Pino Torre è l’underdog della filosofia in Italia. Nome completo Giuseppe Stefano Torre. È nato a Milazzo nel 1946, da vari anni organizza e conduce a Roma un gruppo di riflessione e autocoscienza, che si riunisce sulla sua splendida terrazza affacciata su un angolo scenografico e fascinoso – anche per lo stato di abbandono in cui attualmente si trova – di Villa Albani, fra la Salaria e Viale Regina Margherita. I membri del gruppo si definiscono Esistenzisti ontici, proponendo una particolare versione del più noto Esistenzialismo filosofico del XIX e XX secolo. La memoria del capolavoro di Ettore Scola del 1980, La Terrazza, con il suo parterre de rois non sembra improprio, poiché quel film cercava di rappresentare, affettuosamente ma senza ipocrisie, un quadro degl’intellettuali progressisti di allora.
Dopo gli studi secondari in ragioneria, Pino insegna per molti anni scienze motorie e nel 1976 si laurea in Psicologia alla Sapienza. Negli anni ’80 organizza i primi corsi ufficiali e master di Programmazione neurolinguistica a Roma. Nelle sue terre, a Milazzo e Pomezia, lavora nell’agricoltura biologica. Di questo progetto agricolo si occupa attualmente suo fratello Natale. Torre propone al pubblico due libri che raccolgono tutto lo sviluppo della sua visione filosofica: il Manifesto ontico e il Manuale per gli Esistenzisti Ontici. Abbiamo incontrato questa persona amabilissima, erede di una tradizione di filosofi irregolari e non-accademici che in Italia ha avuto i suoi esponenti più cospicui in Giuseppe Rensi e Costanzo Preve, sulla terrazza che è il centro irradiante del suo pensiero.
Caro Pino, in vari passaggi del tuo Manifesto, ribadisci l’importanza della tua infanzia contadina nella successiva messa a fuoco dei temi esistenzisti. Puoi parlarcene?
Sono nato a Fiumarella, una frazione di Milazzo, ed era una vera fiumara che si allagava d’inverno e lasciava fango secco nella stagione calda. Dove abitavo io non c’era la corrente elettrica, non c’era riscaldamento; mio padre nel ’43 aveva comprato una casetta con un magazzino. In quei primi anni di vita posso dire di essere vissuto come un selvaggio. Sul tetto c’erano le tegole ma non l’isolamento; quando mia madre cucinava, a carbone, il fumo usciva quindi dal tetto, non da un camino. Mio fratello Natale, nato quando avevo cinque anni, oggi è un grande vivaista; anch’io, pur non occupandomi più di frutta esotica certificata, continuo a produrre annone (annona calabrese, frutto verde simile al cachi, ndr.) che vendo qui a Roma. Da adulto, mi sono chiesto spesso perché e come quei primi anni mi abbiano formato nel profondo: perché, insomma mi sentissi di essere così particolare. Il punto è che la prima lingua in cui ho parlato è il dialetto siciliano. Definirlo dialetto poi, è certamente limitativo. Il siciliano, se vogliamo considerarlo in modo unitario, ha alcune caratteristiche che sembrano fatte per segnare l’espressività delle persone. Intanto è una lingua duttile: si lascia deformare nella pronuncia, nella fonetica ed è molto difficile immaginarlo scritto; si possono inventare le parole e di fatto si inventano. Infine, nel siciliano non c’è il futuro. Il passato è fu, passato remoto: ciò che è accaduto e non può più tornare. Per il resto la lingua siciliana vive di un eterno presente. Da qui una ricaduta importante fu che quando, a sei anni, cominciai le elementari, non capivo ciò che la maestra diceva.
L’italiano come lingua straniera, insomma.
Proprio così. Ma lungo questo canale di esperienza mi sono formato, in modo abbastanza definitivo. Mi piace essere diretto! Con la natura, con le persone e con me stesso. Ho avuto la possibilità di vedere com’era la natura prima dell’industrializzazione delle campagne agricole. Il siciliano – per tornare al discorso di prima – è una lingua terrena.
Potremmo dire anche terranea.
Sì, che mira a collocare il parlante in un tempo eterno, che non passa. È l’idioma del qui e ora, della realtà; e la cosa significativa è che si lascia plasmare.
Quindi la doppia invenzione di Camilleri, di un siciliano che non esiste e di un luogo immaginario, Vigata, da usare come scenario è corretta, fedele allo spirito del siciliano?
Io penso di sì. Lui inventa le parole, continuamente; e il lettore – questa è la curiosità – anche se le sente per la prima volta in qualche modo capisce.
Una comprensione del senso della frase, più che della lettera delle singole parole…
Ecco. Ed io mi porto dentro questa fame delle cose, di capire le cose, come tramite il linguaggio le cose si apprendono, cioè in definitiva, si prendono.
Nel “Manifesto” ti dichiari, con una punta di evidente orgoglio, un “sessantottino”. Anche da qui proviene un influsso sulla tua visione filosofica?
Certamente. Di fatto io non ho preso parte al movimento, perché nel ’68 mi trovavo a Palermo ed in particolare io, che facevo Educazione fisica, avevo tutti i professori fascisti o ex fascisti venuti dal ventennio… Sono arrivato a Roma nel ’72, e quando andai all’università trovai la facoltà occupata, sormontata dalla bandiera rossa. Ma ho fatto comunque il mio percorso. Qui ho scoperto Marco Pannella, Radio Radicale e il Partito Radicale. Ho ammirato Pannella perché lui era un po’ come me: diretto e schietto, dava sempre e solo del tu. Fu il primo ad accettare un confronto televisivo con Giorgio Almirante, il neofascista, quello che tutti scansavano. Pannella, pur d’idee del tutto diverse se non contrarie a quelle di Almirante, accettò il dibattito. Da qui la mia ammirazione: il confronto, il dialogo, il presente da vivere pienamente. Poi fu aperta, nel ’74, la facoltà di Psicologia che frequentai. Ma leggevo soprattutto filosofi: Sartre, Heidegger, Foucault…
E cosa di Foucault, Sorvegliare e punire?
Sì, e poi Le parole e le cose. In quegli stessi anni ho viaggiato molto. Sono andato in India due volte. Con Piero Angela e tutta la sua famiglia, un mese in Indonesia. Messico, Guatemala; ho girato da solo tutti gli Stati Uniti.
Andando un po’ più nel merito, Pino, sarebbe interessante che tu ci dessi una definizione di Ontica e di Esistenzismo.
Io intendo Ontica come la cosa trascendentale, per usare i termini kantiani. Ma in cosa consiste questa onticità? Galileo e gli scienziati in genere hanno ritenuto che la natura fosse descrivibile in termini matematici. Ma il modello matematico interpreta la natura, non è la natura. Gli studi di Mauro Ceruti sulla teoria della complessità descrivono la complessità nei sistemi sociali, trovando che il concetto stesso di complessità è complesso, e indagandolo, ricerca poi un significato complessivo. Ma della complessità naturale queste ricerche non possono dire molto, poiché questa complessità ci trascende, e noi che ne siamo parte non riusciamo ad ap-prenderla. Da villano, ho capito che la natura è armonia. Tutti gli enti sono unità di equilibrazione che si autodefiniscono e si stabilizzano reciprocamente. La stabilità però non è mai conclusiva. Dei filosofi presocratici, il razionalismo moderno ha seguito Parmenide; a me invece interessa Anassimandro, che definisce l’Essere come a-peiròn, indefinito, indeterminato.
O senza-limite, potremmo dire. Sappiamo che i Greci, proprio per via del loro “illuminismo”, provavano orrore di fronte ai concetti di non-determinato e di infinito.
Ecco quindi per quante ragioni si è affermato il Lògos. Con il Lògos, questa rappresentazione astratta dell’intelligenza che apprende, si è capito che si poteva dare a tutti i fenomeni una forma matematica, geometrica, ecc. Che era possibile fare delle misurazioni. Ma la natura non fa misurazioni! Lo ha compreso Einstein. Ogni cosa viene deformata dall’insieme, persino il tempo. Sono stato influenzato anche da Edgar Morin e da Bateson, quello di Verso un’ecologia della mente. La mia attenzione va a ciò che connette e alle connessioni. L’Ontica è una visione del mondo che considera l’armonia di tutte le cose. Anche dell’Io psicologico dobbiamo sbarazzarci: perché di Io ne esistono almeno tre. Un Io immaginale che chiamo Me; un Io logico che chiamo Ego; e un Io ontico che chiamo On.
L’esistenza dunque è ciò che sta intorno a noi.
Il compito che perseguo, allora, è di distinguere ciò che è natura, che è im-menso e proprio perciò non siamo ancora riusciti ad com-prenderlo, da ciò che l’uomo produce per l’uomo, cioè i linguaggi che definiscono, e tutte le creazioni artificiali. Veniamo a un altro punto cruciale. Chi erano gli esistenzialisti? Per me erano autori che mettevano l’accento su ciò che è esistenzia-le.
È il caso del concetto heideggeriano dell’ essere-per-la-morte.
Appunto. Ma l’esistenzialista non sta cercando di capire l’esistenza in sé e di viverla pienamente. Essere-per-la-morte avverrà nel futuro; ma il futuro per il pensiero vivente non esiste, come nel dialetto siciliano!
Come mai quel riferimento, ampio, che fai a Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila? Come entra nel discorso Pirandello?
La natura si comprende attraverso le sensazioni e le e-mozioni. Non solo Pirandello. Ultimamente sto leggende Pavese, La luna e i falò. Le emozioni che descrive rimandano direttamente alla civiltà contadina, ai popoli agricoli. Pavese si può definire un contadino d’adozione.
Cosa intendi con la distinzione fra convivenza e coesistenza?
Questa distinzione rimanda a un’altra quella fra esistere e vivere. Sono due cose completamente diverse. L’animale vive, ma l’anima, la psiche, esiste, cioè va oltre la vita del suo corpo. Quando dormo, ad esempio, il mio corpo esiste quisenza o con poca attività, mentre la psiche si anima e vive nell’attività del sogno. E’ un errore, allora, confondere vivere ed esistere, con-vivenza e co-esistenza. Anche gli psicologi commettono questo errore quando non distinguono i due piani.
La tua analisi richiama anche la filosofia Scolastica, dalla quale ci proviene la formula – ricavata da Aristotele – distingue ut intelligere, ovvero la forma più sottile dell’intelletto è la capacità di operare distinzioni sempre più accurate fra rappresentazioni, concetti e parole.
Le parole che designano concetti devono essere adeguate, affinché i concetti siano adeguati. Rispetto alla vita quindi, che forma la base, l’esistenza è un “di più”.
Tu vedi, a proposito della differenza fra corporeo ed incorporeo, possibilità di sopravvivenza dell’incorporeo al corporeo per il soggetto, per l’Io?
Non m’interessa. Se mi esprimessi su questo punto, mi classificherebbero. Per evitare questo inquadramento critico, dico che la cosa non mi riguarda. La considero una manifestazione del futuro che, come ho detto prima, non esiste ancoraontologicamente, e il dialetto siciliano lo mostra linguisticamente abolendo il tempo futuro. Nella generazione della tecnologia, gli individui sono sempre altrove: ec-sistono, dice Heidegger. Inconsapevolmente scivolano fuori dalla con-vivenza con gli altri.
Dimmi ancora qualcosa sui concetti di “epimeleo” ed “epimeleia”.
Sono termini che ricavo da Michel Foucault, come anche “parresia”. Sono termini che sono stati cancellati nella scienza occidentale, mentre sono indispensabili. Ad esempio, dire la verità e capire la cogenza del dire la verità. Venendo a quel che mi hai chiesto: l’epimeleia significa prendersi cura; di conseguenza l’epimeleo è chi si prende cura. Ciò valeva per gli Epicurei e gli Stoici, che erano degli esistenzisti ante litteram. Privilegiando la vita e il presente si ingegnavano a rendere il tempo più vivo e più pieno: è il carpe diem di Orazio.
Un’ultima cosa: definiamo cosa intendi per Teatria.
Mi ha inspirato i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Ci son questi personaggi che insegnano agli attori la propria vita, il proprio dramma, perché non lo abbelliscano con la recitazione. Il destino dei sei personaggi non va abbellito, poiché è crudele. Tutti in generale facciamo teatro: i politici, la televisione neanche a dirlo… Facciamo finzione, rappresentazione. La Teatria invece è lo scorrere della vita naturale, senza duplicati concettuali. L’innamorarsi è Teatria; la seduzione e le relative strategie sono teatro, finzioni che immettono nella corrente principale della vita in-autentica della dimensione sociale, competitiva, dei rapporti di potere. Come ho scritto, per me la struttura del soggetto è triadica: dei tre cervelli quello rettile, il più arcaico, è in rapporto con le sensazioni. Nel secondo, quello emotivo, appare il soggetto, che nelle emozioni è ap-presentato. Il terzo cervello è quello dell’Io, auto-cosciente. Questa ultima è una capacità propria dell’uomo, che però non la usa tanto bene.
Perché non la usa bene?
Per usare bene l’auto-coscienza ci vuole un’arte, l’arte epimeleica, ovvero la cura – in particolare di sé. La maggior parte dell’individui non si cura affatto di sé, per quanto creda il contrario. Certo è che se pratichi l’arte della auto-cura agli altri, diciamo alle “pecore”, appari come un alieno. Come sai, da anni ci riuniamo qui per dibattere sull’esistenza. Molti che sono passati di qui non ritornano perché pensano che sia tempo perso, che sia molto meglio andare a mangiare o al cinema. Di conseguenza, disprezzano la cultura che si fa e fingono (perché è solo finzione) di rispettare la Cultura con la maiuscola, quella che gl’impongono a scuola o all’università.
Caro Pino, mi pare che siamo giunti al termine di questa conversazione, passando in rassegna, certo imperfettamente, i temi fondamentali della tua proposta filosofica. Mi auguro che, con la pubblicazione, questo dialogo accenda un faro sul tuo lavoro, generando per esso una nuova attenzione e, se possibile, allargando il campo degli epimelei, attuali a futuri.
Ti sono grato per questa opportunità, perché così i lettori sapranno che c’è a Roma un essere strano, un contadino siciliano che dice cose strane ma che forse sono utili e interessanti.
Sei nel solco dei filosofi “irregolari”, come Costanzo Preve che ci ha lasciati solo qualche anno fa.
Avevo scritto le voci “Esistenzismo”, “Ontica” e “Pino Torre”, ma Wikipedia me le ha rifiutate; dicono che devo essere presentato da un’Autorità…! Per Wikipedia non ci si può costituire come autorità di sé stessi; per essere conosciuti un’Autorità esterna ci deve giustificare. ©RIPRODUZIONE RISERVATA