In Yoga, libro di Silvio Bernelli
Non è facile scrivere un nuovo libro sullo yoga nel 2023. Tutti abbiamo l’impressione di saperne abbastanza, ma niente può raccontare una pratica spirituale come praticare la pratica. L’approccio intellettuale è un modo per rimandare l’incontro con un maestro e con gli altri praticanti. È cercare di spiegarsi l’inspiegabile per evitare il punto in cui il nostro passato – tutto compattato nel nostro confuso presente – entra in una parentesi, nel momento in cui decidiamo di fare il passo e incontrare qualcuno. Facendo andare la prima volta la nostra mente dietro ai gesti del corpo.
Conoscersi nel silenzio
Silvio Bernelli negli anni Ottanta era un musicista. Da tanti anni è un insegnante di yoga, tiene anche corsi alla Scuola Holden. Scrive in una bella lingua, pulita, sensibile. In yoga (Aliberti 2023) in poco più di cento pagine racconta in soggettiva una seduta condotta da un maestro: davanti a lui i praticanti, misteriosi anche dopo settimane e settimane; nella pratica yoga in Occidente non c’è un terzo tempo. In un ritiro ci si può conoscere meglio, si cucina, si mangia insieme. Come in un ashram indiano. Ma la maggior parte dei luoghi in cui pratichiamo yoga in Europa sono piccole palestre discrete dove si arriva per tacere, cercando di lasciar fuori le cattive vibrazioni, i tormenti gravi o piccini, i “metalli pesanti” che ci turbinano dentro, formiche nella città agitata e frettolosa, scappando a casa subito dopo.
Tendini, muscoli, respiro
Lo yoga è silenzio, inspirazioni ed espirazioni, tendini, muscoli, organi vitali percepiti, ossa che le posizioni (gli asana) rivelano nelle posture. Come scrisse il maestro Patanjali, occorre «intenso zelo» perché qualcosa di pacificante ed energico accada. C’è ritualità anche in una sessione yoga: arrivare trafelati, cambiarsi, entrare con il tappetino e la copertina, scavalcare e non calpestare chi si è già trovato il posto, lo stesso ogni volta, prima che ciascuno affronti con gli altri il suo piccolo inferno alla ricerca del suo piccolo paradiso.
La ritualità dei gesti ci calma; affidarci a una messinscena diversa dal nostro quotidiano sveglia e calma insieme la mente, che si affida a una guida, obbedisce senza opposizione. «In quale paradiso vivrebbe ognuno – scrive Bernelli – se gli esseri umani avessero avuto la pazienza di ascoltare le parole dei sapienti?» Già: quante volte abbiamo praticato una Via che ci trasformava per poi abbandonarla e ricadere nella confusione incosciente? Quante volte ne abbiamo cominciata un’altra per poi di nuovo dubitare, e lasciare, e poi tornare? Bella domanda davvero: perché l’agitazione è così attraente?
Ogni sessione di yoga è il copione che scrive il maestro: quale tra migliaia di asana proporrà questa volta? In quale sequenza? In ogni pratica, in ogni zazen, in ogni tornata massonica attraversiamo punti critici, dolori articolari o muscolari che ci paiono insopportabili, noia o distrazione, un inferno in sedicesimo; ma alla fine eccoci gentili e sorridenti e percettivi. Se tutti così fossimo ogni giorno tutto il giorno l’Umanità avrebbe realizzato sé stessa. Il nostro Ego contro l’universo perderà sempre, o si illuderà sempre. Ogni pratica ci porta invece là dove soltanto dobbiamo andare, verso il percepire con una mente sottile e un corpo leggero che siamo un microscopico aggregato temporaneo di un macroscopico aggregarsi infinito. Perché dannarci? Darci danni? Condannarci alla confusione? Perché non essere ancora come bambini, che giocano come se il tempo non esistesse? Senza uno scopo, capaci di meraviglia?
Per Bernelli il senso di infinitezza che sopraggiunge dopo una sessione di pratica «serve a intuire che la verità si trova coltivando l’arte del dubbio e che solo l’angoscia del fallimento porta alle vette dell’avvedutezza»; per prenderci infine «cura di ciò che non è solo nostro». Continuando e continuando a praticare. ©RIPRODUZIONE RISERVATA