Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo scritto sull’insegnamento come tormento, una riflessione a firma di Institor sulla DAD, Didattica a distanza, impiegata durante gli anni di pandemia di Covid-19. Tale riflessione, come vedrete, mira a sottolineare quanto, nel bene e nel male, i docenti di tutta Italia si siano impegnati nel mantenere il servizio pubblico della Scuola e a non far cadere il diritto allo studio, sancito dalla Costituzione. È su questa centralità del diritto che la nostra Redazione ha letto un messaggio importante ed è per questo che lo pubblichiamo, giacché, in quegli anni della pandemia – negli anni della dittatura del green pass – di diritti negati ne abbiamo visti fin troppi. Intendiamo quindi onorare tutti i docenti d’Italia per lo sforzo immane e il credo incrollabile dimostrato verso la Scuola come istituzione pubblica. Certamente, allo stesso tempo, restiamo consapevoli che le critiche mosse durante e all’indomani della pandemia (le più intelligenti, almeno) non riguardano la DAD in sé – che in quanto tale è un validissimo strumento pedagogico. Semmai la critica sta nel fatto che non di vera e propria DAD si è trattato, perché una DAD deve essere costruita, allestita tenendo conto di molti fattori – si pensi all’importanza che ha, ad esempio, per gli studenti con disabilità. Quella impiegata nel periodo della pendemia altro non è stata che il trasferimento online della stessa impostazione che una classe scolastica avrebbe avuto se si fosse riunita in presenza, con tutti i limiti che ciò comporta. Qualcosa che merita seri approfondimenti e siamo sicuri ce ne saranno. Ciò non toglie che l’articolo che oggi proponiamo in lettura sia una testimonianza preziosa di un lavoro che resta nella storia del nostro Paese, quando, anche nei momenti più difficili, molti cittadini e cittadine eroicamente non vengono meno al proprio dovere e anzi, fanno di questo l’insegnamento più bello.
Quando intrapresi l’attività di insegnante ormai molti anni fa, c’era in forma più primitiva l’informatica con cui ancora oggi operiamo quotidianamente, mentre non c’erano i cellulari con la tecnologia web-mobile, cioè gli smartphone (telefono “intelligente”, ma traducibile anche come “accorto”, “brillante”), né i social network, tutti nati nel primo decennio del XXI secolo, né la recentissima e ancora balbettante Intelligenza Artificiale che – vedrete – già si candida a diventare la prossima sferza con cui una mente incorporea percuoterà le intelligenze fornite di un corpo.
Nessuna meraviglia quindi se soggetti come me e tanti altri della mia generazione hanno attraversato questa epocale trasformazione nelle comunicazioni senza particolari strappi o drammi, allorquando la circolazione di documenti cartacei si dimostrò improvvisamente vetusta, al confronto della smaterializzazione possibile con l’informatica. Siccome documentare significa da sempre, e ancora prevalentemente, scrivere, qualche setta di Illuminati (dei quali non ci è dato conoscere le fattezze fisiche, posto che ne abbiano e vi siano affezionati, come noi siamo) ebbe, alla metà circa dell’ultimo decennio del vecchio secolo, la formidabile intuizione che si potesse comunicare assai più estesamente e istantaneamente immettendo testi in una rete neuronale che – in analogia con il cervello umano – si costruisce mediante tracce (mnestiche); e con uno stock mondiale di memoria residente ovunque, materialmente presente negli hard-disk di apparecchiature sempre più irrinunciabili.
Apprendiamo che la città di New York (Massimo Basile, Repubblica del 16 febbraio) ha avviato una causa contro Meta, proprietaria dei marchi Facebook e Instagram, Snapchat, TikTok e YouTube, le cosiddette Big Tech, per “aver alimentato una crisi mentale fra i giovani a livello nazionale”, secondo quanto annunciato dal sindaco Eric Adams. La denuncia è stata presentata alla Corte Superiore dello Stato della California, competente per territorio suppongo, dal Comune e dalla Hospital Corporation che rappresenta ospedali e centri medici della Grande Mela. I legali di parte avrebbero quantificato il danno al patrimonio pubblico, in termini di prestazioni sanitarie, in cento milioni di dollari all’anno.
Interessante, fra le motivazioni addotte dal sindaco Adams, quella secondo cui a causa della pressione indotta da contenuti non richiesti, si sarebbero diffusi fra i giovani gravi stati d’angoscia, perdita di speranza e pensieri autodistruttivi o suicidi.
Qualcosa di simile l’abbiamo sperimentata dal marzo 2020 – dopo molte esitazioni degli organi di governo – con il confinamento a seguito della pandemia di COVID-19, vera prova generale dell’apocalisse. Mi riferisco in particolare allo straordinario sforzo messo in atto da tutte le istituzioni scolastiche ed educative per assicurare, anche nell’emergenza, l’erogazione dei servizi educativi mediante il ricordo alla DAD, Didattica a Distanza, salvaguardando così il diritto allo studio che discende dagli articoli 33 e 34 della Costituzione.
Sono momenti difficili da dimenticare: lo smarrimento che attraversò tutta la società in quei drammatici giorni di febbraio, nei quali si cercava di comprendere la dimensione del morbo e la effettiva potenza della sua viralità e letalità, investì anche le istituzioni scolastiche che per prima cosa provvidero all’immediata chiusura.
Ricordo anche bene che la dirigenza e il suo staff, in quei giorni, furono silenziosi su tutte le piattaforme informatiche normalmente operative. Sarebbe a dire che mancava qualsiasi direttiva. Questo collasso della struttura durò circa una settimana: già la successiva molti, fra i quali chi vi scrive, si erano riorganizzati con strumenti di dialogo come Skype, Zoom, Google Meet, persino Messenger di Meta e insomma, tutto quello che c’era a disposizione nell’ambito delle conference call. In questo modo fui in grado di radunare le schiere disperse degli studenti. Dopo qualche tempo la dirigenza riuscì a elaborare lo shock iniziale e riprese in mano l’organismo scolastico, fornendo ai docenti la piattaforma Teams di Microsoft per le lezioni, e Didaspes per l’interscambio di documenti.
In breve, abbiamo vissuto per quella parte del 2020 dentro uno scenario da fantascienza apocalittica, e abbiamo reagito grazie ad una ostinata volontà di normalità, volontà persino ostentata, somigliando un po’ a quel che si racconta delle donne londinesi durante la Battaglia d’Inghilterra del 1940 le quali, cessati i bombardamenti della Luftwaffe e fra i calcinacci degli edifici colpiti e semidemoliti, si riunivano in circolo per dedicarsi al lavoro a maglia.
Soltanto due anni dopo si è cominciato a prendere coscienza delle conseguenze psicologiche del confinamento nel suo periodo peggiore; gli adolescenti avevano sofferto molto – queste le notizie che circolavano grazie al dialogo con le famiglie – a causa dell’isolamento, per essere stati privati della comunità di pari, del contatto e della energia circolante nel gruppo che, anno dopo anno, occupa i banchi di una stessa classe. Tali disagi avevano particolarmente colpito i ragazzi che avevano già difficoltà cognitive: questa è stata per me una vera rivelazione sulla via di Damasco.
A livello teorico non scopro certo nulla: è sufficiente ricordare qui il celebre studio di Daniel Goleman su L’intelligenza emotiva. La vera meraviglia sopravviene quando il modello teorico si sperimenta nella prassi: i più fragili fra noi hanno bisogno della comunità umana come dell’aria che respirano; ciò significa in altri termini che quando ci percepiamo come individui difettivi, mancanti, segnati da questa o quella esperienza emotiva che ci indebolisce, e seguita a sanguinare come una ferita mai rimarginata, la migliore terapia – che afferriamo intuitivamente, essendo qualcosa che appartiene allo schema ancestrale della nostra specie – è immergersi nel gruppo degli altri; il riconoscimento del farne parte è allora il giusto balsamo per riparare ciò che abbiamo di rotto o incrinato; dopo questo, la maturazione dell’organismo, e quindi il tempo, pone il suo sigillo su un essere completamente rinnovato, che imparerà a non dipendere più dal proprio oscuro retaggio.
Ebbene tutto questo era stato messo in discussione dalla pandemia che ha mietuto milioni di vittime e che, una volta indebolita la carica virale e letale, ha lasciato ancora molte anime segnate, minate nel proprio equilibrio, abbandonate e nuovamente vittime di questa sensazione di abbandono. Forse, questo secondo atto è stato crudele quanto le terapie intensive e i tanti decessi.
Tuttavia quel che intendo mettere in evidenza è la formidabile reazione della comunità educante, che non esito a definire protagonista di una forma di eroismo civile. Cosa sarebbe accaduto, se gli insegnanti, contagiati dal panico collettivo, si fossero chiusi in sé stessi? Cosa sarebbe stato del diritto allo studio, se i giovani reduci dal COVID avessero completamente perduto anni di scuola o di università? Poteva accadere che questo paese, già percorso da tante suture telluriche, da infinite divisioni su base regionale o politica, scosso da crisi e sconvolgimenti economici di un’onda lunga cominciata nel 2008 e tuttora attiva, avrebbe finito per sprofondare in quanto comunità nazionale.
Educatori e insegnanti, quindi, si sarebbero aspettati un po’ di gratitudine. Una piccola porzione di quella dedicata allo straordinario, eroico indubbiamente, sforzo dei medici e delle strutture sanitarie. Ma lo Stato, già cattivo padrone, si è fatto negriero implacabile. Nei modi soliti, che chi ne ha esperienza conosce bene.
Intanto il silenzio. Mentre si elogiavano con enfasi incontenibile, e giustamente, le forze della Sanità, alle scuole non si dedicava il più vago dei pensieri. Poi hanno preso a circolare – l’opinione pubblica è sempre sensibile alle correnti sotterranee di dicerie amare – voci secondo cui gli insegnanti avrebbero goduto di ulteriori vacanze non dovute, che si sarebbero dovuto recuperare… Vacanze? Quando da ogni parte del mondo arrivavano scene di strade deserte e immote fino a poco prima brulicanti di vita e di traffici, vedute di città morte percorse solo da cortei di camion militari stipati di bare? E mentre assistevamo alla rarefazione di tutte le attività umane, la circolazione vitale dei saperi veniva assicurata mediante teleconferenza con la stessa struttura oraria delle lezioni ordinarie?
Poi si è proceduto all’inevitabile, scontato lavacro, al grande reset evidentemente ordito dall’alto: nelle riunioni di lavoro, nei collegi dei docenti, risuonava fino all’ossessione lo stigma: mai più la DAD! Le lezioni on line, che avevano preservato un diritto fondamentale dei cittadini vennero quindi descritte come il dono maledetto che aveva avvelenato le menti dei giovani, provocato squilibri psichici, aumentato a dismisura le psicoterapie dell’età evolutiva… Già da tempo l’anno 2013 era scomparso dal calcolo dell’anzianità di carriera (Legge 122/2010, poi impugnata dalla sentenza n. 178/2015 con cui la Corte Costituzionale, dichiarò l’illegittimità costituzionale del regime di sospensione della contrattazione collettiva). Ancora una volta i docenti diventavano il capro espiatorio di uno Stato avvezzo da decenni ad autoflagellarsi e a flagellare coloro che lo mantengono in vita e in salute.
Credetemi amici, non è questione di questo o quel governo: da molti decenni, e in modo assolutamente trasversale, le istituzioni non mostrano verso gl’insegnanti altro che disprezzo, un’avversione che non può essere spiegata se non come una forma di psicopatologia diffusa e ben consolidata. Non ho l’ampiezza di pensiero per poterne indicare tutte le cause: la sferza, la riga e l’asta con cui – in un tempo assai meno civilizzato – si praticavano punizioni corporali sugli scolari riottosi o troppo vivaci, da quando ho ricordi di questo mestiere vengono rivolte solo contro le terga di maestri e professori.
Non deve quindi destare meraviglia il fatto che nel famoso processo introdotto dagli arresti del 7 aprile 1979 si portò in luce una struttura eversiva composta in prevalenza dai docenti universitari Toni Negri, Franco Piperno (i “cattivi maestri”), dal deputato Emilio Vesce e dal giornalista Lanfranco Pace. Non è questo il luogo per approfondire quella complessa inchiesta del giudice Calogero, che si concluse con alcune condanne ma vide illanguidirsi il filone principale, cioè la connessione con sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, altro docente universitario ed eponimo dell’ Ateneo di Bari. In quel lontano caso giudiziario lo Stato Italiano, che fin dalla nascita ha convissuto con la propria ombra e cattiva coscienza, decise in via definitiva che gl’intellettuali non si limitavano a predicare – come nella sua visione filistea avrebbero dovuto fare – la sovversione, ma cercavano anche di metterla in pratica; e che molti intellettuali vivono con l’insegnamento.
Ecco: ritengo di vedere, fra le cause di questo rapporto malato fra lo Stato e il corpo docente delle istituzioni educative pubbliche, quegli eventi come determinanti. Quel disprezzo cui ho fatto cenno è in realtà timore, cattiva coscienza, voglia di brutalità appena dissimulata. Il pessimo trattamento economico lungo tutto l’arco della carriera (e non solo nelle prime fasce: anche questo concorre alla deformazione della realtà per scopi meschini) non ne è che un aspetto. Basta prendersi la briga di scorrere uno qualsiasi dei contratti nazionali collettivi del comparto Istruzione, per rendersi conto di quanto prolisso sia il capitolo dedicato ai provvedimenti, alle sanzioni (civili e penali), alla persecuzione degl’insegnanti più autonomi e critici verso il leviatano ministeriale.
Che speranza è possibile nutrire? Nessuna, finché l’Italia resta sovrana e indipendente. Qualcuna – chissà – se il compimento politico dell’unità europea, col diluirsi delle tensioni storiche nei singoli paesi, consentirà di restaurare la dignità di chi insegna; in special modo confrontando la nostra attuale miseria con l’altissima considerazione in cui nazioni meglio riconciliate come Germania, Francia o Spagna, tengono i membri della loro comunità educante.