Una premessa: sull’utopia e le diverse anime dell’Uomo
Cos’è Utopia? Dire “un non-luogo” è in risonanza con l’analoga definizione di Marc Augé (del quale ci siamo occupati nelle scorse settimane), la cui accezione è però oggettivistica e sociologica: sottende un e-voluzione nel neutro degli pseudo-luoghi che rappresentano il rito pubblico contemporaneo per eccellenza; non necessariamente claustrofobici, comunque concettualmente distanti dalla luce, dall’aria e in generale lontanissimi dagli agenti naturali o elementi, secondo la più classica definizione.
Utopia, al contrario, a partire dalle più celebri versioni che la cultura occidentale ne abbia dato, da Platone a Tommaso Moro, da Tommaso Campanella a Aldous Huxley (Island del 1962, per chi non avesse presente il testo) è l’ideale tenace di una riforma integrale della civiltà, che muove da una radicale insoddisfazione per lo stato attuale di essa. Le principali Utopie della letteratura però, distribuite come appaiono in oltre ventiquattro secoli, esprimono tale insoddisfazione per le condizioni di “presenti” diversi. Non ci attarderemo su questo, ma basti dire che il saggio e il sognatore, il riformatore politico o il filosofo, sembrano in ogni tempo profondamente insoddisfatti della realtà in essere, quell’oggettività che rappresenta la nostra casa comune. Ecco venire in luce il terreno – ma anche il costante riproporsi di aspettative utopiche – dell’utopia. Intanto la sua migliore traduzione non è quella di non-luogo; ma piuttosto di luogo-che-non-c’è, in cui si sottintende che-non-c’è-ancora. Con ciò alludendo al fatto che – se per chissà quale miracolo tutte le volontà, esprimendo una stessa insofferenza per le condizioni presenti, potessero convergere – questo luogo, o società ideale, potrebbe realizzarsi.
Il tenace e costante riemergere di utopie nel corso del tempo ha a che fare, forse, con una condizionalità insita nella mente umana: quella di pensarsi – più o meno coscientemente – per la propria ampiezza in gran parte ancora inesplorata, destinata a mettere al mondo una trasformazione della specie da cui tutti abbiamo origine, l’umana, in una di genere superiore, e quindi super-umana. La dimensione “umana” è fortemente caratterizzata dalla fallibilità, dall’unione intima di pulsione e riflessione, dall’avere questo uomo la propria fonte in anime diverse, come sostenuto da Aristotele. Inevitabilmente dunque conflitto, opposizione, egoismo, particolarismo, guerra e infine l’anelito nichilistico alla distruzione indiscriminata trovano la loro causa nelle opposte tendenze di un individuo costantemente invaso e distratto da sé stesso.
All’opposto di tutto ciò, l’utopia rimanda sempre e immancabilmente ad una fusione di individui e di scopi; a un essere super-individuale che, finora, l’egoismo umano ha impedito si concretizzasse.
Monte Verità: utopia di una comunità spirituale contro la proprietà, il potere e la ricchezza
Ai margini della città di Ascona, a poca distanza da Locarno, sul versante svizzero del lago Maggiore e in pieno Canton Ticino, sorge da più di un secolo la colonia di Monte Verità (qui il sito ufficiale). La Fondazione che oggi ne perpetua il ricordo mantiene i 7,5 ettari della proprietà originaria con una singolare ospitalità alberghiera, un centro congressi e tre musei interni, cercando di non discostarsi dall’ispirazione dei fondatori, ma dovendo inevitabilmente concedere qualcosa all’impiego economico della potente aura e della duratura fama del luogo.
A partire dal 1900 s’insediarono sul monte Monescia alcuni solitari originali: Henri Oedenkoven da Anversa, la pianista montenegrina Ida Hofmann, i fratelli Gusto e Karl Gräser, provenienti dalla Transilvania.
Ribattezzarono il Monescia “Monte Verità” e cominciarono subito a praticarvi i loro ideali di vita. Rigorosamente vegetariani, si occuparono di sistemare il posto con ferventi opere agricole, costruendo per riparo semplici capanne di legno “sole-luce”, dedicandosi all’euritmia e ai bagni di sole integrali, durante i quali era normale il naturismo o nudismo. Portavano i capelli lunghi e non si curavano della persona; facevano bagni nel lago e non riscaldavano l’acqua per gli usi domestici. Il gioco, la meditazione, l’immersione estatica nella natura discretamente modificata dalle costruzioni, mai alterata da esse, completavano il ciclo della giornata. L’illuminazione serale e notturna era considerata superflua. Ci si riscaldava solo per necessità con fuochi e gli abiti erano grezzi, rispondenti al programma della “riforma”.
Gli abitanti di Monte Verità non concepivano, ovviamente, questi caratteri esteriori come lo scopo della loro vita comune, ma come espressione di un cambiamento profondo, in grazia del quale il superfluo, la ricchezza, il potere e la proprietà venissero aboliti; non con un atto violento di effrazione o mediante requisizioni – come accadrà di lì a pochi anni con la rivoluzione bolscevica comunista – ma come frutto di spontanea rinuncia, del tutto indolore una volta divenuti consapevoli dell’inutilità di simili orpelli, davanti alla grandiosità dell’essere naturale.
Monte Verità: L’attività di vita comune ai primi del XX secolo era un’istanza profondamente rivoluzionaria
E tutte le idee e dottrine che aspirassero a ricondurre la persona ad una semplicità spartana, effetto di una convinta adorazione della natura e di tutte le sue manifestazioni, a Monte Verità furono accolte ed ospitate. Un nuovo centro d’irradiazione spirituale si era installato nel cuore dell’Europa, poggiando sul potente magnetismo terrestre: sotto quelle terre corre infatti la linea insubrica,fenomeno oggi ben rilevato di una sutura geologica, o geosutura, fra la placca euroasiatica e la placca africana, che a partire dal cretaceo dette origine ai massicci dolomitici delle Alpi Centrali. Non desti sorpresa quindi il fatto che nel volgere di pochi anni la fama di Monte Verità si era diffusa in tutta Europa e in parte del mondo. Lo frequentarono il principe Peter Kropotkin, figura di spicco dell’anarchia, August Bebel, Karl Kautsky, forse anche Lenin e Trotsky, Hermann Hesse, la contessa Franziska zu Reventlow, Else Lasker-Schüler, D.H. Lawrence. E ancora C.G. Jung, Isadora Duncan, buona parte del dadaismo: Hugo Ball, Hans Arp, Hans Richter, e poi Marianne von Werefkin, El Lissitzky e molti altri. Vi fece un passaggio anche il controverso esoterista inglese Aleister Crowley.
Monte Verità: libero pensiero nella pratica del confronto (femminismo incluso)
Uno dei punti di forza di Monte Verità era anche la diffusa pratica di libere discussioni fra i suoi membri e visitatori, che finirono per diventare una forma di spettacolo: in questo va riconosciuto un certo contributo al successo della Comune da parte della Società Teosofica, in quel tempo all’apice della sua espansione mondiale. Per i progetti di bio-architettura e bio-agricoltura è riconoscibile l’apporto delle teorie di Rudolf Steiner.
Personalmente dissento da talune interpretazioni che riportano fenomeni come Monte Verità nell’ambito del movimento völkisch e della Volkstumbevegung, ossia della rinascita di forme di religiosità pagana, a base leggendaria, nordica e arianeggiante, la cui attinenza con le susseguenti dottrine naziste, come nel caso della rinascita del culto di Ostara, è abbastanza evidente.
Intanto, le frequentazioni di Monte Verità basterebbero, da sole, a certificarne la matrice essenzialmente progressiva, trattandosi delle schiere degl’intellettuali europei che più di chiunque altro si sono distinti, nella prima metà del secolo, nell’ambito delle avanguardie artistiche e delle più moderne concezioni filosofiche e mediche. Ma se questo non bastasse, ricorderemo anche il ruolo assolutamente originale che ebbero le donne e il movimento femminista nella costruzione della filosofia di vita di Monte Verità. Basterà ricordare Casa di bambola di Ibsen, per avere con brevi tratti un quadro della condizione della donna alla fine del XIX secolo: segregata nella sfera domestica, procreatrice e allevatrice dei figli, inabile al lavoro, condannata ad eterna minorità sotto il dominio di un marito-padrone, ingabbiata negli abiti e nei busti. Libertà di espressione, assoluta equivalenza nelle decisioni della comunità, naturismo, gioco, danza e fusione con la natura erano, invece, le anti-regole di cui donne di ogni condizione – fra le quali molte aristocratiche – potevano godere, nella prospettiva del paradiso in terra tipica di Monte Verità.
Nel 1920 il gruppo dei fondatori si trasferì in Brasile, facendo perdere le proprie tracce
Il complesso divenne in seguito la residenza dal barone von der Heydt, banchiere dell’ex imperatore Guglielmo II e grande collezionista di arte contemporanea ed extraeuropea. Il barone fece costruire un edificio con funzione di albergo e foresteria in puro stile Bauhaus che venne realizzato da Emil Fahrenkamp, a ridosso della parete di roccia, tuttora esistente.
Con l’arrivo di un proprietario, sia pure sensibilissimo alle maggiori correnti estetiche e spirituali del tempo, era inevitabile che l’indirizzo originario di Monte Verità subisse una significativa alterazione. Ciò che vi resta inalterato è la propensione ad una immersione totale nell’ambiente naturale, dove gli edifici giocano un ruolo di completamento e di assecondamento del paesaggio. L’ideale di vita comunitario e semi-selvatico venne invece progressivamente abbandonato e considerato impossibile da praticare.
Ma il seme gettato dai fondatori era destinato a ulteriori germogli
Il movimento hippie o dei “figli dei fiori”, a partire dagli anni Sessanta del ‘900, trova evidente ispirazione nella Comune di Monte Verità. Con esso condivide lo smarrimento, e sotto alcuni aspetti il conseguente disprezzo, per lo stile di vita borghese, o per meglio dire piccolo-borghese, diffusosi a macchia d’olio in occidente; la tipica sequenza nascita-educazione-matrimonio-lavoro-vecchiaia-morte viene rifiutata e considerata una forma violenta di manipolazione dell’individuo e della sua libertà, non diversamente dalla disciplina religiosa e dal militarismo.
La parità dei sessi e, nelle forme più radicali, il ripudio della genitalità e della genitorialità sono conseguenze immediate di questa ribellione ad uno standard fortemente alienante. Nella stessa direzione va il ricorso e l’esaltazione delle droghe psicotrope, in grado di riavvicinare l’individuo alla propria matrice ancestrale. Questi elementi sono tutti ben presenti fra gli abitanti di Monte Verità, e devono riuscire socialmente “pericolosi” poi a lungo andare insostenibili, se la Comune conobbe l’importante cesura cui ho fatto cenno nel 1920, a meno di vent’anni dalla sua fondazione. È giusto tuttavia ricordare che l’avvicendamento del barone von der Heydt fu conseguenza del vuoto creato dall’abbandono dei fondatori; e che in definitiva il complesso ebbe la migliore sorte possibile in quelle condizioni, poiché ne conservò quantomeno una delle ispirazioni originarie, ossia quello di tempio elevato alla bellezza e alla contemplazione, sia pure trasformandosi in un resort per benestanti.
La civiltà europea vive da sempre la lacerazione di questa intima contraddizione: essere stata la prima a promuovere l’era industriale, averne fatto dipendere le sorti non solo della propria crescente ricchezza, ma la propria stessa sopravvivenza, da una parte; dall’altra di aver colto con molta anticipazione il rischio letale della contaminazione e della consumazione del paesaggio naturale e del suolo a causa dello sviluppo industriale. Così, l’aspirazione di Monte Verità ad essere “mammella della verità”, come fu intitolata una mostra aperta nel 1978, è destinata a rimanere una coinvolgente testimonianza di persone, poche o molte che fossero, sinceramente persuase che una vita migliore per tutti in questomondo – senza dover devotamente attendere l’”altro” – è sempre possibile: basta rimboccarsi le maniche e agire. ©RIPRODUZIONE RISERVATA