il bello il brutto l'inconfessabile Sandro Penna

Il Bello, il Brutto, l’Inconfessabile. Una parafrasi di Sandro Penna

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Il Bello, il Brutto e l’Inconfessabile Sandro Penna, tra pedofilia e poesia oltre l’eccesso

È vero che il leitmotiv dell’eccesso accompagna molta produzione artistica contemporanea. Sandro Penna è un importante poeta che ha scritto preferibilmente, ma oscuramente, della propria omosessualità, e in particolare della attrazione che su di lui esercitavano i corpi dei fanciulli.

Piove sulle città. Piove sul campo

ove incontrai, nel sole, il lieto amico.

 

Ei, nell’età gentile, ha il cuore vago.

E a me certo non pensa. Ma innocenti

peccati in me la pioggia riaccende.[1]

Così Penna ritorce contro il mondo l’idea che i moti del suo animo, quando contempla rapito i ragazzi, possano avere un contenuto sordido. La corruzione insita nella pedofilia non può toccare chi dilava i suoi peccati nel Giordano della parola poetica; il poeta invoca una sorta di extraterritorialità per i suoi atti che non nega, a differenza dell’ipocrita, di avere compiuto. Il disturbo pedofilico cessa di esistere, ne potremmo dedurre, per il fatto che la memoria del fanciullo non trattiene alcun ricordo del peccato ma passa oltre, alla ricerca di esperienze che colmino il vuoto dell’innocenza. In altro luogo Penna afferma:

Felice chi è diverso

essendo egli diverso.

Ma guai a chi è diverso

essendo egli comune.[2]

Qui l’artista fa risuonare la quieta potenza di un anatema, e una cospicua dose di disprezzo usando il termine “comune”. La chiusura perfetta dell’epigramma sarebbe “uguale”.

Felice chi è diverso

essendo egli diverso.

Ma guai a chi è diverso

essendo egli uguale.

O almeno così lo avrebbe scritto un poeta più recente, come Toti Scialoja, più portato per le filastrocche sapienti. Direi addirittura che Penna avrà considerato questa alternativa, preferendo “comune” per esprimere una maggiore brutalità, per mimare quei borghesi inossidabili che, nella sua generazione, rifiutarono la cultura umanistica in favore di una ingegneristica, incurante dell’inquinamento e gravida di conseguenze future. Eppure il culto dell’ingegneria, intesa come vita sana e rettitudine delle azioni, sopravvive ancor oggi; è l’ultima difesa del positivismo, che aveva ritenuto di ereditare la terra dalla declinante religione cristiana. Penna invece, e tutti i poeti, tendono col proprio esempio a confermare l’opinione collettiva che il disordine dimora nelle idee mal applicate. Attenzione: mal applicate, non cattive idee, perché il positivismo – che è una forma di relativismo – non giudica le idee in modo ideale.

Sandro Penna il diverso, e divertito. Il rimpianto della dell’età classica e la macchinazione contemporanea contro la poesia

Se quanto abbiamo detto è vero, se ne deve concludere che Penna abbia avvertito il disprezzo come più importante della mera perfezione tecnica. Il signum dell’atteggiamento sprezzante come superiore ai signa della quadratura formale, le cui risonanze “graziose” avrebbero distratto il lettore dal colpo di frusta della satira. Chi è comune non può che soccombere al calvario della diversità. E proprio questa diversità, tante volte ripetuta, a dominare l’epigramma tramite il suo sostantivo concreto “diverso”. È forse il rimpianto della normalità dell’età classica, deformata in diversità durante l’evo ingegneristico; oltre a questo, colui che incarna la diversità essendo “diverso”, non fa che “divergere” dal comportamento degli altri, che egli non solo giudica “divergente”, ma anche “divertente”. In altre parole, il poeta si definisce sugli altri, stabilisce cioè un legame inscindibile con i suoi negatori, sotto l’egida del tempo che si trovano, in comune, a vivere.

Non è infatti apparentemente l’atto poetico che gli “altri” condannano in Penna, ma la sua propensione sessuale per i ragazzi. Una poesia attenuata dalla perfezione tecnica riuscirebbe sicuramente accettabile anche per i benpensanti… Penna nega tale perfezione, soltanto perché si è accorto della macchinazione diretta contro la poesia come esperienza esistenziale irriducibile; si condanna la pedofilia allo scopo di istituire un nesso fra questa e la poesia, la quale si nutrirebbe di esperienze aberranti per mantenere al poeta la sua extraterritorialità, quindi la sua impunità. I borghesi smascherano questa pretesa legale dei poeti e divengono sospettosi di tutte le diversità che, nella modalità poetica, possono manifestarsi.

Quando la normalità imita la diversità. Ecco come nasce la morale borghese dell’eccesso controllato

C’è però un passo ulteriore: accade che, per un gioco delle parti, la normalità si metta a scimmiottare la diversità, e ciò che per essenza diverge da essa si ritrova, infine, a convergere. La borghesia moderna diventa così il terreno di coltura di tutte le tentazioni o, perlomeno, si attribuisce il diritto di parlarne per riflesso sociale, facendo inscenare l’azione vergognosa a chi è diverso. Il “diverso” deve, per dare spettacolo delle proprie vergogne, sistemarsi ad una certa distanza dai borghesi che formano il pubblico.

Ma con il passare del tempo sempre più borghesi mostrano la tendenza ad annullare questa distanza, a confondersi con il diverso, in una parola ad abbattere l’aristocrazia artistica. È a questo che Penna si ribella; mostrando le stimmate della vita diversa, e randagia, l’artista nega che l’esperienza cruciale possa essere fatta oggetto di una mimesi di massa: una bastiglia invisibile cui non si può dare l’assalto. Oggi e sempre, pochi continueranno a tramandarsi il dono divinatore della poesia, e questi pochi daranno scandalo, anche in una società completamente invertebrata.

Cos’è la bellezza, qual è la sua durata, quale l’operazione della poesia

La nuova morale dell’eccesso controllato è stata ampiamente anticipata nell’opera poetica di Sandro Penna. Come nel passato si considerava il nuovo come mollezza, così oggi una morale molle tende a superare la distanza che separa il diverso dal comune; da qui un’altra regola aurea del kitsch: è bello ciò che è sempre diverso. Basta con le rigide definizioni accademiche del bello! Il concetto di bello è impulsivo, posso parlare di bellezza soltanto davanti a una cosa che sorge all’improvviso, che mi sorprende, che abbaglia, che mi scuote i nervi e mi lascia inebetito.

Non è questo il luogo per confutare una simile pretesa; mi limiterò a dire che con tutta evidenza la bellezza non è questo abbagliare, poiché è un puro stimolo oculare che avviene all’esterno della mia mente; ma anche penetrandovi a fondo, non ne ritorna indietro sotto forma di sguardo contemplante. Un altro dei caratteri del bello in senso tradizionale è la durata della contemplazione: un’opera bella che si contempli per una durata minima, o puntuale, diventa un’opera kitsch. Ecco perché le code di spettatori davanti alla Gioconda di Leonardo danno al quadro un nuovo significato negativo, e sono esse stesse kitsch. In altro senso, tutto ciò che è fatto segno all’ostensione diventa di cattivo gusto: la Sindone, sul cui carattere sacro non vogliamo discutere; la salma imbalsamata di Lenin nel mausoleo della Piazza Rossa, la cui manutenzione ha obbligato il governo sovietico a mantenere per decenni una équipe di imbalsamatori, eccetera.

Ogni vero autore rifonda l’estetica, a uso e consumo di sé e della propria arte. In ogni modo essa non precede l’opera, ma zampilla da essa liberamente (altri si chiederà se questo liberamente è poi esatto). Se dunque un’estetica puramente teorica è un azzardo e un’impossibilità, per quale ragione dovrebbe essere possibile una teoria del cattivo gusto?

Sandro Penna, il poeta che non usò la poesia per sublimare la pedofilia ma per ricondurla al destino umano

A questa obiezione rispondo che è senz’altro possibile, a condizione che – proprio come la teoria del bello – essa segua il fenomeno nell’ordine logico ma lo preceda in quello ontologico: perché un’opera sia giudicata bella, si deve disporre di questa facoltà di riconoscimento. Non dissimilmente la pedofilia in sé è una brutta cosa, ma la poesia e la sua virtù trasformatrice permette una specie di “regolazione fine” perfino all’interno della pedofilia.

Per l’infinita casistica poetica che lo precede, e per le antiche immunità che alla poesia vengono attribuite, Penna avrebbe potuto invocare – anzi, pretendere – l’indulto per sé, abbandonando tutti i pedofili non-poeti al loro triste destino. E invece:

Non vogliate proibire il sacro fuoco

del piacere. Il piacere abbia libero corso.

Si useranno ugualmente in ogni luogo

gli uomini da bambini. Il mondo avrà il suo corso. [3]

L’utopico disegno di Penna, che in questa lirica prende le sembianze di una profezia, il vago imperativo di un decreto che si presuppone inapplicabile, probabilmente non si realizzerà. Tuttavia vi ritorna l’idea che il poeta esprima il nòmos; che aritmetica, poesia, leggi e filosofia traggano la propria autorità dalla medesima fonte. Magari, Penna avrebbe giudicato malissimo la pedofilia eterosessuale: una deviazione, una violazione vera e propria della natura; ma non gli riesce di giudicare allo stesso modo la pederastia, e non tanto perché sia lui a praticarla, ma piuttosto perché nell’ attrazione erotica Penna vede come il fanciullo incontra il suo maestro. Anche il contubernale, il compagno, il pari può essere oggetto di erotismo: e non si può evitare di vedere una reminiscenza di ciò nella tolleranza verso gli atti omosessuali in certi collegi religiosi, nati in gran numero dopo il Concilio di Trento.

Penna, dunque, chiede e pretende perdono per tutti i pederasti, in grazia della loro antichità, dell’antico diploma che dichiara i loro amori non solo tollerabili, ma addirittura nobili ed educativi. È l’attrazione pederastica, il luogo ove distoglie gli occhi dalla contemplazione pura della sapienza per rivolgerli all’ allievo incerto, malcresciuto nell’ errore. Egli lo farà fiorire.

Per quanto distanti si possa essere da questi valori, bisogna notare come l’accanimento di un singolo poeta abbia portato lontano la pederastia dalla sua consueta residenza nella regione (di cui non possediamo ancora alcuna mappa precisa) del cattivo gusto. Riflettendo bene, possiamo affermare che l’area del cattivo gusto sfugge ad una facile misurazione perché mobile, in quanto perde o riceve continuamente nuovi oggetti e nuovi stati: può contenere perfino oggetti in condominio con il bello (il caso della Gioconda vista in mezzo alla folla e ai flash). Se il gusto cambia, cambia anche il cattivo gusto; le loro regioni sono destinate ad intersecarsi.

Quando il cattivo gusto è preferibile alla pura spontaneità

Il cattivo gusto è inoltre anti-temporale, poiché nella sua cronologia scambia l’attuale col passato, aggiungendovi la dismisura, che ripugnava agli artefici del passato. La cosa di cattivo gusto “corregge” le cose del passato, eccede nell’ imitarle, e con ciò si rivela come eccesso. Una certa dose di eccesso, per così dire, modera la misura, impedisce che essa censuri indiscriminatamente tutto, sia altresì senza misura.

Da quanto detto, si ricava che l’estetica spontanea, o implicita, che abbiamo descritto è, in realtà, una configurazione caotica e inoltre, dal punto di vista del gusto, estremamente pericolosa. Lasciare la definizione dell’estetica al puro gioco delle spontaneità equivale a rinunciare a qualunque definizione del bello e del brutto. Ma un mondo privo di tale distinzione finirebbe presto per non distinguere fra diritto e delitto, fra vita e morte, fra sano e malato, ed infine per non distinguere più nulla. Non saprei paragonare tutto questo ad altro che non sia il big-crunch, il collasso dell’universo ipotizzato da astronomi come Andrei Linde.

L’estetica spontanea, che non nasce dalla coltivazione del gusto ma, al contrario, dalla pretesa di lasciarlo incolto, rappresenta un pericolo più grave della semplice esistenza del kitsch. Non è necessario sviluppare una clandestina simpatia per il cattivo gusto, per giudicare le sue manifestazioni a partire dal fatto stesso che gli uomini sbaglino cercando un’armonia. Una disarmonia dei gusti non cesserà mai di esistere fintanto che non esisterà una estetica perfetta, condivisa da tutti non solo a parole, ma anche con perfetta interna rispondenza: qualcosa di palesemente assurdo. Un’ estetica così fatta precederebbe tutte le percezioni ed occuperebbe per intero la capacità umana di giudizio: saremmo tutti immersi, continuamente, nella cura delle nostre manifestazioni all’ esterno, saremmo cioè degli autistici totalmente esteriorizzata, cosa che è assurda ed autocontraddittoria.

Pur senza considerarlo neppur minimamente positivo, si deve riconoscere che il cattivo gusto è preferibile alla mancanza di senso e alla perversità intrinseca di qualunque estetica spontanea, che conduce alla distruzione del mondo molto più rapidamente delle armi o della politica. Il poeta quindi, per definizione un costruttore, propone valori negativi (“si useranno ugualmente in ogni luogo / gli uomini da bambini…”) nei quali anche il nemico sociale può riconoscere la funzione legislatrice dello spirito, seppure coronata di spine.

Ma tutto è preferibile al giudizio estemporaneo e alla chiacchiera vana, dove nessuna idea è sufficientemente forte per predominare sulle altre, e tutto ciò che ha apparenza di verità è inaccettabile poiché rompe l’equilibrio: opinioni, tutte peraltro perfettamente accettabili, come in una compagnia di amici che si riunisce senza alcuno scopo ideale, magari per una cena.

[1] PENNA S., Poesie, Garzanti, Milano, 1997, pag. 35.

[2] Ibidem, pag. 171.

[3] Ivi, pag. 375.

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