dallo stesso Gesù nel centurione di Cafarnao, era proposta come modello tipologico, non contenutistico; ci si attendeva, cioè, che i cristiani vivessero la loro fede come i soldati romani vivevano la loro militia, non si dava di quest’ultima un giudizio di merito intrinseco (18).
Questa tradizione è molto evidente nei primi testi cristiani ed in particolare nell’Apocalisse, dove l’escatologia messianica è la guerra del Cristo:
Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava “Fedele” e “Verace”: egli giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. È avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio. Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro. Dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti. Egli le governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente(19).
Vidi allora la bestia e i re della terra con i loro eserciti radunati per muovere guerra contro colui che era seduto sul cavallo e contro il suo esercito. Ma la bestia fu catturata e con essa il falso profeta che alla sua presenza aveva operato quei portenti con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. Tutti gli altri furono uccisi dalla spada che usciva di bocca al Cavaliere; e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni(20).
Quando i mille anni saranno compiuti, satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della terra, Gog e Magog, per adunarli per la guerra: il loro numero sarà come la sabbia del mare. Marciarono su tutta la superficie della terra e cinsero d’assedio l’accampamento dei santi e la città diletta. Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò. E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli(21).
L’Apocalisse: rivelazione della vittoriosa guerra del Cristo. Il linguaggio “bellicoso” di San Paolo ripreso dai Profeti
Al termine della guerra vittoriosa del Cristo, l’Apocalisse rivela l’instaurazione del Regno di Giustizia e di Pace, luogo della Redenzione e della comunione eterna tra Dio e gli uomini:
Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché tute le cose di prima sono passate. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”; e soggiunse: “Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci(22).
La stessa tradizione e lo stesso linguaggio sono particolarmente vivi in Paolo che sovente ricorre ad immagini già utilizzate dai Profeti antichi:
Noi invece, che siamo del giorno, dobbiamo essere sobrii, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza” (23); “con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra”(24); “ La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce(25).
Ma il testo paolino certamente più significativo in materia resta il celebre passo della lettera agli Efesini:
Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. Siate dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio(26).
Si deve, infine, rilevare che Paolo usa la terminologia militare anche in quello che può essere considerato il suo testamento spirituale: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”(27).
Se Paolo, Ebreo e cittadino romano, non poteva non nutrire ammirazione per l’efficienza e la disciplina dell’esercito di Roma ed utilizzarne il valore idealtipico per definire l’auspicabile atteggiamento dei cristiani nei confronti della fede, è pur vero che egli non espresse alcun giudizio positivo nei confronti, in se stessi, della guerra, delle armi e del servizio militare ed allo stesso Timoteo precisa che:
Nessuno però, quando presta servizio militare, s’intralcia nelle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che l’ha arruolato”(28) e, al fine di chiarire la differenza qualitativa e la reciproca estraneità fra i due generi di militia, precisa ancora: “In realtà, noi viviamo nella carne, ma non militiamo secondo la carne. Infatti, le armi della nostra battaglia non sono carnali(29).
Paolo, dunque
concepisce tutta la vita come una battaglia. Chiama commilitoni i compagni di fede, parla di stipendia (30) e di castra (31), ma è un linguaggio del tutto spirituale, come dimostra chiaramente il più importante di questi passi, quello della lettera agli Efesii, che in nulla contrasta con il “Vangelo della pace”. Il concetto del miles Christi è chiaramente espresso nella lettera a Timoteo dove, secondo l’interpretazione di A. Harnack, Paolo teorizza la sua concezione dell’apostolato come milizia svolta per Dio nella vita civile, anticipando così una definizione del monachesimo. Questa militia Christi deve organizzarsi con una sua disciplina, e l’esempio può essere preso dalla disciplina e dalla vita che soldati ed atleti conducevano nei loro campi(32).
In Paolo non è, quindi, ravvisabile né un giudizio positivo sulla militia, né il suo opposto, ma sono chiari sia l’affermazione della vita cristiana come bonum certmen (33) che il dovere di sottomissione ai poteri legittimi; tuttavia, non si può immaginare che Paolo non avesse ben presente che affermare quest’ultimo dovere avrebbe potuto implicare, quale necessaria coerente conseguenza per i fedeli, anche la prestazione del servizio militare e, seppure nei primi tempi del cristianesimo, per le ragioni di cui si dirà più diffusamente fra breve, il caso potesse non essere attuale, avrebbe potuto Paolo, che andava fiero della sua cittadinanza romana per nascita e non per acquisto (34) ignorare il rilievo che la militia aveva fra i doveri pubblici? Probabilmente no, ma non v’è dubbio, peraltro, che nel pensiero di Paolo, tra i due ordini di valori, quello della militia Christi e quello della militia saeculi, c’è estraneità ed il primo prevale, comunque, pienamente sul secondo in caso di conflitto (35).
La produzione testuale del primo cristianesimo in merito alla guerra. Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Giustino.
Ai suoi inizi, il cristianesimo dovette misurarsi con il problema della definizione delle relazioni tra la nuova fede ed il mondo romano e le sue istituzioni; per questa ragione vi fu una grande produzione di documenti concernenti tutti gli aspetti della vita civile meno, per quanto ciò possa sembrare stupefacente, quello della guerra.
Sulla questione sono pervenute dai primi scrittori solo poche frasi presenti in testi diversi, le quali hanno avuto le più varie e contraddittorie interpretazioni ma questo silenzio non sembra addebitabile né ad una eventuale perdita di ogni documento in materia, né alla completa mancanza di ogni valutazione su un tema così delicato.
Un autorevole riferimento di linguaggio di stile militare si rinviene nell’anno 96 d.C., allorché Clemente Romano, in una lettera alla Chiesa di Corinto sull’orlo di uno scisma, esaltava l’organizzazione e la disciplina dell’esercito romano, ma questo non consente di affermare che egli abbia inteso pronunciare un giudizio definitivo sulla guerra in rapporto alla morale ed alla religione: sembra doversi ritenere che l’intento più probabile fosse quello di sopire le tensioni in seno alla comunità con un richiamo all’ordine; è probabile che la scelta dell’esempio fosse dovuta alla semplice coerenza dello stesso con il linguaggio di stile militare proprio dell’insegnamento paolino (36).
Clemente Romano non era né un fautore entusiasta né un oppositore del servizio militare; nelle Costituzioni apostoliche (anche se la riferibilità a lui di questo canone non è certissima) a proposito delle persone alle quali non si può dare il battesimo, si legge: ”se si presenta un soldato, gli si insegni a non commettere ingiustizie né estorsioni e ad accontentarsi del suo compenso: se accetta, lo si battezzi, se rifiuta, no”; appare abbastanza evidente il riferimento al brano evangelico in cui Giovanni Battista, interrogato specificamente da alcuni soldati, non condanna la militia e pronuncia fondamentali criteri di compatibilità della vita militare con la religione: “Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi che dobbiamo fare?” Rispose: “non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”(37).
Tenore simile a quelle di Clemente Romano sembrano avere le parole di Ignazio di Antiochia che alcuni decenni dopo, in una lettera a Policarpo scriveva: “amate colui per il quale combattete e che vi compensa, non si trovi tra voi nessun disertore, che il battesimo vi serva da spada, la fede da elmo, l’amore da lancia e la perseveranza da armatura, i vostri depositi siano le buone azioni perché possiate conseguire cose degne”(38).
Nell’epistola Ad Diognetum (39), secondo alcuni riferibile a Giustino, l’apologista non concepisce la vita cristiana come totale estraneazione dalla realtà terrena ed anzi consiglia i fedeli di esercitarvi delle attività e di non vivere la vita dell’inerzia badando bene, tuttavia, a non compromettersi con l’idolatria; tale ultima precisazione potrebbe indurre a ritenere che tra le attività non consigliabili per l’alto rischio di idolatria dovesse essere considerata anche la militia (40).
Nella lettera si vede già espressa l’idea, che diventerà fondamentale in Agostino, d’un regno dei cieli interno alla patria terrena e che dall’interno la vivifica invece di sopprimerla:
i cristiani non si distinguono dagli altri uomini, né per la terra ch’essi abitano, né per la loro lingua, né per le loro abitudini. Essi non vivono in città che loro appartengano, non si servono di un dialetto speciale, né vivono in modo straordinario. Perché non è né la riflessione né la perspicacia di uomini sapienti ad aver scoperto per loro la dottrina ch’essi seguono, ed essi non s’appellano, come fanno alcuni, ad un dogma umano. Abitanti di città greche o di città barbare, secondo il destino che è loro toccato, essi si adeguano ai loro usi esteriori per il cibo, l’abbigliamento e tutto ciò che concerne la vita, ma nondimeno manifestano ciò che la costituzione della società ch’essi formano ha di meraviglioso e paradossale. Perché essi vivono nelle loro patrie, ma come vi sarebbero domiciliati degli stranieri; a tutto come cittadini, essi partecipano, ma restano in disparte da tutto come stranieri. Ogni patria straniera è per loro una patria, ed ogni patria è per loro straniera…in breve, ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo. L’anima è sparsa in tutte le membra del corpo, e i cristiani sono sparsi in tutte le città del mondo. L’anima vive nel corpo e tuttavia essa non appartiene al corpo: allo stesso modo i cristiani vivono nel mondo,e tuttavia non appartengono al mondo(41).
Quasi coeva è la puntualizzazione della posizione dei cristiani di fronte all’impero operata da Giustino attorno al 150 d.C., con una lettera ad Antonino Pio, nella quale scriveva: ”noi vi siamo amici ed alleati più di ogni altro uomo per il conseguimento della pace”; non sembra che, nel formulare questa affermazione, l’autore si faccia condizionare dal dato pressoché scontato che la pace fosse raggiungibile, alla maniera romana, con la vittoria delle armi.
Questo è un tema centrale dell’apologetica cristiana sulla conciliabilità della religione con le esigenze della vita politica e civile; il fine di questa collaborazione è l’instaurazione della pax terrena ed infatti l’atteggiamento di Giustino verso l’impero resta non solo conciliante, bensì profondamente lealista, giungendo addirittura ad affermare che il simbolo di Cristo, la Croce, è riconoscibile nei signa (42)e nei vexilla (43) “che ovunque precedono la vostra autorità e la vostra potenza”; è evidente che un simile giudizio, ancorché relativo all’operato di un imperatore come Antonino Pio, attento alle questioni di religione e promotore di guerre di carattere prettamente difensivo, esclude in Giustino prevenzioni di fondo contro la militia.
Tuttavia, ad esemplificazione della non univocità della tendenza espressa da Giustino un suo allievo, Taziano, sosteneva, viceversa, la necessità di un radicale disimpegno dei cristiani da tutti gli affari mondani, quindi anche dalla militia e dalla guerra, valutati non come a sé stanti, ma come parte di un saeculum da rifuggire (44); come si vede chiaramente, la posizione ascetica di Taziano è ben diversa da quella di Giustino e questi emblematici esempi di diversità di approccio al problema dei rapporti del cristiano con il mondo sono espressivi di due tendenze permanenti del pensiero cristiano riconducibili, per grandi linee, l’una al carattere prevalentemente gnostico ed ascetico greco-orientale, l’altra a quello più realistico e moderato della Chiesa romana.
Sia Giustino che Ireneo, commentando la profezia di Michea (IV, 1-7) con la visione di un mondo conciliato con Dio nella pace, riprendono il concetto dell’amore cristiano universale, ma Giustino afferma che: “gli uomini non capiscono che ci debbono essere due venute del Cristo, l’una terminante con il suo martirio, l’altra con la sua gloria; solo allora gli uomini che sono accomunati nella sventura e nella guerra cambieranno le armi in strumenti di pace”. Non è possibile, da questi frammenti, trarre il convincimento che gli autori esprimessero un giudizio compiuto e definitivo sullo status militare, ma solo l’affermazione, per un verso, di un generico pacifismo e, per altro verso, del riconoscimento del valore dell’esercito romano e di un invito ad imitarne le virtù su un altro piano (45).
Guerra e pace nel Vecchio Testamento e nel primo cristianesimo: nessuna posizione definitiva da parte degli autori e commentatori dei primi secoli. Le ragioni
La circostanza che non risulti alcuna presa di posizione degli autori del I e II secolo sulla compatibilità o meno del cristianesimo con la guerra, induce a supporre che il problema non sia stato affrontato semplicemente perché non si poneva: occorre cioè domandarsi se i cristiano fossero o meno interessati, a quel tempo, dagli obblighi militari.
Per i romani il servizio militare costituiva non un dovere ma un diritto proprio dello status di cittadino libero; poiché il cristianesimo delle origini si diffuse prevalentemente presso i provinciali e gli schiavi, liberti ed artigiani è probabile che i cristiani non fossero interessati dal problema.
Dalla fine del II secolo, l’apologetica cristiana elaborò una visione dei rapporti tra cristianesimo e mondo pagano improntata alla polemica; in realtà, il nodo maggiormente problematico era dato dalla centralità, nel pensiero cristiano, dell’idea della vita futura che, evidentemente, determinava una svalutazione della vita terrena e delle sue espressioni ed in particolare di quelle civili e politiche come è ben chiaro nella frase di Tertulliano: “nulla magis res aliena quam publica”(46).
In generale non venne mai costruita in ambiente cristiano una posizione teorica contro lo stato; tuttavia esso, quando non fu percepito come una dolorosa necessità, venne apprezzato solo in funzione di un valore superiore che trascendeva i suoi limiti umani, il che era comunque profondamente antistatale.
Rispetto a questa impostazione di rispetto e distanza è possibile rilevare solo casi sporadici di controtendenza tra i quali merita attenzione quello di Ippolito, per gli sviluppi del suo pensiero in epoca più tarda quando, nel III secolo, avranno inizio le grandi persecuzioni.
L’eccezione di Ippolito, portatore di una visione che fornirà terreno alle persecuzioni
Ippolito, infatti, poneva una antitesi tra mondo del Cielo e mondo della Terra, poiché il primo era opera di Dio mentre il secondo era appannaggio del demonio e, conseguentemente, ipotizzava la sussistenza di due società umane, diversamente qualificate sul piano teologico ed etico: quella dei fedeli, che era anche quella dei buoni e quella degli infedeli, malvagi. In tal modo, Ippolito apriva la via alla lenta e faticosa formazione di una coscienza politica cristiana, via preclusa dalle concezioni propugnanti l’indifferenza od il refugium (47) dal speculum (48).
Peraltro, sulla scorta delle idee di Paolo, gli autori cristiani riconoscevano legittimo il potere statuale e la tendenza prevalente era quella che concepiva la possibilità di una collaborazione quando la legge scritta corrispondesse a quella naturale; l’unico vero ostacolo ad una completa partecipazione alla vita pubblica restava l’insuperabile interdetto all’idolatria (49).
Conclusivamente si può affermare che, nel periodo considerato
non c’è quindi una precisa ostilità del cristianesimo verso lo stato, e se anche molti fedeli si erano incamminati sulla via della carriera civile o militare… non viene posto alcun ostacolo, né vengono approfonditi i possibili elementi di dissidio, mentre si sottolineano, spesso in modo del tutto ideale, le possibilità di accordo e di pacifica collaborazione. Accordo e collaborazione che si realizzeranno solo più tardi, dopo una sanguinosa e sofferta esperienza, durante la quale la Chiesa, non abbandonando, neppure nei momenti più burrascosi, il proposito di una pacificazione, prenderà maggior coscienza di sé e della sua priorità come elemento unificatore della città terrena e di quella divina (50).
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Note Bibliografiche e di lettura
(1) E. Gilson, La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia Editrice, 2000, p. 196. /2) Rm 13, 1-7 in: La Bibbia. A cura dei Gesuiti di “La Civiltà Cattolica”, Piemme. p. 2209. (3) R.W. e A.J. Carlyle. Il pensiero politico medievale, Laterza., 1956, p. 107. (4) R.W. e A.J. Carlyle. Op. cit., p. 110. (5) R.W. e A.J. Carlyle. Op. cit., p. 110. (6) R.W. e A.J. Carlyle. Op. cit., p. 112. (7) I Cor. 10, 23-24 in: La Bibbia. Cit., p.2230. (8) R.W. e A.J. Carlyle. Op. cit., p. 112. (9) Trad. Pace di Cristo. (10) Trad. Vita mortale, il mondo; vita mondana dei pagani. In; Georges, Calonghi, Barellino. Dizionario cit. col 2437. (11) Gv. 14, 27 in: La Bibbia. Cit., p. 2096. (12) F. Cardini. Alle radici della cavalleria medievale, La Nuova Italia Editrice, 1977, p. 177. (13) F. Cardini. Op. cit., p. 177. (14) Rom. 13, 12 in: La Bibbia. Cit., p. 2210. Mt. 8, 10 in: La Bibbia. Cit.; p. 1889. (15) Mt. 27, 54 in: La Bibbia. Cit., p. 1940. (!6) F. Cardini. Op. cit., p. 178. (17) Lc. 22, 35-36 in: La Bibbia. Cit., p. 2044. (18) F. Cardini. Op. cit., p. 178. (19) Ap. 19, 11-16 in: La Bibbia. Cit., p. 2426. /20) Ap. 19, 19-21 in: La Bibbia. Cit., p. 2426. (21) Ap. 20, 7-10 in: La Bibbia. Cit., p. 2427. (22) Ap. 21, 1-5 in: La Bibbia. Cit., p. 2428-2429. (23) I Tess. 5, 8 in: La Bibbia. Cit., p. 2302. (24) II Cor. 6, 7 in: La Bibbia. Cit., p. 2250. (25) Rom. 13, 12 in: La Bibbia. Cit., p. 2210. (26) Efes. 6, 10-17 in: La Bibbia. Cit., p. 2278 e 2279. (27) II Tim. 4, 7 in: La Bibbia. Cit., p.2321. (28) II Tim. 2, 4 in: La Bibbia. Cit., p. 2318. (29) II Cor. 10, 3-4 in: La Bibbia. Cit., 2254. (30) Trad. Stipendio dei soldati, soldo, paga; in: Georges, Calonghi, Barellino. Dizionario cit., col. 2597. (31) Trad. Accampamento militare; in: Georges, Calonghi, Barellino. Dizionario cit., col 424. (32) A. Morisi. La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate, Sansoni, 1963, p. 5-6. (33) Trad. Buona battaglia. (34) At. 22, 28 in: La Bibbia. Cit., p. 2167. (35) F. Cardini. Op. cit., p. 178-179. (36) A. Morisi. Op. cit., p. 2-5. (37) Lc. 3, 15 in: La Bibbia. Op. cit., p. 1996. (38) In: A. Morisi. Op. cit., p. 7. (39) Trad. A Diogneto. (40) F. Cardini. Op. cit., p. 183-184. (41) Ad Diognetum 5, 6 in E. Gilson. Op. cit., p. 198. (42) Trad. Insegne; in: Georges, Calonghi, Barellino. Dizionario, cit., col. 2533. (43) Trad. Vessilli; in : Geroges, Calonghi, Badelino, cit. col. 2905. (44) F. Cardini. Op. cit., p. 184. (45) A. Morisi. Op. cit., p. 9. (46) Il senso della frase può essere reso con: niente è più estraneo (al cristianesimo) della vita politica. (47) Trad. Rifugio, asilo, ricovero; in: Georges, Calonghi, Badellino. Dizionario, cit., col. 2347. Qui da intendersi ome il rifuggire dal mondo. (48) A. Morisi. Op. cit., p. 31. (49) A. Morisi. Op. cit., p. 14. (50) A. Morisi. Op. cit., p. 15-16.