Milan Kundera il grande scrittore

Milan Kundera. L’insostenibile insignificanza

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Milan Kundera – il grande scrittore ceco scomparso pochi giorni fa – era nato a Brno il 1° aprile del 1929. Una celia, uno scherzo, un folletto dell’ingegno umano nato per mettere in burla l’ingegno umano stesso, da cui proveniva; dal lato della creazione romanzesca certo, ma sempre pronto – e assai disinvolto – nel passare dal registro narrativo a quello saggistico nel corpo dello stesso testo. La preminente produzione romanzesca di Kundera, infatti, sembra caratterizzarsi nel tempo per questo perpetuo saltare dalla vicenda alla digressione, dalla concretezza della delineazione dei personaggi all’astrazione del ragionamento; e di questo ne siano traccia, piuttosto dichiarata, i suoi titoli: Il valzer degli addii del 1972, L’insostenibile leggerezza dell’essere del 1984, L’immortalità del 1990, tutti scritti in lingua ceca; La lentezza del 1995, L’ignoranza del 2001 e La festa dell’insignificanza del 2013, scritti in francese e pubblicati per la prima volta in Francia.

La musica e il genere dello scherzo come retroterra, il cinema e la ribellione verso il grigiore della vita comunista

Lo scherzo è anche una forma musicale. Milan era figlio del Direttore del Conservatorio di Brno, Ludvik Kundera, un noto pianista che cercò di trasmettere al figlio la passione per la musica e l’interpretazione musicale. Milan, per quanto applicato pianista dilettante, non aveva però in questo campo le doti indispensabili per spiccare, e si rivolse quindi agli studi universitari di Letteratura prima, in seguito di Cinema presso la FAMU. Parliamo dei primi anni Cinquanta, un decennio prima che K. cominciasse il suo cammino nella fama, pubblicando – nel 1963 – il primo volume dei racconti che verranno ripubblicati, a partire dal 1968 in versione ampliata, con il titolo Amori ridicoli.

Nella Cecoslovacchia del tempo, piccola ma fervente nazione della Mitteleuropa fatta rientrare forzosamente, dal secondo dopoguerra, nel blocco comunista, la vita era grigia e non c’era molto di cui ridere. Già in età studentesca, ancora nei venti più qualcosa, i giovani dovevano essere sottoposti alla rigida disciplina della censura ideologica e della delazione reciproca. Milan scrive una lettera contenente critiche alla politica culturale statale; la cosa viene risaputa e lui viene espulso dal Partito Comunista. La stessa cosa capita al giovane Milan, che secondo un documento emerso soltanto nel secondo decennio del Duemila, avrebbe denunciato un coetaneo per spionaggio – forse solo un ingenuo sfogo sulle condizioni di vita oltrecortina, in Cecoslovacchia – procurandogli la bellezza di ventidue anni di lavori forzati. Kundera ha sempre negato la circostanza ma è d’obbligo riferirla, per evitare le agiografie troppo accademiche e le santificazioni frettolose (memori del caso di alcune recenti cause di santi della chiesa cattolica).

Il primo romanzo? Uno scherzo serissimo

Non per caso, dunque, il primo romanzo di K. s’intitola appunto Lo scherzo. È del 1967 e viene pubblicato in Italia da Mondadori nel 1969, quindi riedito da Adelphi nel 1986. Il tema occulto è sempre quello della mancanza della libertà, assillo dei cittadini dell’Europa orientale fino al 1989; lo stesso che seguirà lo scrittore fino alla decisione di emigrare in Francia e di ottenerne la cittadinanza, grazie al personale interessamento dell’allora Presidente François Mitterrand, nel 1981.

La vicenda è fin troppo scopertamente autobiografica: un giovane scrive una cartolina ad una ragazza da cui è attratto, e nel testo inneggia scherzosamente a Trockij. Questa cartolina “privata” fa il giro del paese, finisce nelle mani del presidente degli studenti comunisti, si trasforma in denuncia e provoca l’espulsione di Ludvik, il protagonista, dal Partito. Due anni di servizio militare nelle miniere (equivalente giovanile dei lavori forzati, non ci vuole molto per capirlo) non sono sufficienti per espiare la pena di aver nominato il principale oppositore di Stalin, e il ragazzo finisce incarcerato. Quando finalmente torna libero, la sua reputazione è completamente rovinata.

È con questo genere di realtà che dovette confrontarsi, durante tutto il tempo della formazione di Milan Kundera il grande scrittore. Per noi molto difficile anche solo da immaginare, questa temperie. Oggi, in Europa, del XX secolo sono residuati solo due tipi di eredità politiche: il liberalismo borghese, più o meno corretto dalla socialdemocrazia; e poi fascismo e post-fascismo, nella sua attuale incarnazione di sovranismo nazionalista. Pur avendo, i contemporanei, chi più chi meno un’immagine mentale di cosa sia stato il comunismo realizzato o “Socialismo reale”, insomma il “Secondo Mondo”, dal punto di vista statuale non vi è più alcuna traccia di regimi politici paragonabili all’Unione Sovietica e ai suoi stati satelliti. Ancora meno definibili sono gli aspetti esistenziali della quotidianità nel momento più buio della storia sovietica, ossia il regime di Stalin. La delazione, la paura, la censura e il conformismo più becero hanno caratterizzato quegli anni e lasciato in quei popoli una traccia indelebile che – nel caso di molti intellettuali e artisti – si collega quasi sempre all’espatrio e all’emigrazione in Occidente: l’esilio come sola possibilità di sopravvivenza mentale.

Le opere che gli hanno dato fama e quella che gli ha dato l’immortalità

È con L’insostenibile leggerezza dell’essere e La lentezza che Kundera raggiunge la notorietà internazionale, e dunque anche nel nostro paese. L’opera in cui lo scrittore esprime la maggiore ambizione di universalità è tuttavia L’immortalità, scritto nella lingua madre ma pubblicato in Francia nel ‘90. Partiamo da quest’ultima. Divisa in sette quadri ( “Il volto”, “L’immortalità”, “La lotta”, “Homo sentimentalis”, “Il caso”, “Il quadrante” e “La celebrazione”), presenta una tessitura estremamente complessa nelle rispettive trame, intrecciandole con minimalistica naturalezza e fugando, così, il dubbio che si tratti di una raccolta di racconti sotto le spoglie della forma-romanzo. L’immortalità si nutre di una girandola di personaggi anche storici, come Goethe e Bettina, ma sembra soprattutto – perlomeno è la vicenda che vi ricorre più spesso – incentrato sulle figure di due sorelle, Agnes e Laura, che pur amandosi con fervore anche per l’ammirazione che la minore, Laura, nutre per Agnes, litigano ferocemente e procedono per lacerazioni e reciproci rancori. Il tema è il conflitto fra l’interiorità e la società dell’immagine e dell’apparenza. Laura incarna la vocazione superficiale per l’apparire mentre Agnes, l’intellettuale delle due, è insofferente verso il giudizio degli altri ed essenzialmente vorrebbe scomparire, immergersi, negarsi all’osservazione morbosa della società.

L’insostenibile leggerezza dell’essere, da cui stato tratto un film nel 1988 da Philip Kaufman, con Daniel Day-Lewis, Juliette Binoche e Lena Olin, forse il più indiscutibile successo commerciale di Kundera, mostra con sufficiente chiarezza il peso e il posto che la tematica politica occupa nell’universo narrativo dell’autore. Il triangolo amoroso fra Tomáš, Tereza e Sabina si dipana sullo sfondo della Primavera di Praga, non tanto come pretesto per aprirsi sul romanzo storico ma, al contrario, per usare, in un contesto che resta saldamente analitico-esistenziale, la storia maggiore per definire un clima: la Primavera di Praga è infatti oggi l’immagine archetipale delle illusioni generose e della rovina che ne consegue quando il potere nella sua forma più brutale, in quanto dominazione armata e asservimento, abbandona ogni remora e scatena i carrarmati in piazza. Su questo è necessario aggiungere qualcosa.

L’apparente sovranismo delle sue lotte politiche

A distanza di decenni, forse, non è più molto chiaro il senso di certe rivolte “nazionali” contro l’egemonia sovietica sull’Europa dell’est: Budapest 1956, Praga 1968, con il celeberrimo rogo degno di un bonzo dello studente Jan Palach, oggi celebrato eroe ceco. Sotto il raggio di successive diffrazioni dello spettro politico, potrebbero sembrare ribellioni di genere “sovranistico” e patriottico. Credo non sia affatto così. L’istanza di fondo per la quale combattevano i giovani ungheresi e cechi (ed è importante definirli così, giovani, come i protagonisti del romanzo, poiché era la prima generazione che non aveva conosciuto la seconda guerra mondiale e la lotta antinazista) era quella di un socialismo dal volto umano – per usare la felice espressione di Alexander Dubcek, allora primo ministro cecoslovacco.

Si trattava quindi di un’istanza portata avanti in primo luogo dallo stesso governo ceco, poi avvertita e assecondata con entusiasmo dalla società civile, di un comunismo riformabile dall’interno del sistema socialista; dialettico secondo la migliore accezione marxiana, sensibile alla modernità e in grado di mettersi in ascolto delle confinanti società capitaliste, di spiegarne il successo e la ricchezza, di mutuarne le pratiche virtuose. Insomma, una forma di idealismo filosofico – le idee creano gli uomini e non il contrario – che però evidenziava un grave errore analitico che produsse conseguenze disastrose: il comunismo dell’est Europa non era un ideale, ma la maschera ideologica dell’imperialismo sovietico, chiuso ermeticamente all’esterno, programmaticamente immobilista, dottrinario e opaco. Il destino dei tre protagonisti è dunque scritto dai cingoli che sgretolano il selciato della bella capitale boema: tutti e tre fuggiranno; Sabina, la pittrice, in America, Tomáš e Tereza in campagna, inseguendo questa volta un ideale di semplicità e di solitudine; i due moriranno però in un banale incidente della strada.

Ne La lentezza, opera ormai compiutamente “occidentale” di Kundera, il tratteggio dei personaggi è ancor più minimale e prevale nettamente la riflessione filosofica. Né viene a mancare, fra gli ingredienti, la primigenia vocazione per l’umorismo. Lo scrittore, cioè sé stesso, sta raggiungendo con la moglie Vera un castello adibito ad hotel, per rilassarsi con una breve villeggiatura. Dietro lo tallona un’automobilista impaziente, che vuole superarlo a tutti i costi e contro ogni logica, come se il traffico intenso dipendesse da lui. Spiando l’imprevisto rivale stradale attraverso lo specchietto retrovisore, il protagonista ricorda il viaggio da Parigi alla campagna raccontato da Vivant Denon nel 1777 nel romanzo Senza domani.

La sua lentezza contro l’oblio verso cui corre l’Occidente

Questo incipit dà a Kundera spunto per infinite, circolari riflessioni, fino ad una considerazione sorprendente: nella misura dello spirito umano la lentezza corrisponde alla memoria, la velocità all’oblio. La società attuale, dice Kundera, ha regalato all’uomo l’ebbrezza della velocità, meravigliosa appunto in quanto ebbrezza, sostanza psicotropa ed euforizzante che comporta una fuoriuscita da sé. In opposizione quindi al vero pensiero, che ha sempre il suo centro nell’io che ricorda, che ha identità perché ha memoria. Straordinaria profezia dell’epoca dei social, viene da credere, nella quale la memoria si è spaccata in due: la patina e la bassa definizione dell’epoca della fotomeccanica, contrapposta all’ All bright and light delle fotocamere dei cellulari, dell’alta definizione e del 5G, la quinta generazione della trasmissione dati. L’insopportabile definizione dell’immagine televisiva – aggiungo di mio – che portando all’inverosimile l’effetto di realtà degli attori, come se la tv fosse una finestra spalancata in casa d’altri, ci strappa sgarbatamente una delle principali funzioni dell’intelletto (visivo o comunque collegato alla percezione), cioè il discernere fra realtà e invenzione, fra arte e realtà.

Nei suoi ultimi anni Milan Kundera il grande scrittore ceco aveva raggiunto, seguendo quest’ultima traccia, una posizione di disincanto che lo faceva molto somigliare agli antichi scettici ed epicurei. Sensi ed erotismo per Kundera finiscono per essere quasi la sola realtà cui possiamo ancora fare appello, e la politica altro non è che un cumulo di finzioni e una disordinata girandola di narcisismi.

Come potremmo dargli torto? Chi nutre ancora illusioni di genere ideologico torni a leggere, da un punto qualsiasi della sua vasta opera, questo grande maestro del contemporaneo, la cui scomparsa oggi commemoriamo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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