In una recente intervista a Il Libraio Galimberti ha detto a proposito del trinomio francese rivoluzionario Liberté, Egalité, Fraternité che la prima «ha dato vita alle liberal-democrazie, la seconda alle social-democrazie e la terza si è perduta per strada». (due rapide considerazioni a margine: alla libertà Galimberti non crede, è notorio, perché l’identità neutralizza sul nascere qualsiasi forma di libertà, ma il punto è che l’identità è un falso problema, magari ci torneremo in un altro momento; se poi è alla tradizione liberale che si riferisce indirettamente, fa uno sbaglio grossolano perché quella libertà si rileva misurando le trasformazioni che ha impresso alla realtà e alla storia). Ciò che ci interessa oggi è che Galimberti sottolinea che non sullo Stato ma sulla Fraternità si dovrà costruire il Terzo millennio. È anche la nostra opinione, ma subito nasce il problema di come ripensare le fraternità, come attuarla, quali sono gli orizzonti suoi propri e come renderli nostri. L’approccio che gli articoli pubblicati finora dal nostro Gianfranco Rucco propongono, sono materiale sufficiente – per chi ha voglia di comprendere davvero e non limitarsi alla ricerca di testi a effetto – per la stesura di un Manifesto che annuncia come sia non solo possibile, ma auspicabile, rivedere i testi sacri con lo sguardo della scienza; non solo la scienza critica, che porta, nel migliore dei casi, a una infinità di didascalie e bibliografie, ma una scienza che consenta di pensare la Tradizione come sentimento. “Sentimento” è una parola tabù per gli scientisti quando invece è a sua volta, con ogni probabilità, fondamento della fraternità stessa. Questo testo sulla fraternità è il punto mediano di un discorso più ampio dei temi fin qui trattati, e di cui i testi non sono che istantanee, in ultima analisi. Da qui, sebbene le pubblicazioni di Rucco saranno più distanziate, prenderanno la piega che conduce, inesorabile, verso la comprensione dall’alto di un nuovo paradigma, quello annunciato dal titolo di oggi. Un nuovo paradigma per il terzo millennio.
La grande separazione. Crisi dell’individuo quale unità minima di un processo di riduzione. Considerazioni preliminari per pensare un nuovo paradigma per il terzo millennio
È ormai sempre più ampio il riconoscimento della profonda crisi dell’io individuale, autocentrato, che si percepisce separato dal mondo e dagli altri, in perenne lotta per l’affermazione egoistica dei suoi “diritti”, all’interno di un paradigma di darwinismo sociale.
L’umanesimo moderno, infatti, ancorché mosso dall’idea, in sé apprezzabile, della centralità dell’essere umano nella creazione, in realtà non è riuscito a rispettare né l’essere umano né la creazione, per la deriva egoistica scaturita dalla recisione del legame tra l’etica e le varie scienze e tecniche determinata dal suo precipuo sistema culturale: l’individualismo filosofico.
Come è stato possibile tutto questo?
La concezione occidentale moderna del mondo, dell’uomo e del ruolo dell’uomo nel mondo, è figlia della filosofia, del metodo e delle teorie scientifiche del 1600, le quali costituiscono ancora oggi le basi portanti della scienza e della cultura scientifica; questa concezione può essere espressa, in una sola parola, con separazione.
Dal 1600 tutto l’universo è fatto di elementi separati
Infatti, il paradigma culturale della scienza e della filosofia moderne, principalmente risalente a Newton e Descartes, rappresenta l’universo come una realtà composta da elementi isolati ed autonomi l’uno dall’altro e l’essere umano come l’elemento più separato in assoluto, essendo separato anche in sé stesso tra un corpo di materia inerte ed una mente cosciente che ne costituirebbe la vera essenza.
La visione moderna dell’universo e dell’uomo è stata ulteriormente influenzata anche dalla teoria di Darwin che considera la vita come frutto del caso, priva di uno scopo, solitaria, selettiva ed il cui solo senso è la sopravvivenza, per assicurare la quale la regola è la predazione.
In questo paradigma, fondato esclusivamente sul successo nella competizione e sull’utilità individuale e di specie, sono escluse per definizione interdipendenza e condivisione.
Religione come tentativo insufficiente di tenere insieme
La religione ha cercato di far fronte a questa grave crisi con i suoi ideali di unità, comunione e scopo, ma l’insanabile contrasto che, in occidente, l’ha opposta alla scienza nella visione del mondo, ha finito per indebolirne le capacità di risposta ed ha determinato, per di più, un circolo vizioso nel quale è incappato chiunque abbia intrapreso la via spirituale senza rinunciare al tentativo di riconciliare le due posizioni in un paradigma unitario.
Un tentativo scientifico di riunificazione: l’universo olografico di Bohm
Ribaltando completamente queste idee, la fisica contemporanea (Bohm) ipotizza il funzionamento creativo di soggiacenti livelli di realtà; esisterebbero, cioè, piani di creazione più profondi ed elevati che custodiscono lo stampo di ciò che accade nel nostro; è da questi livelli più sottili di realtà che trarrebbe origine il mondo fisico nel quale ci troviamo.
A prescindere da quanto le cose del nostro mondo possano sembrarci separate ed esistenti indipendentemente le une dalle altre esse, ad un livello di realtà più profondo sono in verità tutte collegate, con modalità che la nostra posizione nell’universo semplicemente non ci permette di vedere.
La separatezza è un’illusione: tutte le increspature e le onde del mare, anche se sembrano esistere separatamente, in realtà sono costituite dalla stessa acqua.
Secondo questa interpretazione, il nostro livello di realtà e tutto ciò che contiene, noi inclusi, fa parte di un vasto progetto cosmico, ogni parte del quale è equamente condiviso da tutte le altre secondo uno schema frattalico.
La nuova forma di intuizione descrittiva di questa realtà potrebbe essere definita (Bohm) totalità indivisa in movimento fluido.
Per chi vuole vedere: dal fondo della tradizione riemerge un universo olografico e olistico simile a quello di Bohm. Dallo Zohar o Libro dello Splendore ai Veda, dall’antico Egitto a Platone e i Rotoli del Mar Morto. La Bibbia e Max Planck
Secondo questa nuova interpretazione, si può capire l’universo soltanto considerandolo come una ragnatela dinamica di interconnessioni (Zohar).
Il nostro livello di realtà può essere definto (Wheeler) con l’appellativo di partecipativo, cioè non finito ed in continua sintonia con la coscienza.
Anche secondo le antiche Tradizioni sapienziali il nostro mondo funziona esattamente in questo modo.
Dai Veda, all’antico Egitto, a Platone, fino ai Rotoli del Mar Morto, l’antica sapienza tramanda l’idea generale che in realtà il nostro mondo fa da specchio a ciò che accade in un Regno superiore o in una realtà più profonda.
Alcuni frammenti de “I canti del sacrificio del Sabato”, tratti dai Rotoli del Mar Morto, vengono tradotti: “ciò che accade sulla terra non è altro che un pallido riflesso di una realtà più vasta e fondamentale” e la massima sapienziale forse più conosciuta dell’antica saggezza dice “Come in alto così in basso”.
Un insieme crescente di ricerche sostiene che siamo ben più di ultimi arrivati che attraversano un livello di realtà creato definitivamente tanto tempo fa: molte recenti prove sperimentali portano alla conclusione che stiamo tuttora creando progressivamente il nostro livello di realtà, facendo delle aggiunte a ciò che già esiste.
Questa idea che l’uomo è stato concepito come co-creatore di questo livello di esistenza è affermata anche nella Bibbia; nella versione in lingua italiana del Tikkùn Tehillìm (il Libro dei Salmi), ad esempio, il versetto 16 del salmo 115 viene tradotto dall’ebraico: “i cieli sono in cieli dell’Eterno, ma la terra Egli l’ha affidata, da perfezionare, ai figli dell’uomo”.
La fisica contemporanea sembra, inoltre, aver scoperto che lo spazio non è vuoto e cosa esso contenga: un campo energetico che si differenzia da qualunque altra forma di energia.
Proprio come suggeriscono il mito della rete di Indra e l’etere dei Greci, questo campo energetico sembra trovarsi sempre, ovunque e sembra essere esistito dall’inizio dei tempi.
Per Planck, l’esistenza di questo campo indica che una forza intelligente è responsabile del mondo fisico. Questo è ciò che conduce la scienza a conclusioni che coincidono con le conoscenze delle antiche Tradizioni sapienziali del mondo.
A prescindere dal nome datole dalla scienza o dalla religione, sembra ormai chiaro che “là fuori” esiste una forza, un campo, una presenza, che rappresenta la grande rete che collega ognuno agli altri esseri umani e ad una Forza superiore.
Questo campo di energia ci lega gli uni agli altri nella maniera più intima possibile: è l’incubatrice della nostra realtà.
Questa potrebbe essere l’implicazione più difficile di ciò che, in armonia con le antiche Tradizioni sapienziali, la fisica contemporanea ci sta ricordando: l’illusione principale dell’essere umano è che esistano cause derivanti da qualcosa di diverso dal suo personale stato di coscienza.
Ci chiediamo qual è il significato reale di quel legame? Cosa implica essere tutti profondamente coinvolti nel mondo e nell’esperienza dei nostri simili al punto da condividere tutti il puro spazio quantistico da cui nasce la nostra realtà?
Queste scoperte inducono a considerare un paradigma completamente diverso da quello della modernità anche su un piano sociale, economico e politico
Veniamo da un’epoca in cui il mondo viene concepito in termini di “noi” e “loro”: se esiste davvero un unico campo di energia che collega tutto ciò che esiste e se funziona come sembra a giudicare dalle prove che abbiamo, allora non può esistere nessun “noi” e “loro”, ma solo un “noi”.
Inoltre, le recenti scoperte scientifiche e le antiche Tradizioni sapienziali forniscono, nel contesto di una visione del mondo e dell’uomo improntata alla riunificazione e ad un’etica ad essa coerente, il sostrato culturale per ricondurre l’agire politico in ambito etico e superare la definizione “politologica” del “politico” e la concezione di un ordine politico regolato da leggi proprie.
Infatti, in occidente, la concezione della politica nel mondo antico e medioevale si basava sugli archetipi della natura in senso lato (non solo nel senso materiale della parola); a partire dalla modernità la concezione della politica non fu più fondata nella rappresentazione dell’ordine cosmico, ma nel risultato dell’attività umana, cioè in un programma artificiale basato sul contrattualismo.
Per Platone, in particolare, il concetto di polis rappresentava il modello dell’ordine naturale: “la nostra legislazione era conforme alla natura” (La Repubblica, V, 456 C).
Questa posizione ha dominato il pensiero politico occidentale per molti secoli fino alla rivoluzione “positivista” nel campo della teoria politica iniziata da Machiavelli.
La nuova visione. Paradigma per il terzo millennio secondo la vera e completa Natura
La nuova visione rende chiaro che l’idea per la quale il “politico” consiste essenzialmente nella definizione del “nemico” e dell’“amico” è completamente contraria ad una concezione basata sulla natura delle cose e ad un’etica ad essa coerente.
In questa prospettiva, inoltre, dal punto di vista etico, l’agire umano può essere considerato solo in un’ottica complessiva, non frammentato tra economico, sociale e politico.
Occorre, a questo punto tener presente che, in questa prospettiva, sul piano etico il principio della necessità del rispetto delle predisposizioni naturali dell’uomo non si fonda nel giudizio derivante dalle molteplici esperienze particolari, ma nella essenza stessa delle predisposizioni umane: l’abuso di una predisposizione d’essenza prima o poi, in qualche modo, produce conseguenze negative sia sul piano personale che su quello sociale.
I valori non sono stabiliti in base ad un’analisi fenomenologica della nostra sensibilità, ma mediante un’astrazione reale-metafisica dell’essenza delle finalità delle predisposizioni umane.
Alle origini del pensiero politico occidentale c’è l’idea greca che la felicità umana, fine che giustifica il vivere associato, possa essere definita in modo generale: per essa esiste una norma valida universalmente.
Da questa norma, coincidente con la natura umana, può essere determinato il bene comune, senza sopprimere le differenze individuali.
Sorge qui l’interrogativo su come e chi possa determinare con autorità il bene comune, stanti le differenti attitudini degli uomini.
Uscire dalla necessità dell'”arbitro autorevole”. Superare un’altra grave separazione, quella fra ragione pura e ragione pratica
Nel paradigma considerato, la virtù sorge dalla conoscenza del vero, che è anche conoscenza del bene: la risposta alla domanda, pertanto, si articola a seconda della natura e della valenza che si riconosca alla conoscenza, il cui fondamento metafisico, fino alla modernità, peraltro, è sempre stato indiscusso in entrambe le prospettive.
Infatti, tale conoscenza può essere considerata come compenetrazione intuitiva con la legge strutturale della creazione (nel senso etimologico derivante dal latino intueor, guardare dentro, che meglio di intelligere traduce il greco noéin perché da conto del riferimento al vedere ed alla visione proprio di tale termine); questo approccio valorizza la radice mistico- sapienziale del pensiero europeo e non riduce a pura razionalità la configurazione del divino e del macrocosmo, né quella del suo corrispondente antropico, la scintilla divina che dimora nel microcosmo umano.
Qui la conoscenza viene concepita e percepita non come un possesso mentale, ordinato e classificatorio del Cosmo, ma come uno stato di coscienza contemplativo del tutto e coincidente con l’Assoluto, uno stato lo specifico del quale è essere nella sapienza, condizione ben diversa dal semplice filosofare attorno ad essa.
In questo approccio solamente i titolari di tale conoscenza, in quanto unici depositari del vero, possono determinare il bene comune e pertanto, ovviamente, nella traduzione di tale conoscenza in precetti per l’organizzazione della vita sociale la prevalenza è accordata alla ragione teoretica.
Viceversa, nell’approccio in cui la conoscenza viene acquisita mediante l’esperienza, la determinazione del bene comune è prerogativa di tutti e, nella traduzione della conoscenza in precetti per l’organizzazione della vita sociale, la prevalenza è accordata alla ragione pratica, che realizza il suo perfezionamento mediante la virtù della prudenza.
Nel pensiero politico occidentale si è storicamente affermato il secondo approccio, ma l’idea che la ragione teoretica si limiti a descrivere semplicemente le premesse conoscitive alla stregua delle quali deve essere giudicato il caso concreto, ha determinato una situazione nella quale la ragione pratica, non potendo più appoggiarsi nel caso concreto a conoscenze generali teoriche, non può che ricorrere ad un accumulo di esperienze le quali tuttavia, da sole, non danno garanzia di un’affermazione corrispondente al vero.
La non coincidenza tra verità teoretica e verità pratica ha determinato, nel tempo, un progressivo indebolimento del paradigma fondato su di essa: una prima conseguenza è stata il venir meno della percezione della necessità di un consenso generale sui valori, necessità che comunque caratterizzava anche l’approccio razionale pratico più antico; dopo la modernità, il paradigma sembra non avere più efficacia atteso che, sotto l’urto della degenerazione dell’individualismo filosofico, l’agire dell’uomo, nella cultura attualmente prevalente, risulta ispirato ad un soggettivismo e ad un relativismo tendenzialmente sempre più assoluti.
L’unificazione è il nome interiore del paradigma per il terzo millennio. La solidarietà come brace di un fuoco antico che può tornare ad ardere con razionale consapevolezza. La nuova scienza deve essere scienza del conoscibile in luogo del conosciuto
Le recenti conoscenze scientifiche, in armonia con le antiche Tradizioni sapienziali, consentono oggi di ricostruire un nuovo paradigma nel quale l’ordine finalistico sia riconosciuto dalla ragione nei due aspetti, quello teoretico e quello esperienziale, superando la dicotomia tra vero e bene e rifondando un consenso generale su valori condivisi che abbiano a base una visione reale e razionale dell’ordine naturale di questo livello di creazione: un paradigma di unificazione.
Il nuovo paradigma di unificazione, fondato sulla interconnessione, interdipendenza e condivisione, può essere sintetizzato, sul piano dell’organizzazione sociale e politica, dal termine fraternità, che esprime un significato più pregnante di quello solidarietà, implicando anche l’idea di un legane originario.
Il principio di solidarietà sociale ha origini molto risalenti e se ne rinviene traccia nelle antiche Tradizioni sapienziali (in tutto l’antico Medio-Oriente, ad esempio, il re era il “difensore dei poveri”, una qualifica di cui si glorierà anche Hammurabi, il grande legislatore del tempo di Abramo).
Queste politiche solidaristiche di restaurazione della giustizia originaria voluta dagli Dei a mezzo, soprattutto, di manovre sui tassi di interesse e provvedimenti di protezione sociale, caratterizzarono tutta la legislazione sumero-accadica e permearono anche quella biblica, dove però il divieto del prestito ad interesse e l’azzeramento giubilare di tutti i debiti erano precetti circoscritti alle sole relazioni interne al popolo dell’Alleanza.
Peraltro, nella Bibbia il principio di solidarietà sociale è affermato con una pregnanza particolare: la regolazione solidaristica dei rapporti all’interno del popolo del Dio di Israele è, infatti, un cardine fondamentale dell’Alleanza e diviene principio di organizzazione sociale e politica nella legislazione mosaica.
Una società dove ciascuno avesse secondo il bisogno fu teorizzata e realizzata da Pitagora con i suoi discepoli, nel tentativo di ricreare i tempi dell’Età dell’Oro, quando gli uomini vivevano in pace condividendo i beni della Terra ed anche Platone affermò la necessità che la società fosse afamiliare ed i beni fossero possesso comune.
La profonda riflessione sociale del mondo antico e della Tradizione da cui veniamo ci ha lasciato in eredità l’ideale greco-romano dell’amicizia quale legame tra i componenti della comunità sociale e politica.
Fratellanza, l’ideale inattuato
Nel corso dei secoli l’Occidente ha lentamente trasformato in una mera pia aspirazione, se non in un’utopia, l’ideale di un’organizzazione sociale basata sulla fraternità; dei tre ideali della Rivoluzione, la libertà e l’eguaglianza hanno avuto applicazione seppure in modi diversi e su di essi sono stati costruiti sistemi sociali, economici e politici; per due secoli, il mondo ha subito le conseguenze sia positive che negative della loro applicazione, ma il terzo ideale, quello della fraternità è rimasto totalmente inattuato.
Certamente la realizzazione dell’ideale della fraternità richiede un “salto di coscienza”, ma oggi, grazie alla nuova forma di intuizione descrittiva della realtà che ci viene dalla scienza e dalle antiche Tradizioni sapienziali, stiamo acquisendo un livello di consapevolezza che non consente più di giustificare il vecchio paradigma con una sua pretesa rispondenza all’ordine naturale: quella dell’homo homini lupus è una visione originaria dei rapporti tra esseri umani che, per quanto fotografi una situazione spesso, purtroppo, drammaticamente reale, non ha altro fondamento se non in un processo culturale degenerativo.
Il riferimento antropologico fondamentale di questa visione, nuova ed antica ad un tempo, è l’uomo inteso come persona, la cui caratteristica ontologica strutturale è la naturale e costante apertura verso la dimensione metafisica e le altre persone e che, pertanto, è un essere-in-relazione.
In tale prospettiva, la visione della società è necessariamente organica o, quantomeno, organizzata; in essa centrale è l’idea che la società stessa è un’organizzazione di gruppi ciascuno dei quali partecipa della causa finale del vivere associato e basta a se stesso solo in parte nella realizzazione della sua perfezione; organizzazione di gruppi, non di individui.
Per descrivere il rapporto tra il singolo e la società la filosofia sociale occidentale, da oltre due millenni, fa uso dell’analogia dell’organismo.
Menenio Agrippa già nel V secolo a. C. avrebbe cercato di conciliare a Roma patrizi e plebei usando l’apologo delle membra in rivolta che pur costituiscono solidalmente un unico corpo. Platone nel Politico paragonò lo Stato ben ordinato con un corpo e le sue membra. Aristotele si servì dell’analogia dell’organismo per approfondire la conoscenza della struttura e della vita della società. Seneca insegnò che siamo tutti membra di un grande corpo perché la natura ci ha generati come parenti ed ha fatto di noi degli esseri sociali. La filosofia sociale cristiana si è poi servita dell’analogia dell’organismo per respingere, da un lato la concezione individualista della società e per illustrare, dall’altro, il principio del bene comune.
In questa prospettiva, come gli organismi non lasciano deperire le loro membra, così la società non può sfruttare i propri membri, ma deve prendersi cura di loro ed essi debbono essere disposti a subordinare disinteressatamente i propri interessi al bene comune.
Rivedere radicalmente il significato di “Bene comune”
Occorre chiarire che, in questa prospettiva, il bene comune non è solo una somma di beni individuali affini, ma un valore nuovo specificamente distinto dal bene del singolo e dalla somma dei beni dei singoli: ogni organismo sociale, ad esempio una città, possiede un suo particolare bene comune.
Ogni comunità opera per i fini per i quali è preordinata, tende ad organizzare la solidarietà tra i suoi membri e concorre alla difesa dei loro interessi comunitari, che non si identificano con gli interessi individuali di ciascun membro: essa persegue una responsabilità comune perché conosce e pratica il senso della comunità, della partecipazione collettiva ad un progetto comune, dei diritti e dei doveri di cittadinanza.
Tuttavia, senza le solide basi di un radicato senso del legame sociale e della partecipazione collettiva, il concetto e il richiamo al senso di responsabilità comune perde di significato; in Italia, prima dell’appello al senso di responsabilità al sistema politico ed ai cittadini, al sistema economico ed a quello istituzionale, è necessario costruire quel che manca storicamente e culturalmente: il senso di comunità.
Globalizzazione come indebolimento della Comunità di destino
Nella società globalizzata ed individualista si è perso il senso più nobile e complesso dell’essere parte di una comunità con uguale sentire e scopi comuni, di una “comunità di destino” e perché questa tendenza possa essere invertita occorre che la società civile ponga al centro della costruzione dell’idea comunitaria il concetto di legame, cioè l’insieme delle logiche e dei motivi per i quali una comunità si perpetua come tale e nel suo ambito le persone decidono di partecipare e condividere.
La promozione del legame sociale ha a che fare con la ricerca di una cornice di senso per gli interventi finalizzati all’inclusione sociale: sostenere il legame sociale significa valorizzare le relazioni tra i membri della società e promuovere l’assunzione collettiva di responsabilità, percependo i problemi come comuni e non come circoscritti a singole persone o gruppi.
Torna qui pienamente in evidenza il grande valore che può essere rappresentato dalla visione delle relazioni all’interno della comunità politica proprio delle Tradizioni sapienziali poste a fondamento della civiltà e della cultura cui apparteniamo.
Chi condivide l’idea che la vita non sia solo materialismo, condivide una memoria specifica, archetipica della fraternità o Libertà originaria
Infatti, tutti coloro che, a prescindere dalla specificità del loro credo o delle loro convinzioni metafisiche, condividono l’idea che l’orizzonte della vita dell’uomo non si risolva nel solo divenire storico e materiale, condividono anche, più o meno consapevolmente, una memoria archetipica improntata, nella visione sociale, alla fraternità: a costoro è opportuno che si rivolga la politica, con idonei e credibili argomenti, per cercare di richiamarli alla partecipazione in vista di quel necessario, grande processo di costruzione di una società che sia una vera comunità di destino.
Questo processo, che ha natura culturale, può essere favorito da alcune opportunità paradossalmente offerte proprio dalla crisi: c’è, infatti, un cambiamento della percezione di che cos’è bene comune e interesse comune: questo è un dato di fatto evidente che può essere foriero di una innovazione reale e profonda scommettendo su quella fondamentale risorsa culturale costituita dall’idea della “libertà originaria”, cioè di quell’attitudine etico-sociale per la quale, di fronte all’emersione di un bisogno sociale o di una libertà, la prima cosa che il cittadino si chiede è: “cosa posso fare io” e non “cosa deve darmi lo Stato”.
In questa prospettiva possono esplicarsi più compiutamente gli effetti positivi di un’organizzazione sociale fondata sul principio di sussidiarietà nella sua accezione più piena e reale: la sussidiarietà e le sue nuove forme possono rappresentare, infatti, da un lato, una possibilità per ampliare le risorse disponibili in rapporto alle realtà esistenti nel territorio e, dall’altro, una via per la mediazione sociale della conflittualità ormai endemicamente diffusa e favorita proprio dall’assenza di corpi intermedi tra le persone ridotte ad individui isolati e le istituzioni, in particolare quelle politiche ed economiche. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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