La socializzazione delle Industrie. Lo strano caso del Decreto legislativo 12 febbraio 1944 n.375, a firma del duce

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Dall’Ottocento a oggi nessun governo ha mai trovato l’antidoto alle disuguaglianze del sistema capitalistico

Il fatto che nessuna forma di governo politico dell’età industriale abbia impedito la più stridente ingiustizia sociale è abbastanza palpabile; né l’iniziale opposizione ottocentesca all’industrializzazione – di stampo fondamentalmente conservatore e reazionario – né le forme più mature di organizzazione sindacale e operaia, a discendere fino ai giorni nostri, hanno potuto finora impedire che il sistema capitalistico esacerbasse i contrasti e le diseguaglianze, mostrando con evidenza come un sistema essenzialmente iniquo non avesse al suo interno correttivi realmente efficaci, anche ammettendo che una tale volontà correttiva della sperequazione fra proprietari e produttori sia mai esistita, nella realtà.

Le difficoltà, ideali e pratiche, in cui si dibatte l’attuale sinistra politica; la sfiducia e la disaffezione nei confronti dell’azione sindacale, sono a mio avviso in parte congiunturali, ma in parte ancora maggiore, l’effetto di distorsioni di lungo periodo. L’ impetuosa avanzata del pensiero socialista nell’ultimo quarto dell’ottocento e nel primo del novecento ha avuto, certamente, la funzione storica di dare voce a masse d’invisibili, i lavoratori, altrimenti lasciati alla mercè degli appetiti degli imprenditori privati. Ma la stessa ideologia socialista e le organizzazioni sindacali che ne rappresentavano il braccio operativo, se da un lato hanno potuto inquadrare la questione sociale e rappresentare le masse, non sono state peraltro in grado di realizzare un minimo di redistribuzione sociale della ricchezza, se non in forma negativa, nei paesi in cui si è cercato di realizzare una società socialista di qualche tipo.

La povertà non è mai stata sconfitta

Nell’Unione Sovietica

Nell’Unione Sovietica (1917-1991) si è riusciti forse ad abolire la ricchezza – con l’eccezione della tecnocrazia statale e dei funzionari d’alto grado del dominante partito comunista – ma non è mai stata sconfitta la povertà: larga parte della storia di quella nazione è stata assorbita dalla “costruzione” del sistema socialista, con tutte le sue aberrazioni imperiali e talvolta con il ricorso al genocidio (come nel caso dell’ Holodomor in Ucraina nel 1932 –’33, di cui si è tornato a parlare in conseguenza della guerra). Nella restante parte della storia sovietica, dopo la “grande guerra patriottica” contro il nazismo, la soluzione escogitata – in termini del tutto e curiosamente opposti alla teoria del Marx – è stata quella di nascondere – per così dire – la polvere sotto al tappeto. La povertà, unico fenomeno ampiamente socializzato del sistema sovietico, è stata camuffata nelle pieghe di una statistica compiacente e diretta dall’alto; i dati che venivano diffusi riguardavano esclusivamente l’aumento della produzione, ma ignoravano del tutto la dinamica dei salari. Dal secondo dopoguerra in poi, con l’inevitabile rallentamento della produzione bellica, la produzione industriale inizia la sua curva discendente, l’inefficienza finisce per diventare la regola del sistema, inizia a circolare la famosa battuta secondo cui nell’URSS si finge di lavorare per ricevere un finto salario.

In Occidente

Per quanto riguarda, invece, l’occidente, sarebbe un errore pensare che il fascismo europeo, nelle sue varie declinazioni, fosse una mera articolazione radicalizzata e totalizzante del sistema e dell’ideologia capitalistica: questo è stato per lungo tempo il giudizio della storiografia di matrice resistenziale e antifascista, la cui fonte principale era però l’analisi del fascismo di Gramsci. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Quello che conobbe, soprattutto nella sua durezza, Gramsci – che negli anni di carcere fu pur sempre in contatto costante con i vertici del partito comunista clandestino – fu il regime fascista.

Nel suo fondamentale lavoro L’Italia di Mussolini R. Bosworth mette ripetutamente in evidenza quanto importanti fossero alcuni aspetti caratteriali di M. nel determinare gli “spostamenti” del regime. Ci limitiamo a sottolineare uno di questi, che la propaganda riteneva odiosa e occultava in modo sistematico, potendo evocare nei maliziosi la memoria di qualcosa dell’esecrata “Italietta” liberale da cui il fascismo-governo voleva assolutamente distinguersi: il trasformismo del duce, componente essenziale della teatralità con la quale intendeva farsi corpo pubblico ed emblema vivente delle istituzioni. La forza di questa identificazione fu evidentemente grande, poiché sotto l’egida del suo culto della virilità Mussolini riuscì indubbiamente a convertire vasti settori delle masse popolari e della classe operaia, fra cui persino membri e quadri socialisti e comunisti attivi nelle fabbriche: si veda il caso dei “consigli di gestione” nella acciaierie di Terni, nati nel marzo 1944 come ci ricorda questo articolo di S. Fabei su Barbadillo.

Fascismo: dal “Totalitarismo imperfetto” all’imperfetta Repubblica sociale, ovvero la necessità di condividere il potere con monarchia e Vaticano.

Sempre seguendo l’analisi del Bosworth, l’autentica spiegazione del cd. “totalitarismo imperfetto” va ricercata nel fatto che l’Italia degli anni Venti e Trenta non poteva essere governata – e, ancor meno, sottoposta ad un esperimento totalitario – senza condividere il potere con due entità incomprimibili: la monarchia e il Vaticano. Ciò fu puntualmente compiuto; e se per consolidare il proprio regime Mussolini doveva smettere i panni giovanili di agit-prop sindacalista-rivoluzionario, compì senza particolare travaglio questo “sacrificio”: ma ciò non sarebbe stato per sempre.

Quando, infatti, sotto la pressione degli eventi e della duplice invasione dell’Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, degli Alleati da sud e degli ex alleati tedeschi su tutto il territorio nazionale, nasce la Repubblica Sociale Italiana; e dopo l’avventurosa liberazione dalla prigionia a Campo Imperatore da parte dei Fallschirmjäger del comandante Harald Mors e di Otto Skorzeny Mussolini, che considerò sicuramente quello del re il più grave dei tradimenti (vi sono consistenti indizi di questo sentimento del duce nel discorso radiofonico del 18 settembre 1943 da Radio Monaco), poteva ritenersi, a quel punto, sciolto da ogni vincolo di fedeltà verso la dinastia sabauda. Da qui prende le mosse la singolare svolta repubblicana e operaista di ciò che sopravviveva del fascismo.

Socializzazione delle industrie da parte del fascismo, un decreto più socialista del socialismo. Atto politico autentico o ravvedimento fuori tempo massimo?

Il Decreto 375/1944 afferma senza mezzi termini già nell’art.1 che tutte le imprese con più di un milione di capitale sociale e cento dipendenti sono, dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, “socializzate”; vale a dire che sia le pubbliche che le private vengono sottratte all’esclusivo controllo imprenditoriale e consegnate ad un:

consiglio di gestione, nominato dall’assemblea, [il quale C.d.G.] è formato per metà di membri scelti fra i lavoratori, operai, impiegati tecnici, impiegati amministrativi. [il corsivo è mio]

socializzazione delle industrieIl provvedimento per la socializzazione delle industrie appare di natura così esplicitamente rivoluzionaria da venire accolto con palese scetticismo, e contrarietà, praticamente da tutti gli attori dell’industria: ambienti conservatori, rappresentanti del padronato, ma anche sindacati, socialisti e comunisti.

L’accusa che più frequentemente verrà rivolta, nel dopoguerra, e se si vuole anche il motivo per cui il decreto non è mai stato un punto vivo e dibattuto della storia del fascismo se non in pubblicazioni dalla diffusione piuttosto circoscritta, come gli Annali della Fondazione Luigi Micheletti, è che il D. Lgs. 375/1944 sarebbe stato solo un provvedimento tardivo e inutile, un ravvedimento puramente dimostrativo che occhieggiava ad uno dei prossimi possibili occupanti della penisola italiana, l’URSS; e al partito comunista italiano, che usciva in forze dalla clandestinità proprio allora. Tuttavia questo giudizio appare sbrigativo e lascia non chiarite ampie zone d’ombra.

Lo zampino del fascio-comunista Bombacci nella stesura del Decreto

Se è probabilmente vero che, in quella temperie, Mussolini non aveva più la forza per imporre una svolta di tale radicalità alla società italiana, e particolarmente ai ceti produttivi più dinamici del Centro-Nord – ne è riprova il fatto che il decreto del 12 febbraio fu pubblicato in G.U. con molto ritardo il 30 giugno 1944 – è altrettanto innegabile che siamo di fronte ad un ulteriore “convitato di pietra” che rende il fascismo repubblicano un capitolo della storia ancora mal compreso, a lungo ignorato. Vi giocò un ruolo tutt’altro che secondario il più celebre “fascio-comunista” di quel torbidissimo e convulso biennio: Nicolò Bombacci, conterraneo di Mussolini e fra i fondatori del Partito Comunista d’Italia con Bordiga e Gramsci, la cui figura merita senz’altro di essere approfondita. È probabile che Bombacci il quale, per lunga esperienza sindacale e politica, era senz’altro in grado di redigere un testo di legge, sia stato oltre che ispiratore anche l’estensore materiale – o uno degli estensori – del decreto per la socializzazione delle industrie.

La nostra lacunosa comprensione del post-fascismo. La sola matrice del neofascismo è il Partito Fascista Repubblicano

V’è dell’altro, che riguarda più da vicino noi contemporanei: parlo della lacunosa comprensione del fenomeno del post-fascismo, che appare nella repubblica democratica come Movimento Sociale Italiano, con il suo longevo leader e animatore Giorgio Almirante, e per li rami perviene fino ad oggi informando varie successive incarnazioni della destra politica. Complice anche il revisionismo delle presunte buone azioni del Ventennio e l’inflessibile sponda, nell’ambito del costume e della cronaca, di riviste come Il Borghese, dal dopoguerra in poi gli osservatori hanno privilegiato la prospettiva di una destra nostalgica, conservatrice, interessata solo alla pubblicistica agiografica del Mussolini duce d’Italia. È rimasta invece inespressa quella che a me sembra, con molti elementi a sostegno, l’autentica matrice nel neofascismo: il Partito Fascista Repubblicano, partito unico della Repubblica Sociale, in cui lo stesso Almirante aveva avuto incarichi di governo.

Considerando quindi, tutti quelli che con lui ricostruiranno de facto il partito fascista (sebbene de iure ciò sia espressamente vietato dalla XII disposizione transitoria della Costituzione) la repubblica di Salò come un esperimento, incompiuto, di fascismo rivoluzionario e di nazionalsocialismo; e che questo esperimento – nella narrazione neofascista – stava andando finalmente nella direzione giusta, senza compromessi, e ne sarebbe stato impedito solo dalla forza maggiore della guerra mondiale, ma soprattutto, dalla barbara uccisione di Mussolini, era inevitabile ne scaturisse l’aspirazione dichiarata a conquistare il potere anche nella repubblica democratica.

La democrazia stretta tra fascismo di Stato e fascismo nichilista

Ciò poteva avvenire tanto per via parlamentare che extra-parlamentare; l’adiacenza con gli ambienti golpisti nelle forze armate, mai ben dimostrata anche perché non ricercata con la necessaria inflessibilità dalle questure e dai giudici, nell’arco di vari decenni, dimostra che il fascismo si fa istituzionale quando occupa per intero e senza ostacoli ogni ganglio dello Stato; ma quando è esterno al potere e all’opposizione, diventa rapidamente sovversivo e persino nichilista, come nel caso dei NAR e dello “spontaneismo armato” nella seconda metà degli anni Settanta.

Il decreto 375/1944 non porta in superficie alcuna novità, né men che meno una possibile diversa interpretazione del fascismo. Il suo interesse storico risiede tutto, invece, nel fatto di rappresentare un episodio saliente del mussolinismo, il punto di avvio della trasfigurazione mitologica del capo, congegnata in modo tale da attrarre un sia pur tardivo consenso, e di conseguenza perdono e riconciliazione, anche da parte della cultura di sinistra.

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