I non luoghi di Marc Augé

I non luoghi di Marc Augé. Un omaggio alle sue visioni del postmoderno

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Lo studioso francese Marc Augé (Poitiers !935 – Poitiers 2023), noto principalmente per la teoria dei non-luoghi[1] è stato un acuto interprete del tempo contemporaneo, proponendo un territorio di ricerca articolato fra discipline contigue: Etnologia, Antropologia culturale, Sociologia e Filosofia.

Come Zygmunt Bauman ( 1925 -2017 ), celebrato autore di Liquid Modernity[2] e di molti altri testi di tematiche afferenti come L’amore liquido del 2003 e La vita liquida (2005-2006), Augé ad uno sguardo iniziale sembra aver seguito la stessa sorte dell’universo che intende descrivere: assieme a Bauman, quello di diventare autori mono-tematici per volontà del pubblico. Non però – si badi – per volontà popolare, perché le loro ricerche sugli elementi strutturali dell’esistenza moderna tendono ad ammettere le categorie di “popolo” e “popolare” soltanto come dimensione organica del luogo antropologico; di conseguenza, ad escludere la presenza di una dimensione popolare con caratteri comuni nei non-luoghi e nella post-modernità in generale.

I non luoghi di Marc Augé descrivono il vuoto di una buona parte della nostra antropologia

Per meglio comprendere il concetto di non-luogo, secondo Augé, dobbiamo collegarlo a quello di sur-modernità. È sur-moderno ogni luogo nel quale sussistano elementi prelevati da ogni cultura del pianeta uno accanto all’altro, senza implicazione né subordinazione reciproca: sono non-luoghi gli aeroporti, le stazioni di servizio, le fiere campionarie ma soprattutto le grandi cattedrali contemporanee delle merci, ossia i centri commerciali, i mall, gli shopping center. In generale tutti i luoghi di transizione e di consumo massivo si costituiscono come non-luoghi; avendo particolare cura nel trasmettere architettonicamente questa visione, neutralizzano e quindi negano l’esterno come luogo, dedicando invece il massimo investimento alla costruzione e alla successione degli spazi interni.

Nei grandi centri commerciali l’abbondanza delle merci a disposizione si unisce alla disponibilità di prodotti di tutte le provenienze. In tal modo il non-luogo è anche non-tempo: la distanza geografica fra i luoghi di produzione delle merci viene abolita perché la sur-modernità tende ad alimentare l’esperienza del globale con tutti i possibili apporti locali, e le produzioni locali, abbandonando il loro spazio culturale d’origine, si avvantaggiano di una distribuzione sostanzialmente illimitata. Vengono pertanto a definirsi i tre caratteri principali della sur-modernità: eccesso (e simultanea abolizione) dello spazio; eccesso (e simultanea abolizione) del tempo; eccesso di Ego, con cui Augé intende l’individualismo assoluto del consumatore. A questo punto è inevitabile domandarsi: è simultanea anche l’abolizione dell’individuo?

In effetti la sur-modernità e i non-luoghi da essa incessantemente creati sembrano rivolgersi a tutti, cioè a nessuno in particolare. A titolo di esempio – ne vanno fatti tanti di esempi, poiché il modello di Augé non è chiuso, ma circolare e generativo; visualizzare esempi non è allora soltanto utile, ma essenziale per riempire di senso questo schema – si può citare il fatto che nei centri commerciali, per il modo in cui sono costruiti, l’avvicendarsi di giorno e notte, di luce e oscurità, sono fenomeni privi di senso e l’illuminazione è sempre e interamente artificiale.

Un’interessante osservazione è nel breve studio di Olmo Cerri[3] dedicato ad Augé.

“Il rapporto fra non-luoghi e i suoi fruitori avviene solitamente tramite simboli (parole o voci preregistrate). Gli esempi lampanti sono i cartelli affissi “vietato fumare” oppure “non superare la linea bianca” davanti agli sportelli.”

Ciò sembra rappresentare la controprova di una dis-identificazione del soggetto frequentatore: il «si» è la forma grammaticale dell’impersonalità. L’uomo come identità culturale distinguibile non è necessariamente un buon cliente,anzi: tenderà a giudicare l’offerta di merci dalla prospettiva della propria cultura. Quando, ormai molti anni fa, portai mia madre a cenare in un ristorante eritreo di Roma, la sua reazione fu di aperto disgusto. Non si trattava dei cibi in sé o di come questi venivano preparati; ma della modalità con cui si assumevano. Era per lei intollerabile che il piatto “etnico” consistesse in una larga focaccia piatta di farina – la “pitta” – entro cui venivano serviti dadi di carne ovina; il fatto che si mangiasse con le mani la “pitta” con la carne all’interno, tutti dallo stesso piatto, per le abitudini proprie della sua cultura di provenienza, che erano anche le sue abitudini, le risultava inaccettabile al punto di preferire il digiuno.

Nel non-luogo, l’individuo vede cadere tutte le diversità provenienti dalla cultura d’origine; di contro la sur-modernità, che concepisce e costruisce i non-luoghi – che a questo punto possiamo considerare come un trascendentale kantiano – trasforma gli individui in utenti, cioè fruitori d’uso della commercialità globale. Augé parla esplicitamente di contratto. Questo contratto, mai materializzato, viene accettato e sottoscritto all’atto dell’ingresso nel non-luogo. Scrive Augé:

Il cliente conquista dunque il proprio anonimato solo dopo aver fornito la prova della sua identità, solo dopo aver, in qualche modo, controfirmato il contratto.

L’identità va comprovata e poi lasciata all’esterno, che simbolicamente rappresenta ancora il mondo organico delle differenze culturali. Le società democratiche post-moderne non pongono limiti alla cittadinanza globale – o, secondo Bauman, liquida – e non im-pongono che poche regole: essere solvibili – forniti di credito per spendere poiché, ricordiamolo, anche il denaro è un’astrazione – seguire le regole, attendere il proprio turno, fruire del prodotto e pagare (se si tratta di un servizio) oppure pagare e fruire del prodotto (se si tratta di merce).

Viene spontaneo pensare che esista una correlazione fra l’aumento della popolazione mondiale e l’affermazione e l’estensione dei non-luoghi. Sulla scorta delle analisi di Augé e di Bauman, stiamo assistendo alla realizzazione della profezia contenuta ne La scimmia nuda di Desmond Morris, di un pianeta con venticinque miliardi di abitanti interamente ricoperto da una sola, immensa conurbazione, in cui non vi sarà più distinzione fra centro e periferia?

In un primo tempo, e per meglio dire ai primordi della globalizzazione liquida, la distinzione fra centro e periferia conservava la sua importanza e utilità. I primi centri commerciali, infatti, venivano costruiti – come gli aeroporti, le autostrade e tutti gli altri non-luoghi – fuori dalle città, distanti dal centro. Al tempo, questi astri nascenti non avevano ancora raggiunto la loro massima potenza irradiante, e dovevano sistemarsi lì dove la città non esisteva. Ma se l’opera di lungo periodo definita da Augé di abolizione dello spazio, del tempo e della differenza culturale, può oggi dirsi compiuta, allora il non-luogo risucchia nella sua gravitazione il luogo antropologico per incorporarlo: stiamo accennando alla dimensione del viaggio.

Il non-luogo gode di un gradimento universale; rappresenta una rivoluzione dolce, senza traumi, scariche di fucileria, epurazioni di vecchie caste sconfitte. Grazie a questa forza che deriva da un’investitura di massa, lo stesso turismo deve semplificarsi e le barriere alla circolazione delle persone devono cadere. I nostri rinomati centri storici, le città d’arte, devono quindi con-formarsi all’immagine di massa, fornire ai viaggiatori contenuti estremamente semplificati, meglio ancora se la completa identificazione della città con “IL” monumento simbolo: La Tour Eiffel/Parigi; l’Empire State Building/New York; il Colosseo/Roma; il Big Ben/Londra e così via. Si tratta di un processo abbastanza vistoso, a dispetto di quanti segmenti locali provino ad opporvisi. Il turismo di massa mette in movimento miliardi di individui che si aspettano, in ogni luogo visitato, di ricevere un trattamento standardizzato e di poter prevedere quasi al centesimo il costo che devono sostenere. Sotto questo punto di vista le resistenze locali che si manifestano come conti esagerati del ristorante, costo indebitamente alto del tassì o prezzi sospettamente oscillanti dei souvenir, appartengono al vecchio mondo delle diversità e sono destinate a cadere anche grazie al supporto delle tecnologie della comunicazione.

Ad ogni modo, per quanto i rispettivi modelli sembrano richiamarsi e integrarsi, sarebbe fuorviante confondere Marc Augé con Zygmunt Bauman. Nel sociologo polacco, infatti, è riconoscibile una nota di fondo pessimistica, e anche moralistica, riguardo alla liquefazione della società solida; in Augé invece la riprovazione è temperata dall’osservazione di tipo scientifico. In Augé prevale una descrizione in qualche modo clinica, sebbene non cinica. Un dato emergente, secondo quest’ultimo, è l’ “avidità di senso” dell’individuo contemporaneo, che frequenta compulsivamente i non-luoghi perché si sente sempre al centro di quel sistema – mentre sappiamo che la perdita del centro è una delle caratteristiche dei non-luoghi – e fa esperienza di un nuovo nomadismo, rassicurato dal non avere più radici, come certe piante acquatiche.

L’eterno presente, tuttavia, o al più la breve memoria del passato prossimo, riducono oggettivamente le possibilità di auto-riconoscimento come individui: la conoscenza di sé viene quindi patologizzata e demandata alle terapie psicologiche. In senso opposto, vengono progressivamente a cessare tutte le ragioni d’imprevedibilità che, fino alla precedente era industriale, rendevano ogni viaggio una vicissitudine e una costante attività di traduzione: non sfugga, qui, la parentela semantica fra i termini “traduzione” e “tradizione”. Altra possibile conseguenza della mondialità e delle sue agenzie, i non-luoghi appunto, potrebbe essere la rapida decadenza delle classi sociali e delle vecchie distinzioni fra esse: ma il discorso merita un ben più ampio sviluppo.

Ultimo aspetto che merita di essere evidenziato nel modello di Augé è quello relativo alle fedi religiose e al loro destino, dentro la sur-modernità. Anche qui giova fare un esempio: nell’aeroporto di Fiumicino, a Roma, vi è una sala denominata “luogo di preghiera”. Al suo interno non vi sono simboli di alcuna religione, e si può motivatamente definire come un non-luogo di raccoglimento. Ognuno, lì dentro, pregherà secondo le formule del suo credo, e persino si rivolgerà a un diverso Dio.

In realtà Dio non può ontologicamente cambiare. Ma il non-luogo si fonda appunto sulla rimozione di qualsiasi ontologia, e della conseguente pretesa di essere portatori della Verità. Dove esiste una società solida vi è un Centro, un Unico Dio e una Verità; tutto ciò che se ne discosta è vaneggiamento o errore. Un’ effetto sorprendente della sur-modernità è che, pur non negando apertamente la possibilità di una realtà “assiale”, essa non crede a nessuno che affermi di possederla.

Potrà l’uomo/cliente/consumatore accontentarsi, saziare di merci e servizi la propria ricerca di senso e sopravvivere alla morte della verità? ©RIPRODUZIONE RISERVATA

[1] Non-luoghi. Introduzione a una antropologia della modernità. 1996, Milano, Elèuthera, trad. di Dominique Rollan, ISBN 88-85861-54-7

[2] Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002, ISBN 88-420-6514-5

[3] Non luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, giugno 2005

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