Parliamo dei primi mondiali di calcio senza Maradona, di cosa direbbe lui della scelta di Qatar 2022 e di una certa omertà.
10 novembre 2001, Bombonera, Boca. Per chi non lo sapesse, la Bombonera è lo stadio del Boca Juniors, squadra dell’omonimo quartiere, la Boca appunto, uno dei più poveri di Buenos Aires, fondato dagli immigrati italiani, soprattutto genovesi (da cui il nome, in dialetto, “la bocca”). Uno degli stadi più caldi della già di per sé appassionata Argentina. Quel giorno, la Bombonera, esplode di passione, soprattutto la sua curva, che tanto per farsi intendere, si chiama da sempre “la doce”, la 12. Perché chi va a giocarci da avversario, deve sapere che là si gioca sempre in inferiorità numerica.
Una muraglia umana. Soprattutto quel giorno. Perché quel giorno, tutta la Boca, va a rendere omaggio al suo figlio prediletto, “El pibe de oro”, Diego Armando Maradona, che lascia il calcio giocato. Gli argentini, un po’ italiani, ci sanno fare in fatti di sentimento. E Diego poi, pure un po’ napoletano, non ne parliamo. A fine partita, circondato da tutti i calciatori del suo tempo, venuti a rendergli tributo, su un piccolo palco al centro del campo, afferra un microfono e arringa la folla. Lo fa per come è, per come è sempre stato. Fino al limite della retorica. Ringrazia tutti, il padre, la madre, le figlie, i tifosi. Parla de pasion, de corazon. Piange, e fa piangere. Il finale, però, tira via la pelle, e fa capire, se ancora ce ne fosse stato bisogno, cosa significava essere El Diego. Perché per ultimo, Maradona, ringrazia il calcio, sopra ogni cosa. E gli chiede scusa, se qualche volta lo ha offeso con la sua vita sregolata. Perché quando uno sbaglia, dice, è giusto che paghi, come ha fatto lui. Però non è giusto che paghi il calcio, perché «la pelota no se mancha». Il pallone non si sporca. Lo dice stringendosi le braccia al petto, come se lo stesse abbracciando, quel pallone. Con forza. È un momento quasi estatico, mistico. Da quel giorno, ne è passata di acqua. E il corazon del Pibe, ha smesso di battere, vittima di un mondo e di un destino che non poteva concepirlo se non nel suo stato naturale, in una cancha, su un campo di calcio. Perché come cantava Baudelaire, l’albatros sa soltanto volare in alto, maestoso, quando si muove a terra è goffo.
I primi mondiali di calcio senza Maradona. Cosa direbbe ‘El Pibe de oro’ della scelta del Qatar e dell’omertà passata in silenzio della classe dirigente
Ne è passata di acqua, fino a oggi, con un mondiale appena iniziato. I primi mondiali di calcio senza Maradona. Se lo sono chiesto in molti: chissà cosa avrebbe detto di questo “Qatar 2022”, giocato in inverno, sospendendo tutti i campionati nazionali. Proprio lui che ha legato forse le pagine più belle del suo mito alla storia dei mondiali di calcio. Da quell’Inghilterra-Argentina dell’86, con le echi delle Malvinas ancora nelle orecchie, con la “mano de Dios” e quel pugno, lo stesso, rivolto contro la tifoseria inglese, dopo la meraviglia del suo secondo gol, a quell’Argentina-Nigeria, del ’94, nei mondiali farsa americani (un prodromo di questi di oggi ma con più pudore), dopo la quale venne squalificato, praticamente in campo, per doping.
Già, chissà che avrebbe detto, El Diego. C’è da credere che non si sarebbe risparmiato. Non lo ha mai fatto, seppure nelle sue enormi contraddizioni, qualità di tutti i grandi uomini. Non sarebbe stata la prima volta, del resto. Già da tempo aveva tuonato contro la Fifa e contro il suo presidente-padrone di allora, Blatter, che definì un ladro. Non ci sono dubbi. E allora viene da pensare che oggi, mentre inizia questo assurdo mondiale, Maradona manca anche per questo. Perché in giro, qualcuno come lui non c’è, e di voci fuori dal coro, se ne sentono poche. Il mondo del calcio partecipa, con discreto pudore e una buona dose di ipocrisia a un evento che ha sconvolto le programmazioni di tutti i campionati nazionali (ricordano gli appassionati, quante difficoltà si incontravano per posticipare una singola partita, anche di fronte a fatti gravi?), costretto calciatori ad affrontare carichi di lavoro massacranti e non abituali e miliardi di tifosi, a rivedere la favola abituale dei campionati di calcio per come era stata tramandata per generazioni. E per cosa? Per un piccolo paese di due milioni di abitanti, ai quali il calcio è praticamente sconosciuto.
Qatar 2022, un paese fondamentalista e omofobo che non merita i sogni dei bambini
Un paese che negli ultimi anni si è segnalato soprattutto per la totale assenza di diritti umani e civili, un paese di intolleranza e privazioni di libertà, un paese fondamentalista. Ancora qualche giorno fa Khalid Salman, ambasciatore qatarino ai mondiali, ha definito l’omosessualità una malattia da curare. Parole che avrebbero dovuto sollevare una bufera ma che invece sono passate quasi inosservate. Quasi nessuno infatti, penso a Sarri in Italia, a Klopp in Inghilterra e a pochi altri, hanno espresso parere negativo sui mondiali. Il carrozzone ha volto lo sguardo, attratto sopra ogni altra cosa dal petrolio e dal gas, ovvero dai soldi. Già, perché il punto non era perché non farli, questi mondiali, ma perché farli, in Qatar. E la risposta è piuttosto scontata. Premesso oltretutto che il calcio non è certo il primo sport che si piega a certi giochi (formula uno e MotoGP da anni hanno inserito un gran premio da quelle parti) e che tutto sommato, non è che fuori dal Qatar, il denaro non abbia già stuprato e corrotto abbastanza il mondo del pallone. Però, questi mondiali lasciano davvero l’amaro in bocca, con buona pace di chi, a fatica, cerca di gonfiarli, come fa la Rai (a proposito, Adani, che fine ha fatto tutta la tua passionalità per il calcio sano? È finita in Qatar pure lei?) .
Questi mondiali sembrano un brutto risveglio, da quel sogno di bambini. Quel sogno che almeno una volta abbiamo fatto tutti. Come quel bambino di Villa Fiorito, quello che palleggiava con la testa, su campetti di fango e buche, e che diceva che un giorno avrebbe vinto la coppa del mondo per comprare una casa alla sua famiglia. Quel bambino che da uomo giurò che se gli fosse arrivato un pallone pieno di fango, il giorno del suo matrimonio, non avrebbe esitato a stopparlo col petto, sullo smoking bianco. Ma si, forse è questa, l’unica speranza, l’unico modo per partecipare a questa festa corrotta. Perché la pelota se manchò ma forse da qualche parte, nel mondo, un bambino è di nuovo pronto a prendersene cura, a pulirla, con una rabona o uno stop di petto, che tiri via il fango. Un bambino che non conosca Infantino. Ma Maradona si. Un bambino che un giorno, possa tornare a far gridare un poeta: dios santo! Viva el futbol! ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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