Non criticatemi troppo se, per descrivere la villa-studio-museo di Mario Ceroli immersa nel verde della campagna romana eppure così prossima alla città, salirò nel cielo di immagini speculative senza aver previamente effettuato un decollo; ma è a questo che il grande scultore mi fa sentire obbligato.
Mario Ceroli e la forza arcaica dell’arte
Mi accorgo già da tempo che i discorsi, come la scrittura e qualsiasi altra forma di trasmissione dell’informazione, possono essere – e il più delle volte sono – esternati, ex-spirati, il che è forse nell’esigenza stessa da cui, in un tempo remoto, sorse il linguaggio. Questa struttura, che aveva lungamente plasmato gli organi della fonazione perché permettesse ad un uomo di emettere un richiamo articolato tale da poter essere percepito, e compreso, da un compagno nella caccia, si organizzò in un lungo tempo irto di pericoli, entro una vita maledettamente breve, per dare un nome alle cose sensibili, poi per descrivere fatti accaduti a chi non era presente a quei fatti. Successivamente dette nome anche ai sentimenti che ciascuno provava: il pianto, il riso, senza poter sapere in anticipo quando si sarebbe stati assaliti da quei moti; in seguito il linguaggio definì il soggetto che unificava quei moti sentimentali, che si producevano inizialmente senza una chiara coscienza. Infine l’arte e la scienza sorsero nel cielo del linguaggio, non come mere estensioni di esso ma come se fossero sempre state, eterne, indipendenti dal soggetto che si emozionava e comprendeva fatti del linguaggio e stati di cose.
Ma altre volte, e negli ultimi anni sempre più frequentemente, ho sperimentato che discorsi, scrittura e forme possono anche essere ispirati, cioè sorgere in qualche modo dall’esterno e prendere dimora dentro di me.

Il superamento della tridimensionalità plastica della scultura e l’espressionismo astratto
Sembra allora che il discorso si faccia, e che le forme aspettino null’altro che la mano che le estrarrà dalla materia. È proprio il caso di Mario Ceroli, che ha inteso superare la tridimensionalità plastica della scultura, diventando celebre per le sagome e per l’impiego di un materiale organico e rinnovabile come il legno, anzi: inaugurando con speciale sensibilità (e anticipando di molto i tempi) il riciclaggio dei materiali, come testimoniato dall’enorme repertorio di opere della sua casa-museo alle porte di Roma.
In questo senso – l’epifania del bello artistico nei materiali di risulta, dove la natura di residuo viene accentuata dall’autore e non abbellita in modo cosmetico – è concepita la prima scultura qui riprodotta che, nel 1958, gli valse un premio. Secondo le informazioni che ho, fu a partire da questo che Ceroli abbandonò il precedente indirizzo di ceramista – era stato allievo e collaboratore di maestri della ceramica quali Pericle Fazzini e Ettore Colla – per dedicarsi ad una vocazione compiuta di recupero e riscatto di materiali relitti e scartati, anticipando la cd. “arte povera”. Negli anni Sessanta i tempi erano maturi e l’arte pop italiana era una consistente avanguardia, solo vagamente ispirata da artisti e movimenti d’oltreoceano come Robert Rauschenberg e Jackson Pollock: l’espressionismo astratto postbellico che portò in luce il materico, cioè il sovrapporsi di pittura e scultura, avrà fra le massime espressioni in Italia l’opera di Alberto Burri; pure, non esauriva la vena straordinaria dei movimenti e degli artisti che fiorirono allora, in rapidissima successione.
Dal materico post bellico all’arte povera, alla scenografia teatrale e lirica
Tuttavia gli anni Sessanta non furono il tempo della piena maturazione e della consacrazione pubblica di Ceroli. Il decennio successivo è caratterizzato dalla definitiva affermazione dell’arte povera, anche in dialettica con il teatro “di cantina” di cui fu prototipo il Beat ’72 e il teatro del Tremila di Simone Carella, oltre ai più consacrati maestri come Memè Perlini e Giuliano Vasilicò; di quest’ultimo abbiamo in questo settimanale proposto una lunga intervista.

Inevitabile, quindi, la contaminazione reciproca di questi linguaggi artistici e l’emergere dell’interesse di Ceroli per la scenografia teatrale e lirica. La irrefrenabile vena rendeva la sua scultura ideale per messe in scena ambiziose, in cui la scultura si facesse volumetria, feticcio citazionista, come nel caso di questa sfinge.
La casa-museo di Mario Ceroli, alle porte di Roma
La Wunderkammer della casa museo, frutto dell’impegno dell’artista, di alcuni collaboratori e dei figli, una dei quali, la gentilissima Alessia, ci ha fatto da guida, sembra concepita per ammaliare il privilegiato che può visitarla e per trasportarlo nel mondo interiore di un virtuoso della trasformazione, un braccio robusto e fabbricatore che racchiude in sé un universo di stile e ha avuto, e ha tuttora, l’energia per tradurlo in manufatti. Il criterio, la messa in sequenza dei lavori di Ceroli non è strettamente cronologico. Prevalgono, senza dubbio, reperti della sua epoca d’oro: gli anni Ottanta e successivi, quelli della definitiva consacrazione. In questa direzione vanno le opere qui presenti che riproducono le più note di Ceroli: sculture come architetture nello spazio pubblico. Il Cavallo alato del centro di produzione della RAI a Saxa Rubra è presente sotto forma di piccole sculture.

Il tema dell’animale simbolo di forza e bellezza, ma anche dell’aspirazione ad elevarsi come Pegaso, quale ne sia il prezzo, e a coprire la distanza dalla fangosa terra al sole divino – anche unicorno per sovrabbondanza simbolica, entra in contrasto polemico e immaginifico col cavallo morente in bronzo patinato di Francesco Messina, che dal 1966 adorna la sede RAI di Viale Mazzini. Ceroli reagisce alla drammaticità dell’opera di Messina, al suo eroismo desolato da ultima impresa, proponendosi di raffigurare piuttosto il vigore della rinascita piena, la risalita verso un pleroma celeste: il destino del duro lavoro dell’Efesto che forgia, nel caso di Ceroli oltre l’orizzonte dell’arte concettuale, è quello della risalita senza più ancoraggio al suolo. E il cavallo ritorna nella splendida scultura collocata all’esterno, a ridosso della tettoia del magazzino principale.

L’Uomo Vitruviano di Mario Ceroli come simbolo dell’individualità contemporanea
Dell’immenso repertorio, essendo impossibile descriverlo tutto nello spazio di un solo articolo, sono stato particolarmente colpito dal multiplo della serie La grande Cina.

Che più “ceroliana” non si potrebbe immaginare. A parte la ben nota cifra stilistica delle sagome, che attraverso la fuga prospettica ricreano la percezione della profondità e dello spessore, direi che l’artista ha voluto immaginare l’immensità di questa grande nazione, dunque la sua grande potenza, come la impressionante numerosità del suo popolo, in marcia verso un orizzonte uniforme senza cedimenti, senza opposizioni. In contrasto integrale appare la mitologia – leonardesca ad una lettura superficiale, in realtà tutta contemporanea – dell’ Uomo vitruviano che si può ammirare nell’aeroporto di Fiumicino in versione tridimensionale.

Se quest’opera è stata scelta per rappresentare, in forma artistica, lo spirito italiano alla folla mutevole dei turisti provenienti da ogni angolo del mondo, il senso che essa trasmette è il nostro irriducibile individualismo. Certo nella miglior forma possibile – la citazione esplicita di Leonardo cui anche l’aeroporto è intitolato – finisce per descrivere questo popolo di separati in casa, di talentosi velleitari che spalancando le braccia (ancora le ali?) intendono farsi misura dell’universo. Verrebbe da dire: la Cina è lontana; o, perlomeno, lo spirito della Città Proibita nel centro di Pechino ci fa sentire tanti piccoli Ultimi Imperatori.
Mi ha colpito molto anche la serie delle Donne Talebane.
La mia impressione è che l’apparato metaforico di queste opere vada anche molto oltre. Le talebane esaltano anche le curve in senso discendente, come esseri ectoplasmatici colti nell’istante congelato di un muto precipitare. E sono inquietanti perché alludono anche alla macchinalità, alla riduzione dell’essere umano a rappresentazione meccanica. Le talibane sperimentano il mondo esterno stando sempre rinchiuse dentro una casa semovente, un serraglio mobile. L’interdizione dell’esporre la pelle agli agenti atmosferici rappresenta la presunzione di una cultura – di qualunque cultura – di sostituire la natura con un mondo artificiale che si mostra all’esterno come maschera neutra e inespressiva.

Un’ultima notazione: Ceroli, stando a chi lo conosce bene, è anche un uomo ordinatissimo. La sua ricerca di materiali è continua e nulla viene da lui gettato via. Posso testimoniare personalmente che la cura e la disposizione degli oggetti, intendo di quelli potenziali, dei frammenti di progetti che ancora non sono nati, è visibile: nel suo atelier sono scrupolosamente allineate enormi bocce di terre colorate, ma non c’è una sola macchia sui macchinari, sui tavoli o sul pavimento. Tutto compone l’immagine di una repubblica della fantasia che risplende di luce propria, grazie al lavoro incessante di una mente tentacolare.