Genova. Nel dedalo di strade e stazioni, un uomo vive per terra, si ciba di polvere. Lo chiamano «il Minchia» e non sospettano che è il grande artista Roberto Maini
La fine degli anni Novanta e i primi del Duemila sono stati, per me e per altri come me nati nella seconda metà degli anni Settanta nella provincia ligure, l’inizio del percorso universitario e con esso il tempo della scoperta di Genova. Ricordo di quegli anni soprattutto una disordinata, disorganizzata esplorazione geografica della città. La stazione di Piazza Principe, Via Balbi, Piazza della Nunziata, il centro storico e le sue tante storie che sono sopravvissute e sopravvivranno al tempo, poi ancora Via XX Settembre e Piazza De Ferrari, il cimitero di Staglieno e Boccadasse e potrei continuare obbligando la memoria a riattraversare un lungo elenco di nomi, luoghi, volti e situazioni ma adesso sento soprattutto l’urgenza di tornare a Balbi 4, sede dell’Università di Lettere, nell’omonima e storica via genovese. Tra le mura del palazzo, nelle aule a seguire lezioni, più che occuparmi di pianificare il futuro mi lasciavo libero di sentire finalmente il contatto con un ambiente urbano. Ambiante destinato a lasciare in me un segno indelebile proprio per l’influenza che la Superba iniziava a esercitare sulla mia inesperienza. Ed è così che torno alla stazione di Piazza Principe, dove scendevo dal treno cadendo dentro un luogo di passaggio per molti e di sosta per quelli sconfitti dalla vita e soprattutto uno dei teatri dello spettacolo umano allestito quotidianamente da un uomo solo, seduto per terra o, se non proprio seduto, accucciato e con la schiena appoggiata al muro. Quest’uomo con la sigaretta in bocca e la voce da corvo, non risparmiava nessun tipo di insulto articolato ai passanti – soprattutto pareva avercela con le donne – e nemmeno risparmiava interrogativi posti a se stesso o massime apocalittiche sullo spreco della vita che lanciava letteralmente dietro a chiunque avesse la sventura di transitargli davanti.
A me, quell’uomo, nel suo disordine allucinato, piaceva. Se non altro per il motivo che dietro all’immagine del barbone, si intravedeva uno stile e una cultura. Qualcosa di antico dimorava in lui e mi portava a guardarlo con quel rispetto che si riserva ai grandi classici. Studenti e lavoratori immagino lo considerassero uno dei tanti personaggi folli e imbarazzanti che si incontrano ai margini della quotidianità. Qualcuno del nostro gruppo di studenti pendolari lo aveva soprannominato con leggerezza “il minchia” e non si risparmiava di fargli il verso con battute che, nel tuono roco che usciva dalla gola dell’uomo, diventavano subito cartucce scariche. Ingenuamente cercavamo anche di evitarlo, eppure qualcosa in me lo trovava sempre più interessante. Nessuno di noi immaginava che “il minchia” fosse Roberto Maini, l’artista. E, più di un decennio dopo, c’è voluta la curiosità coraggiosa della scrittrice Rosa Matteucci – genovese di adozione – a riportare alla luce del sole il nome e l’arte di Maini. La Matteucci ha avuto la sensibilità di guardare oltre la maschera che Roberto Maini aveva indossato come uno scudo e in questo oltre ha incontrato l’uomo e la sua anima. Dall’incontro è nata, immagino, un’amicizia e su segnalazione della scrittrice, Maini, ha beneficiato di altri due piccoli e tardivi riconoscimenti: mi riferisco alla sua partecipazione nel 2011 alla 54esima Biennale di Venezia, nel contesto del Padiglione Italia e sempre nello stesso anno alla pubblicazione di un catalogo delle sue opere nell’arco di tempo che va dal 1973 al 2009 edito da Il Canneto Editore. Volume a cura di Eugenio Costa, Titta D’Aste, Sandro Ricaldone e con una nota introduttiva di Rosa Matteucci che si riassume un sentito ricordo personale.
Vita di Roberto Maini
Roberto Maini, nato a Genova nel 1942, è stato sul finire degli anni Sessanta uno tra i più promettenti artisti di quella che veniva definita come una “nuova generazione”. Stavano cominciando gli anni dell’Arte Povera e delle opere di rottura realizzate da artisti come Emilio Prini, che definì questa nuova forma di espressione la “quarta arte”. E proprio a Genova, negli spazi della galleria La Bertesca, allora uno dei punti di riferimento dell’Arte Povera, nel 1967 viene allestita una mostra collettiva a cura di Germano Celant intitolata Situazione 67. Questa “situazione” la possiamo definire il debutto ufficiale di Maini. Da lì sarebbe iniziata un’ascesa che lo avrebbe portato dal capoluogo ligure a Torino nel 1969 in una collettiva presso la galleria di Gian Enzo Sperone, sino a diventare conosciuto anche all’estero. È infatti del 1970 Processi di pensiero visualizzati prima grande collettiva internazionale di Arte Povera allestita a Lucerna con gli artisti Giovanni Anselmo, Alighiero Fabrizio Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Giorgio Griffa, Jannis Kounellis, Roberto Maini, Eliseo Mattiacci, Mario Merz, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, il già citato Emilio Prini, Salvo (pseudonimo di Salvatore Mangione) e Gilberto Zorio. Il curatore svizzero Jean-Cristophe Amman aveva così radunato a Lucerna i protagonisti della giovane arte italiana d’avanguardia. Nei disegni di Maini presenti nel catalogo della mostra è altissimo il messaggio circa i vincoli che condizionano la società.
L’artista appartato, ovvero fondersi fino sparire nell’opera, che è la vita
Dopo questo evento, situazione della quale molti artisti avrebbero sicuramente approfittato, Maini sceglie di appartarsi dando, forse involontariamente, inizio a una progressiva dissoluzione della sua arte e della persona, proseguendo la ricerca e donandosi completamente a una seconda fase che è stata come superare il punto di non ritorno. Perché questa mia ultima affermazione acquisti un senso logico è necessario fare un passo indietro nel tempo: alla fine degli anni Sessanta, il ventiquattrenne Maini, incontra un testo di Wilhelm Reich, psichiatra e scienziato controverso a causa delle teorie alle quali lavorava, e ne resta folgorato. Da questo testo in Maini matura l’embrione di quel personalissimo percorso di ricerca e sperimentazione centrato sull’energia orgonica, che lo porta a recarsi anche in Inghilterra, a Preston, per svolgere ricerche scientifiche. Inoltre si narra che abbia acquistato anche un libro su come poter costruire un accumulatore orgonico e di averne fabbricato uno con l’aiuto di alcuni studenti dell’Università di Fisica.
Dunque appartato prosegue il proprio lavoro apparentemente lontano dal contesto dell’arte e, paradossalmente, dimostrando che l’uomo Maini è sempre più parte fondamentale dell’opera. Da questo concetto si potrebbe trarre una visione fantascientifica dell’essere umano che muta in opera senza alcuna possibilità di inversione del processo. Nel 1987, la Galleria Chisel di Genova, organizza una personale di Maini introdotta da Enzo Cirone. Questo, apparentemente, un secondo tempo dell’artista, dove emerge una realtà particolarissima per la visione influenzata da richiami potenti all’energia orgonica, dando vita a quadri visionari che non lasciano più spazio alle restrizioni rigide dell’Arte Povera, abbandonate per una libertà cromatica anarchica. Si arriverà al punto di parlare di metafisica parlando della vita di Roberto Maini e potrebbe essere un’interpretazione molto verosimile, come potrebbe essere altrettanto verosimile che Maini sia solo inciampato, rovinando a terra, picchiando il viso spigoloso contro l’asfalto, e non si sia fatto problemi a rialzarsi ammaccato per poi inciampare di nuovo e tornare a rialzarsi fino all’ultimo dei suoi giorni terreni.
La vita di un artista, se vista dall’esterno, diventa sempre un questione seria interpretata attraverso la leggerezza degli altri, una questione di poco conto, gentili congetture della durata di un pettegolezzo. Oppure un omaggio, come quelli del cantautore Gian Piero Alloisio che gli ha dedicato una canzone nello spettacolo Storia della meraviglia, oppure dello scrittore Maurizio Maggiani che lo cita nella guida d’autore Mi sono perso a Genova o ancora trasfigurato in personaggio dei fumetti in un episodio della serie Julia di Giancarlo Berardi. Quasi che Roberto Maini abbia subito, nell’omaggio e suo malgrado, un processo di astrazione così forte da trasformalo in una delle tante maschere feticcio di Genova senza rendere troppo giustizia alla memoria di un uomo che è stato, prima di ogni altra cosa, un’anima inquieta e complessa che emerge chiaramente da questa sua dichiarazione:
27 anni prima il mio lavoro prese una svolta. Cercai di dirvi qualcosa circa le energie cosmiche: il rapporto tra l’uomo e la natura, l’universo dopo la scoperta dell’energia orgonica da parte del dott. Wilhelm Reich e, nel mio caso, l’esperienza diretta con l’uso dell’energia stessa. Non un mero concetto. Non vi è nulla di facile in tutto ciò. Le emozioni e le esperienze si arricchiscono di percezioni al di là della dialettica. Lavoro per un futuro ancora lontano. La lettura classica si limita agli aspetti formali e cromatici. La lettura del futuro vedrà altre cose: lo svolgersi dell’esperienza e delle difficoltà nell’artista testimone e pioniere.
E qui, al limite del punto di non ritorno desiderato, incontrato e superato da Maini, mi sento di concludere dicendo che la punta dell’iceberg di quello che è il complesso e tragico mondo di questo grande essere umano e artista ha come testimonianza immediata e fruibile da chiunque ne abbia curiosità il catalogo Liberarsi è stupendo! Opere 1973-2009, già citato ed edito da Il Canneto Editore. Mentre a me, nella mente, resta una frase che sento ancora con il suono della voce roca e arrabbiata. Una voce che era canto antico, misterioso, stupendo, nel suo dire: sono le 17.50, le 17.51, le 17.52, le 17.53 e in Paradiso non ti passa più. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Le immagini dei dipinti, del catalogo di Lucerna e la fotografia di Roberto Maini sono tratti dal catalogo Liberarsi è stupendo! Opere 1973-2009. Così come i brevi cenni cronologici del percorso d’artista e della vita di Roberto Maini.