miglior film di ogni tempo

L’Altra settimana #4. “Jeanne Dielman” di Chantal Akerman è il miglior film di ogni tempo secondo Sight and Sound. Perché era nata la Fiera della media e piccola editoria. Guccini al telefono. Peter Handke su Godard. Wim Wenders. I discendenti di Renzo Rossellini. Enrico Ghezzi e Gianni Toti. Cortazár e Steve Lacy. Il futuro è nell’opera

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Ha scatenato un putiferio la decisione di «Sight and Sound» (la più autorevole rivista del settore) di assegnare il titolo di miglior film di ogni tempo a Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles della regista belga Chantal Akerman.
La Akerman, spentasi nel 2015, girò la pellicola nel 1975 e affidò il ruolo principale all’attrice francese Delphine Seyrig – già protagonista di un altro film di culto, il misterioso L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais.
Jeanne Delman parla di una donna che decide di esercitare la prostituzione, alternando l’educazione del figlio e la cura della casa ai rapporti sessuali con i clienti.
In un’occasione la regista dichiarò di non amare le classifiche, che oggi dominano l’immaginario collettivo. Per paradosso, a distanza di sette anni dalla morte, essa si ritrova in cima ad una graduatoria che premia l’originalità del suo lavoro.
La classifica è stata redatta da oltre 1600 persone, tutte appartenenti all’audiovisivo, seppure con ruoli diversi. Pure questo elemento è stato oggetto di discussione.
Così ci risiamo con la faccenda della cultura ordinaria, che è dentro il commercio; e della cultura alternativa, che invece ne è fuori. La prima vicina alla leggerezza, la seconda alla verità – come i film di Chantal Akerman.
Anni fa la Fiera delle Media e Piccola Editoria nacque con questo intento, rispettando il mercato ma cercando l’identità.
È una cosa davvero molto difficile da ottenere e forse – come nel caso di Chantal Akerman, è stato detto – bisogna farlo quasi in segreto.
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La voce di Francesco Guccini, raggiunto al telefono poco prima di pranzo, è tale da indurci quasi a domandargli se possiamo raggiungerlo per affettare un po’ di pane e salame o dividerci una frittata.
La voce ci riporta indietro ne tempo, allorché mantenemmo una ferrea linea editoriale: cioè a dire entrare di soppiatto al lavoro; sottrarre ai colleghi un inserto settimanale; consegnare di nascosto il suddetto inserto a una categoria protetta (protetta ma derisa come spesso accade).
Ancora oggi non sappiamo cosa ci eccitasse di più (entrare di soppiatto / sottrarre / consegnare) pure perché le classifiche ci mettono tristezza, ma siamo in grado di stabilire che fare le tre cose insieme ci piaceva moltissimo.

Come in quel raccontino dove un bimbo riceve in dono un pallone e saputo che accanto al collegio dove studia vive un temibile signore anziano (il quale trattiene tutti i palloni che cadono nel suo giardino, non li restituisce agli scolari, e piuttosto ci scrive sopra una data e li tiene per sé) decide una notte, senza farsi vedere da nessuno dei compagni, di mettersi davanti al muro dell’istituto, in comune col giardino del vecchio, e tirare un calcio al proprio pallone – così da scaraventarlo al di là della parete, in modo quello lo raccolga e lo conservi per il resto della vita.

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Nel libro Appetito per il mondo, edito ora da Meltemi e che raccoglie suoi interventi dagli anni Sessanta ad oggi, Peter Handke dice che One plus One di Jean-Luc Godard «…è già adesso un film leggendario».
Eccitato probabilmente per la presenza dei Rolling Stones, lo scrittore austriaco registra il film come una fotografia dello spirito dell’epoca.
A sua volta il libro di Handke è una testimonianza e persino le fotografie in bianco e nero, poste al centro del volume, trasmettono un significato struggente – oltre a somigliare alle sequenze di film di Wim Wenders come Alice nelle città e Nel corso del tempo.
Sulla stregua di Handke pure Wenders ha scritto molto, e sovente su argomenti simili: l’America del mito; le mezze ombre europee; la musica; il cinema; la libertà di parola.
Molti artisti hanno deciso di affidare alla scrittura la spiegazione del loro lavoro: Pierre Boulez, John Cage, Glenn Gould, François Truffaut, Pete Bogdanovich, Eric Rohmer.
Consapevoli o meno essi discendono da Renzo Rossellini, il primo tra i grandi artisti a cercare l’educazione attraverso lo spettacolo.
Oggi siamo orfani di queste figure. A coloro che adesso fanno arte, che ci provano, manca il tempo per fare le cose per bene oppure per tenere un diario.  
Rossellini era entusiasta del Centro Pompidou, inaugurato negli anni Settanta al centro di Parigi con l’intento di offrire alle masse una porta di accesso al mondo dell’arte, e ne filmò la realizzazione per la Tv francese.
Egli amava anche la televisione perché entrava nelle case della gente. Con discrezione, giacché poteva restare spenta.
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«Il Manifesto» di mercoledì 6 dicembre annuncia una puntata di Fuori Orario in onda la notte del 9 dicembre e dedicata al regista francese Jean-Marie Straub.
Nel pezzo, firmato dalla brava Cristina Piccino, oltre a rimarcare l’impegno del cinema di Straub, si accenna a due amici: Enrico Ghezzi, da tempo non in buona salute; e Gianni Toti, poeta e sperimentatore dimenticato del tutto – come ricorda la stessa Piccino.
Negli anni della radio Enrico Ghezzi fu nostro ospite in diverse occasioni. Memorabile, almeno per noi, una partecipazione a Stereo Notte dove egli mandò in onda contemporaneamente gli Animals e Arvo Pärt, in modo da creare una base poco ortodossa sopra la quale parlare (torna in mente lo stupore del tecnico di fronte a quella curiosa richiesta..).
Invece con Gianni Toti organizzammo negli anni Novanta, a Roma al Palazzo delle Esposizioni, uno spettacolo su Julio Cortazár arricchito dalla presenza del jazzista Steve Lacy, amico dello scrittore argentino.
Ammiravamo l’indipendenza di Gianni, fuori dal sistema e sorretto da una forte ideologia politica, che gli faceva compagnia nella libertà della sua ricerca. Però ci intrigava la caparbietà di Enrico, dentro il sistema e sorretto invece da una visione politica, che gli permetteva la difesa della sua ricerca.
Senza voler vivere nel passato: oggi mancano queste figure – mentre l’avanguardia, cadendo nella trappola della provocazione, è divenuta uno spettacolo; e lo spettacolo, cadendo nella trappola del consenso, è divenuto un menu fisso.
Ricorda il poeta: il futuro è nell’opera. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
L'immagine in alto è un fotogramma del film di Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles del 1975, di Chantal Akerman

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