Oppenheimer e la Bhagavad Gītā

A proposito di Oppenheimer e la Bhagavad Gītā

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Parliamo di Oppenheimer e la Bhagavad Gītā. L’uscita nelle sale della grande produzione Oppenheimer diretta da Christopher Nolan, regista londinese considerato – a giusta ragione – il top che possa offrire oggi Hollywood in tema di cinema “impegnato”, ha sollevato un importante dibattito pubblico sul tramonto delle guerre convenzionali, dopo la costruzione dell’arma atomica e il suo impiego nel bombardamento di Hiroshima del 6 agosto e di Nagasaki il 9 agosto 1945.

Un motivo appena minore, per la vasta eco del film, è l’interesse sempre risorgente per le più importanti personalità della scienza moderna, fisici e matematici in particolare: A Beautiful Mind del 2002 di Ron Howard con Russell Crowe, dedicato a John Nash; The Imitation Game del 2014 di Morten Tyldum con Benedict Cumberbatch nel ruolo di Alan Turing, il matematico decrittatore del codice Enigma e pioniere dell’informatica. Si ha ragione di ritenere che ogni nuovo “colpo” battuto in questa direzione otterrà analoga eco, dal momento che a dispetto di tutte le indicazioni contraddittorie sulla diffusione delle discipline scientifiche, matematiche e tecniche, la divulgazione sta ottenendo ultimamente notevoli risultati: il pubblico – in modo indipendente dalle fasce d’età – è attratto da questi pionieri del dominio sulle forze naturali, così come è affascinato dal dominio in generale, anche in campo politico: lo dimostra l’immancabile successo delle storie riguardanti le famiglie reali, come ad esempio i numerosi biopic sulla principessa Diana o il magnifico film di Stephen Frears The Queen del 2006.

Il film Oppenheimer e la Bhagavad Gītā. I riferimenti a Krishna sono diretti ma non chiari a tutti. Vediamoli insieme

Tornando a Oppenheimer, Nolan mette in esergo, conferendogli dunque una particolare importanza, una celebre dichiarazione del fisico resa anni dopo il test nucleare di Los Alamos denominato “Trinity” ed eseguito il 16 luglio 1945:

Sapevamo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Alcuni risero, altri piansero, i più rimasero in silenzio. Mi ricordai del verso delle scritture Indù, il Baghavad-Gita. Vishnu (Krishna) tenta di convincere il Principe che dovrebbe compiere il suo dovere e per impressionarlo assume la sua forma dalle molteplici braccia e dice, “Adesso sono diventato Morte, il distruttore dei mondi.” Suppongo lo pensammo tutti, in un modo o nell’altro.

(cit. da un’ intervista televisiva del 1965)

La citazione fatta dal fisico è tratta dalla Bhagavad Gītā, testo sacro dell’induismo che fa parte del poema epico Mahabharata, composto di centomila versi, e ne costituisce – si potrebbe dire – uno dei passaggi più potenti. La B.G. narra dell’incontro fra uno Kşatriya (appartenente alla casta dei guerrieri) di nome Arjuna, e il dio Krishna (Kŗşņa nella grafia sanscrita), alla vigilia di una grande battaglia contro i malvagi Kaurava. Arjuna guida l’armata dei fratelli Pāndava, i Giusti, e lo stesso Arjuna è un eroe prototipico, figlio del dio Indra. Lo scontro è imminente, ma Arjuna viene preso da scrupoli e dubbi, al punto di voler rinunciare alla lotta. Vede nelle schiere avversarie un gran numero di parenti, fratelli e cugini ai quali si sente ancora legato da intensi rapporti affettivi e persino il suocero, per il quale ha una devozione filiale.

Il punto di vista del dio Krishna è che la battaglia deve essere combattuta per compiere il Karma, la Grande Legge che non lascia scampo, non può essere modificata e rappresenta anche una forma di Dharma, cioè di servizio religioso o atto sacro. Nonostante la evidente sproporzione fra divino e umano, i due protagonisti della Bhagavad Gītā condividono taluni aspetti del lignaggio – come detto, Arjuna è figlio di un dio mentre Krishna, pervenuto alla condizione di Divinità Suprema e definito “l’infinitamente affascinante”, sembra abbia avuto origine da un antichissimo eroe “umano” fiorito in un’età addirittura precedente l’attuale Kali Yuga – e nel racconto del poema hanno una lunga dimestichezza amichevole: sono compagni da sempre. Di conseguenza l’atteggiamento assunto da Krishna nel lungo dialogo elude ogni forma d’imperiosità e terribilità per spingere Arjuna all’azione; il dio assume piuttosto il carattere di un maestro delicato e paziente: essendo l’attributo dell’infinità uno dei più frequentemente citati, si può dire che anche la sua pazienza nei confronti di Arjuna sia senza fine.

Dunque Krishna, parlando diffusamente di sé stesso e delle ragioni per le quali ritiene che la guerra debba essere condotta senza mercè e fino alla totale distruzione delle schiere nemiche, dietro le continue e incalzanti interrogazioni di Arjuna che si qualifica come “suo allievo”, e senza mai spazientirsi, risponde con chiarezza evitando di sottolineare la sua incalcolabile potenza e l’enorme distanza fra lui e il guerriero umano che ha davanti; preferisce invece fare appello alla loro antica intesa, ai giochi e ai piaceri condivisi tutti puri e santi, continenti e casti, poiché in questo modo si evidenzi ancor più la distanza fra virtù e vizio, fra i Pāndava e i Kaurava. Nello scontro che avrà luogo di lì a poco a Kurukşetra questi ultimi rappresentano infatti la lussuria, il pervertimento, la degradazione. Cedendo alla libidine materiale, ad esempio del potere, dei piaceri e dei possessi collegati, anche le nature più nobili – come nel caso dell’amato suocero di Arjuna – si sono irrimediabilmente corrotte; ed anzi, proprio per aver avuto origine nelle caste più nobili – Brāhmana e Kşatriya – il loro essere caduti nella costrizione e nel dolore di chi si vincola bestialmente al possesso e alle sue cerimonie esteriori, rende la loro colpa inespiabile e definitiva: il dio afferma che anche volendo praticare verso di loro la pietà, ad esempio rinunciando a distruggerli, essi moriranno lo stesso e la rinuncia a distruggerli sarebbe errore, inazione e non astensione dal male, finirebbe cioè per essere un’omissione di ciò che è necessario fare, quindi malvagia e contraria al vero Bene.

Le citazioni del film e le forzature per incontrare l’Uomo moderno

La citazione fatta da Oppenheimer è tratta dal Cap. 11, verso 32 della Bhagavad Gītā. Siamo al punto in cui Krishna, su diretta richiesta di Arjuna (versi dal 2 al 4), accetta di mostrarsi nella sua forma universale. Sa che questo produrrà sull’amico un grande spavento e che gli occhi umani non sono fatti per sopportare quella vista, tuttavia (vv. 9,10 e 11) lo accontenta:

O re, così parlando, Dio, la Persona Suprema, maestro di tutti i poteri mistici, mostra ad Arjuna la sua forma universale. Arjuna vede in quella forma universale innumerevoli bocche e innumerevoli occhi. Era tutto prodigioso. Quella forma era adorna di gioielli divini e sfavillanti e di svariati vestiti. […] Era tutto magnifico, illimitato e continuamente in espansione. Questo è ciò che vede Arjuna.

Seguendo questi eventi del poema s’inserisce la citazione di Oppenheimer, il quale però non risulta chiaro se ricordi esattamente la successione degli eventi. Intanto lui dice: assume la sua forma dalle molteplici braccia. Non si tratta di “molteplici” ma di sole quattro; poiché al v. 46 Arjuna chiede: “O Signore Universale, desidero contemplarTi nella tua forma a quattro braccia”… Mentre si direbbe che Oppenheimer intenda citare la manifestazione della forma universale di Krishna, ossia il contenuto dei versi 9, 10 e 11.

Di conseguenza anche la traduzione del verso esergo, o chiave – secondo la versione filmica – dell’intimo sentimento del fisico, sullo scatenare le forze elementari della fissione nucleare, viene inteso da Oppenheimer in modo quantomeno dubbio: adesso sono diventato Morte, il distruttore dei mondi, è una traduzione che ruota intorno al termine sanscrito kālah, che da vari madrelingua viene tradotto tempo, e non morte. Il tempo è dunque distruttore di mondi ed è logico che sia così, perché sarà il tempo, se non vorrà farlo Arjuna, a distruggere tutti i guerrieri di entrambi gli eserciti, ad eccezione dei Pāndava santi.

È pur vero che la versione di Oppenheimer, pur non corrispondendo alla lettera del testo, troverebbe comunque un’applicazione logica all’interno dello stesso. Ma, possiamo dire, la forzatura sia del senso che del ricordo di questo fondamentale passo sembra raccontare molto più dell’anima dell’uomo moderno, tormentato dalle conseguenze dell’enorme e distruttiva energia rivelata con il test Trinity, che dell’eroe antico e del dio suo tutore. Il tempo reca morte. È inevitabile: ogni tentativo di eludere o contrastare questa forma di distruzione dei mondi è destinato al fallimento; allo stesso tempo la morte non viene solo col tempo, sebbene avvenga sempre nel tempo. Ciò che Krishna raccomanda ad Arjuna – evitando di imporglielo, come pure potrebbe fare – è di dare corso alla morte subitanea dei malvagi, non lasciando che il tempo scorra ancora e facendo l’azione.

Tra fisica e metafisica per una conoscenza integrale

La metafisica induista come è presentata nel Mahābhārata – in particolare la Bhagavad Gītā è considerata testo sacro e annoverata da vari studiosi fra le Upanişad posteriori – appare come una delle vie di uscita del grande fisico in direzione di una sapienza integrale dell’uomo (l’altra da lui intrapresa, inizialmente sostenuta ma poi abbandonata, è il comunismo marxista) che gli permetta di ricomprendere il senso della propria attività di scienziato nel quadro di un più vasto concetto di necessità: ad esempio, la necessità storica di porre fine alla guerra, alla prevista strage di circa un milione di soldati in caso di invasione delle isole giapponesi.

Facendo credito allo scienziato di una comprensione profonda delle conseguenze delle azioni, gli enormi numeri delle persone coinvolte nel progetto Manhattan, oltre 130.000, e del suo finanziamento di due miliardi di dollari dell’epoca, ricordano molto da vicino le cifre iperboliche che compaiono nella Bhagavad Gītā: l’enorme numero di armati; la durata in milioni d’anni delle età del mondo o Yuga, e così via. Basterà ricordare che il solo Kali-Yuga, l’era cosmica in cui ci troviamo, caratterizzata dai “beni conseguiti per mezzo di delitti” (ove risuona una celebre sentenza di Balzac: “non c’è grande fortuna che non nasconda un grande crimine”) dura 360.000 anni, dei quali ne sono ad oggi trascorsi soltanto 5000. Oppenheimer associa quindi lo studio di una filosofia religiosa che lo aveva molto assorbito con la folgorante consapevolezza di essere lui stesso l’azione e lo strumento dell’azione di un cambiamento di ere.

Si intravede inoltre, nel racconto che Oppenheimer fa dell’epifania del verso discutibilmente tradotto dopo l’esplosione di The Gadget, la bomba test di Los Alamos, il suo identificarsi con Arjuna. Una conoscenza approfondita del fascinoso testo sacro dell’induismo non era di per sé sufficiente ad assolverlo di fronte alle immani distruzioni di Hiroshima e Nagasaki. Non bastava a rimuovere ogni traccia di etica della responsabilità personale.

Eppure il fisico di giustificazioni poteva trovarne a iosa. Intanto, e forse argomento preponderante, il fatto che il Progetto Manhattan era nato per contrastare e battere sul tempo un’analoga sperimentazione nazista sulle armi nucleari; e solo in un secondo tempo, sconfitta la Germania, quella risorsa distruttiva sarebbe stata utilizzata contro l’irriducibile Giappone. Eppure, quasi a completare la meditazione cominciata con il verso sacro imperfettamente tradotto, Oppenheimer ebbe a dire nel 1946, davanti allo sbalordito presidente degli Stati Uniti H. Truman: “Signor Presidente, le mie mani sono sporche di sangue”. È fortemente probabile, data la forte influenza dell’induismo su Oppenheimer, che si riferisse al karma dell’Era Atomica, della cui nascita era stato levatrice e che distende le sue ali nere su di noi e i nostri discendenti. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Testo consultato:

Bhagavad Gītā “così com’è”, con spiegazioni di Sua Divina Grazia A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupāda. Edizioni Bhaktivedanta, Firenze, 1981.

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