A oggi sono 52 le Obbedienze massoniche attive in Italia, e ancora capita di sentire invocare l’unificazione della Massoneria italiana sotto l’insegna del «riunire ciò che è sparso», motto traibile da alcuni insegnamenti della tradizione latomistica. Da oggi vedremo, con almeno due articoli, quanto questo desiderio sia stato più volte espresso lungo i decenni del Novecento da parte di diverse compagini massoniche, talvolta con sentita passione iniziatica, talvolta con faciloneria ma, a ben guardare, sempre sulla base di presupposti poco realistici. Oggi pubblichiamo il primo di questi articoli, a firma di Francesco Guida. Il focus è il tentativo di unificazione avvenuto nel 1973 da parte delle due maggiori Obbedienze, il Grande Oriente d’Italia e la Serenissima Gran Loggia italiana di piazza del Gesù (questo è il titolo distintivo iniziale della Gran Loggia d’Italia degli ALAM, sebbene taluni ritengano che con questo nome si designasse un’Obbedienza a sé e non l’espressione storica dell’attuale Piazza del Gesù, che avrebbe preso vita più tardi da una corrente guidata da Giovanni Ghinazzi, ma questa è un’altra storia). Nelle prossime settimane affronteremo un altro tentativo occorso per l’unificazione della Massoneria italiana, che copre un arco temporale che va dal 1948 al 1953 quando, per mezzo del famoso Congresso di Napoli (1948), una Costituente tentò il leggendario proposito, salvo poi doverlo ridurre alla fondazione della Gran Loggia detta di “Palazzo Brancaccio”. Buona lettura.
I presupposti dell’unificazione del 1973: ritrovare un’età dell’oro mai esistita
La scissione provocata da Saverio Fera nel 1908, con la costituzione dell’obbedienza scozzesista della Serenissima Gran Loggia Nazionale Italiana, detta di Piazza dl Gesù, provocò una profonda ferita nella Massoneria italiana, di modo tale che in futuro si tentò sempre di ricucire questo strappo nel tessuto latomico nazionale come se fosse un ritorno ad una presunta età dell’oro, in realtà mai esistita, che avrebbe reso nuovamente potente e rispettata la ricompattata Massoneria italiana. Il tempo, galantuomo come sempre, ha demolito tali elucubrazioni senza reale costrutto. Tuttavia, dal dopoguerra furono posti in essere vari tentativi, che ogni volta che erano coronati da successo, inneggiavano alla ritrovata riunificazione, che poi si rivelava un riassorbimento da parte della struttura maggiore, il Grande Oriente, nei confronti di una minore formazione.
Ma nel 1973 si sparò proprio grossa. Il 18 settembre, il Gran Maestro Lino Salvini, spalleggiato da Elvio Sciubba e Acrisio Bianchini, comunicò in conferenza stampa l’evento storico della riunificazione: si era conclusa, per dirla con le parole dell’ex Gran Maestro Gamberini “la storia di un equivoco”. La Serenissima portava in dote, si disse, 3.500 fratelli, 200 logge, e 40 templi.
Non proprio un processo pacifico per entrambe le parti
In realtà fu una guerra tra furbi, che entrambi i contendenti persero. Da una parte si pensò a gonfiare la propria obbedienza di logge create negli ultimi giorni e di elevare al 33° grado fratelli da 18° e 30° per essere maggioranza negli orienti e contare di più nel Rito Scozzese, forti del fatto che nelle clausole dei tredici punti del protocollo siglato il 15 giugno 1973 era previsto al punto 5) “ che saranno riconosciuti i gradi massonici di cui i Fratelli sono insigniti nell’Ordine”, al punto 6) “che saranno riconosciute tutte le Officine di Piazza del Gesù”, e dulcis in fundo al punto 7) “che nessuna discriminazione e/o selezione dovrà essere operata nell’accettare i Fratelli di Piazza del Gesù”.
Lo stesso Lino Salvini, ebbe successivamente a dichiarare in una delle audizioni fornite alla Commissione parlamentare sulla Loggia P2 presieduta da Tina Anselmi, che la consistenza reale del gruppo di Bellantonio era di 2000 membri.
C’è da precisare che la decisione sulla riunificazione non fu pacifica da entrambe le parti. Nel Grande Oriente la fronda fu portata dalla componente dei massoni laici, critici della gestione di Gamberini prima e di Salvini dopo, quelli che poi saranno definiti sprezzantemente “massoni democratici”, come se le idee democratiche non facessero parte del patrimonio morale e culturale della Massoneria italiana. Anche da parte della Massoneria di Piazza del Gesù non tutti fecero salti di gioia all’idea della riunificazione col Grande Oriente, come risulta dalle dichiarazioni di Martino Giuffrida alla Commissione P2, e tra i critici di tale operazione vi fu un personaggio di primo piano dell’Obbedienza, il commercialista siciliano Pino Mandalari, il quale non partecipò, mettendosi da parte.
Anche Licio Gelli è tra coloro che hanno lavorato per l’unificazione della Massoneria italiana
Chi spingeva in direzione della riunificazione era anche Licio Gelli, allora insospettato capo della loggia nazionale “Propaganda” n.2, come dichiarò Salvatore Sinello dinanzi alla Commissione P2. Gelli si adoperò, convinto dell’utilità personale della riunificazione in quanto l’obbedienza di Bellantonio comprendeva la loggia nazionale “Giustizia e Libertà”, che annoverava nomi prestigiosissimi della finanza, della magistratura e della politica italiana, un ambiente che ambiva ovviamente a coinvolgere nelle proprie relazioni. Da parte di Piazza del Gesù fu Luigi Savona, alto dignitario dell’obbedienza, che si adoperò oltremodo con paziente opera di convinzione negli orienti della Serenissima Gran loggia Nazionale Italiana per raggiungere quel risultato.
Le ragioni del Grande Oriente per tentare l’unificazione
I motivi per cui il Grande Oriente, prima con Gamberini e poi con Salvini, voleva perseguire la strategia delle riunificazioni dei vari gruppi massonici, sono molteplici. Innanzitutto, per esigenze di politica estera: sia il Rito Scozzese americano delle “Madri del Mondo” di Washington e Boston premevano da sempre in questa direzione, poi con l’ambito riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, avvenuta il precedente 13 settembre 1972, anche gli inglesi spingevano in questa direzione, auspicando maggiore chiarezza e ordine nel panorama massonico italiano. Non mancava la motivazione pratica dell’acquisizione del maggior peso sia nei confronti della società italiana sia nel panorama massonico. E poi, non è ozioso considerare che un innesto di qualche migliaio di nuovi membri, arricchiva sensibilmente il tesoro, cosa non sgradita ai vertici.
“Per qualche mese — sostiene il giornalista Roberto Fabiani nel suo libro I massoni in Italia — la Massoneria italiana brillò di luce vivissima, mentre tutto sembrava funzionare alla perfezione: la fusione con i fratelli di piazza del Gesù procedeva senza intoppi ed erano pochi i dissidenti che non condividevano la riappacificazione e si mettevano in sonno; la pace con la chiesa mancava ancora di una qualche pronuncia pubblica e solenne ma era ormai cosa fatta; le grandi logge straniere con le quali erano stati stabiliti costanti rapporti sommavano a più di 140; l’opposizione interna alla gran maestranza di Salvini era sempre vigile ma aveva smorzato i toni della polemica e, all’ordine nei templi mostrava di rispettare le regole del gioco democratico; la P2 dava lustro alla famiglia con tutti i suoi altolocati aderenti, anche se di questo nelle logge ordinarie se ne sapeva poco o nulla”.
La Gran Loggia consegna il Maglietto al Grande Oriente, ma l’idillio dura poco
Il 12 luglio 1973, nel corso di una tornata all’oriente di Messina, Francesco Bellantonio aveva consegnato a Salvini il maglietto di Gran Maestro, ma l’amore fraterno scoppiato tra le due obbedienze durò appena due anni, dal 24 giugno 1973 al 30 settembre 1975, tanto che Bellantonio doveva ripiegare con un gruppo di fedeli nella nuova sede nazionale di via Alberico 4, imputando le ragioni del divorzio a non precisate “inadempienze” contrattuali”. In realtà, si accorse che non contava nulla nell’ambito del GOI, e che a Salvini interessava la sede di piazza del Gesù 47, quale emblema storico del Rito Scozzese, che nel GOI era sempre più influente. Se nel GOI entrarono in duemila della Serenissima Gran loggia Italiana, dopo la scissione ne uscirono molti di meno perché furono numerosi quelli che restarono per miglior adattamento o per convenienza. Questo è un aspetto importante, spesso trascurato dagli analisti della storia massonica degli anni Settanta. Tale componente andò a saldarsi con l’altra già installata a seguito delle precedenti “fusioni”, che sarebbe più appropriato definire “incorporazioni”, e questa massa “scozzesista” pesava sia a livello centrale che, soprattutto, periferico dove era palpabile la gestione degli equilibri di potere all’interno degli orienti a favore del Rito Scozzese. Questa nuova confluenza determinò un ulteriore spostamento nella direzione conservatrice-tradizionale-esoterica, riducendo gli spazi e, conseguentemente, l’influenza dell’altra componente presente da sempre nel Grande Oriente, quella laica-intellettuale-sociale rappresentata dal Rito Simbolico Italiano, che per sopravvivere dovette, già dalla metà degli anni Sessanta, procedere anch’esso come il GOI di Gamberini, ad una mutazione genetica, spiritualizzandosi nell’esoterismo tradizionale. In questo contesto, non è casuale che sguazzasse Gelli.
Solo i Massoni di entrambe le obbedienze, coinvolti nella riunificazione, furono entusiasti nel rincorrere il mito dell’unica Obbedienza nell’illusione che si tornasse ad una, storicamente mai realizzata, potente Massoneria. Ci si mise anche Gelli ad alimentare poi tale illusione, e c’è chi ancora oggi rincorre tale fantasma perché risulta ancora difficile pensare che la vera Massoneria tradizionale è quella anteriore al 1717, una Massoneria acefala, una Massoneria di loggia, scevra da contaminazioni “cavalleresche” che la vogliono racchiusa in Ordine gerarchico ecclesizzato in obbedienze. ©RIPRODUZIONE RISERVATA