Recitativo è l’unico racconto breve scritto da Toni Morrison, dedita alla scrittura di romanzi e saggi, in cui apre le porte a una prospettiva sulla comunità e sul tema della razzialità in modi che non erano stati esplorati prima. In un racconto di poche pagine, la scrittrice riesce a condensare temi importanti che, oltre alla sfera relativa al colore della pelle e a come esso venga percepito dalla società, tocca mondi intimi e personali, indagando il rapporto madre-figlia e il proprio posto in un mondo che fatica ad accettare qualsiasi cosa possa risultare lontano da ciò che è convenzionale, riconosciuto e familiare.
Recitativo di Toni Morrison, un racconto per diventare ciechi sul colore della pelle
Recitativo racconta la storia di due bambine, poi ragazze, poi donne: Twyla e Roberta vivono in un istituto che accoglie bambine orfane o sole. Twyla ci presta i suoi occhi e ci narra la storia dal suo punto di vista, il racconto verge direttamente sul rapporto che si crea con Roberta, che, una volta presentatasi, le chiede:
− Anche tua madre è malata?
− No, dissi. − È solo che a lei piace ballare tutta la notte.
− Oh. − Annuì, e mi piacque che fosse così svelta a capire.
Da questo prima dialogo capiamo che la madre di Roberta è malata, mentre la seconda, la madre di Twyla, è incapace di prendersi cura della figlia.
Le due bambine, povere e sole entrambe, alla mercé della vita e trovatesi a ripiegare una sulla personalità dell’altra per farsi forza in un mondo delimitato dalle mura dell’edificio, hanno molto in comune, con una differenza che Toni Morrison tratta come l’elefante nella stanza: una bambina è nera e l’altra è bianca, ma noi non sapremo mai quale sarà l’una e quale l’altra.
Tra scherzi infantili e crudeli e la presenza ingombrante (vedremo dopo perché) di Maggie, l’inserviente dell’istituto, che creerà non pochi animi accesi all’interno del gruppo di bambine, le due entità femminili della storia crescono separate. Roberta andrà via prima di Twyla dall’istituto e si incontreranno successivamente negli anni, in posti e luoghi che sembrano quasi casuali, fino a intrecciarsi, dando spessore al contenuto narrativo.
Lavoravo al bancone all’Howard Johnson’s, sulla Thruway, appena prima dell’uscita di Kingston. Un impiego niente male. Era lunga arrivarci da Newburgh, ma poi una volta lì mi trovavo bene. Stavo facendo il secondo turno di notte, dalle undici alle sette. Molto leggero, finché un Greyhound si fermò per la colazione verso le sei e mezzo. A quell’ora il sole si era già alzato sopra le colline alle spalle del ristorante. Il locale aveva un aspetto migliore di notte – somigliava più a un rifugio -, ma io adoravo quando ci entrava il sole, anche se rivelava tutte le crepe nel vinile e faceva sembrare sporco il pavimento screziato, per quanto il ragazzo delle pulizie avesse passato con cura lo strofinaccio.
La realtà che crea Morrison è magistralmente descritta dal suo stile fermo – eppure poetico – e Newburgh diventa un luogo adatto al carattere delle due bambine, che pagina dopo pagina crescono e diventano donne con vite e famiglie che corrono su binari diversi.
L’impossibile categorizzazione delle persone
Vederle crescere risponderà alla nostra domanda?
Mi dispiace deludervi – e magari rendervi più curiosi a riguardo – ma no.
L’esperimento quasi crudele che attua Toni Morrison è proprio quello di darci la responsabilità di ciò che leggiamo e di come lo elaboriamo. Prende una lente di ingrandimento e la posiziona esattamente sui sentimenti che si smuovono nell’essere umano quando dobbiamo capire chi è l’altro, cosa sta cercando di dirci, a quale categoria appartiene, a quale etnia risponde. È un meccanismo interno che in Recitativo riesce particolarmente, fa leva su tutto quello che pensiamo ma non abbiamo il coraggio di dire ad alta voce e ci fa riflettere sul perché, secondo noi, sia Twyla ad essere nera o viceversa. Il racconto breve diventa un esperimento efficace per comprendere come cataloghiamo le informazioni di qualcun altro nel nostro cervello e a cosa associamo determinati comportamenti, pensieri, modi di fare, modi di parlare.
Mai, neppure per un istante, Toni Morrison cade nella trappola di uno slang forzato o di un dialogo che possa far pensare sia detto da una ragazza bianca o nera. Ogni volta che penserete: “È sicuramente Twyla ad essere bianca e Roberta ad essere nera”, nella pagina successiva penserete il contrario.
Questo fenomeno è insito in noi, la nostra psiche ha sempre questo spasmodico bisogno di comprendere cosa è vicino a noi e, cosa, invece, viene reputato distante, quasi incomprensibile, appartenente a una realtà che diciamo di voler comprendere, ma che in modi inconsci e oscuri, rifiutiamo. Perché proprio Twyla dovrebbe essere bianca o nera? Perché Roberta?
Ecco che allora, minuziosamente, ci ritroviamo a leggere tra le righe, a cercare una risposta, a dare un nome a questo spaesamento che sentiamo nel non riuscire a mettere a tacere alla domanda iniziale: chi è la persona che mi assomiglia di più, chi quella che mi assomiglia di meno?
Il sottotitolo del mio articolo è un riferimento alla postfazione scritta da Zadie Smith, scrittrice e saggista britannica, che nell’edizione italiana del racconto breve, edito da Frassinelli, è stato introdotta alla fine della storia, con il titolo In realtà lì dentro c’era qualcuno.
Zadie Smith affronta il tema della dicotomia tra nero e bianco e trae alcune somme su chi possa essere chi, non soffermandosi tanto sulla risposta, quanto sul perché possiamo immaginare che il colore nero e bianco della pelle possa appartenere all’una o all’altra.
Scrive Zadie Smith:
“[…] E oltre alla lingua, in un sistema razzializzato, mille altre cose vengono interpretate come “caratteristiche di” un tipo di persona o di un altro. I cibi che mangia un personaggio, la musica che ascolta, il posto in cui vive, il lavoro che fa. Cose da neri, cose da bianchi. Cose che sono caratteristiche della nostra gente e caratteristiche della loro. Ma una delle domande che pone Recitativo di Toni Morrison è proprio cosa significa veramente questa espressione, “caratteristico di”. Tendiamo infatti a usarla in modi diversi, senza neanche rendercene conto. Può indicare:
- Ciò che caratterizza;
- Ciò che appartiene esclusivamente a;
- Ciò che è una qualità essenziale di.
Questi tre significati non sono identici. Il primo fa pensare a una tendenza; il secondo implica una forma di possesso; il terzo parla di essenze, e dunque di leggi naturali immutabili. In Recitativo queste differenze si mostrano, come vedremo, cruciali.”[1]
Ciò che è importante dello scritto di Toni Morrison è il modo in cui ci parla di due identità alle prese con il loro bagaglio interiore e un passato che pesa. Il viale della memoria sul cemento nudo dell’istituto diventa in qualche modo metafora esistenziale dei ricordi legati a un passato ben più oscuro, quello della schiavitù, che verrà anche analizzato in modo diretto nel racconto breve.
Ciò che le due entità femminili provano nei confronti di questo passato è faticoso, disagevole, porta sconforto, perché anche loro, come noi, si ritroveranno davanti all’evidenza di pensieri che spesso discordano con la realtà circostante e che ci fanno chiedere se stiamo pensando correttamente di un argomento così delicato, se stiamo usando la giusta empatia, se smuove davvero le nostre coscienze o se rimaniamo inermi davanti a un problema sociale che possiamo ritenere lontano ed inaccessibile, in modo che non ci tocchi e che non ci faccia dubitare della nostra moralità.
Il personaggio di Maggie e il suo ruolo come riscatto di un passato oscuro
Il personaggio di Maggie (l’inserviente) gioca un ruolo fondamentale in questa analisi sul proprio io sociale.
[…] Maggie non parlava. Le altre bambine dicevano che le avevano tagliato la lingua, ma io penso che fosse nata così: muta. Era vecchia e color sabbia e lavorava in cucina. Non ricordo se fosse simpatica o no. Ricordo solo le sue gambe come due parentesi, e come dondolava nel camminare. […] Portava sempre un berretto insulso – un berretto da bambino con il paraorecchie – e non era molto più alta di noi. Un berrettino davvero orrendo. Anche per una muta, era stupido vestirsi da bambina e non dire mai neanche una parola.
E poi:
[…] Ma ero perplessa perché aveva detto che Maggie era nera. Quando ci pensavo, non arrivavo a esserne certa. Non era nerissima, lo sapevo, altrimenti me ne sarei ricordata. […] Cercai a lungo di rassicurarmi per la cosa della razza, finché non mi resi conto che la verità era già lì e che Roberta la conosceva. Non l’avevo preso a calci; non mi ero unita alle Rinni nel colpire quella signora, però di certo avevo desiderato di farlo. Eravamo rimaste a guardare e non avevamo mosso un dito per aiutarla e neppure avevamo chiamato aiuto.
Arriva un momento in cui Roberta e Twyla hanno due pareri diversi sul loro passato in comune: Roberta dice a Twyla che sono entrambe colpevoli perché hanno aiutato le altre ragazze dell’istituto – soprannominate Rinni – a malmenare Maggie e a gioire del fatto che la donna, essendo muta, non potesse chiedere aiuto o implorare di smettere. Roberta è dilaniata dal senso di colpa, Twyla non ricorda che la vicenda si sia svolta in questo modo, e anche se, successivamente, Roberta dirà di essersi confusa e che loro in realtà non hanno collaborato alla violenza, il tirare fuori dal cappello questo argomento, come fosse un coniglio impazzito, rimescola le carte in tavola.
Twyla ripensa alla vicenda, e, facendolo, ci dona una chiave interessante del suo rapporto personale con la madre e – in chiave più aperta – con la società stessa.
Maggie era mia madre ballerina. Sorda, pensavo, e muta. Nessuno dentro. Nessuno che ti sentisse se piangevi di notte. Nessuno che potesse dirti niente di importante che poteva esserti utile. Dondolava, ballava, ondeggiava nel camminare. E quando le Rinni l’avevano spinta a terra e avevano cominciato a malmenarla, sapevo che non avrebbe gridato, non poteva, proprio come me, e ne ero stata contenta.
Nel momento in cui Twyla mette sullo stesso livello Maggie e la madre capiamo che nel racconto echeggia un forte senso di smarrimento, una desolazione data da una figura materna che fornisse la guida necessaria per vivere in un mondo che non risponde alle richieste di nessuno, che non aiuta, che non tende l’orecchio e che, d’altra parte, è pronto a tirare fuori calci e pugni, coltelli e sangue. Si fa strada un’entità che toglie il potere al tema razziale, dandolo invece a un senso di comunità più ampio, che non guarda al colore della pelle, ma alla posizione sociale che si riveste, a che tipo di persona si è nel mondo. Quella stessa madre lontana potrebbe essere la metafora di un’empatia che ci ha abbandonato, o che forse non ci è mai appartenuta.
È in questo momento che Toni Morrison ci fa spostare lentamente lo sguardo, facendoci chiedere: “Capire chi sia nera e bianca è il vero dilemma di questo racconto?”. Parrebbe proprio di no, anche perché questa è l’unica risposta che non avremo mai. Il focus si addensa più nel capire l’identità di ognuno e come essa giochi un ruolo importante nella società e nei rapporti con gli altri; le scelte che facciamo, come reagiscono gli altri ai nostri cambiamenti e quanto siamo disposti a perdere delle nostre convinzioni per tendere l’orecchio verso qualcosa che ci sembra distante, ma che in realtà è lì davanti ai nostri occhi. Possiamo fingere che non ci sia e che non ci appartenga, ma tornerà a tormentarci come un incubo lasciato a sementare nel nostro profondo.
“Recitativo mi ricorda che non è una caratteristica essenziale dei bianchi o dei neri essere poveri, oppressi, inferiori, sfruttati, ignorati. La risposta alla domanda: “Che cosa diavolo è successo a Maggie?” non è scritta nelle stelle, nel sangue o nei geni, né storicamente determinata una volta per tutte. Ciò che è stato fatto a Maggie è stato fatto da persone. Persone come Twyla e Roberta. Persone come me e voi.” [2]
Recitativo, dunque, non è solo uno scaltro esperimento narrativo per comprendere come analizziamo le persone in base ai pregiudizi che abbiamo, ma anche una minuziosa analisi dei rapporti sociali e di quanto facciamo tutti parte di un meccanismo di oppressione, una figura densa rimasta senza una madre, senza calore e piena di incubi freddi e distanti con cui fare i conti.
[1] Smith, Zadie, In realtà lì dentro c’era qualcuno, Frassinelli, 2022. [2] Ibidem.