47 anni dal delitto e ancora nessuna chiarezza sul mistero più grande, quello dell’uomo. Il volto dello sciamano. Qualche considerazione sulla santificazione di Pasolini
Forse era inevitabile che il tono esageratamente agiografico delle celebrazioni per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini muovesse molti ad esserne contrariati. Nella figura di Pasolini siamo soliti mettere l’uomo, l’artista totale, l’ombra e il fantasma. P.P.P. è troppo in una sola persona, quasi troppo per essere completamente vero. I quarantasette anni che ci separano ormai dalla sua tragica scomparsa non sono serviti a fare sufficiente chiarezza. Non intendo riferirmi alle circostanze del suo delitto – così ben indagate nel film di Marco Tullio Giordana Pasolini, un delitto italiano del 1995 – ma proprio al mistero dell’uomo. Una verità possibile è che quell’immenso spettro ci provoca ancora, ci interroga, non smette di apparirci così come era: accigliato, severo nel volto ossuto da sciamano, astinente e voluttuoso, innamorato del corpo proprio e altrui.
Mi ha molto colpito un saggio critico di Alessandro Carrera apparso in Micromega nel marzo di quest’anno; una sorta di confutazione del centenario, nella quale si avverte la concitazione più che l’irritazione come se, ancor oggi, quando si parla di Pasolini lui sia lì a osservarci. Un saggio scritto ad occhi bassi più che in punta di dottrina: la critica non si consolida in dottrina. La critica d’arte si muove sempre su un terreno friabile perché è un’attività sismica, tutto si muove intorno ad essa e lei stessa si muove; deve necessariamente rinviare a valori che ignora quali esattamente siano. Scrive Carrera (il corsivo è mio):
Pasolini è ormai più un Paese a sé che un artista italiano; è un’intera antropologia racchiusa in una sola persona. Lo possiamo ammirare o detestare (sono colpevole di entrambe le cose) ma non ce ne possiamo liberare, è sempre lì che ci aspetta, pronto a spiegarci chi siamo, a incasellarci nel suo sistema di descrizioni..
Mentre nel numero del 18 novembre 2015 (ma vi è anche, di molto risalente, un articolo sulla medesima testata, sempre firmato dal Marzo, relativo al racconto di Giorgio Telmon, vittima di delazione da parte di Pier Paolo negli anni universitari) appare nella rivista «Critica liberale» un articolo di Enzo Marzo che svela un altro episodio utile per la confutazione del Pasolini monumentale. Già allora la santificazione era in corso. L’ostinata volontà del circolo pasoliniano formato da Sergio Citti, Laura Betti, Enzo Siciliano, Ninetto Davoli e lo stesso M.T. Giordana, di sollecitare gli italiani a non dimenticare – o meglio sarebbe dire non rimuovere – Pasolini perché scomodo, appariva a tutti, me compreso, apodittica e pronta a rimuovere – questo sì e con grande efficacia – aspetti imbarazzanti ed esperienze consumate dal poeta in giovane età: Marzo ricorda l’episodio della strage di Porzus, nella quale venne assassinato il fratello Guido assieme ad un reparto di partigiani azionisti, per mano di partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi, quelli con lo “straccio rosso” al collo. Ebbene nel 1947 Pier Paolo non esiterà, in ogni caso, a chiedere la tessera del PCI nonostante fossero quei dirigenti comunisti a comandare le brigate partigiane. Ne fu espulso poco più di due anni dopo per atti omofili con minori.
Eppure nel 2022 gli eventi collegati al centenario del poeta sono stati innumerevoli, anche perché progettati e realizzati spesso in chiave locale; sarà gravoso il compito di chi, fra qualche tempo, si porrà il problema di un elenco ragionato di tutte gli eventi celebrativi. Mi limito a segnalare la mostra itinerante 100pasolini in 12 comuni del Lazio patrocinata dalla Regione Lazio che, nella sezione “Cinema di poesia” propone un percorso in venti pannelli, assemblando ogni genere di frammenti di un cinema “a tesi” concepito per rendere fruibile la poesia contemporanea – segnatamente la sua – al “popolo più analfabeta” e alla “borghesia più ignorante d’Europa”, come fa dire al personaggio di Orson Welles nel film La ricotta del 1963.
Sono stato un diligente lettore e spettatore di Pasolini. Dai principali romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta, senza tralasciare la produzione saggistica e giornalistica nelle raccolte Empirismo eretico e Lettere luterane; tutta la filmografia, da La ricotta al sontuoso Salò o le 120 giornate di Sodoma; la poesia da Le ceneri di Gramsci allo struggente canto A mia madre; e ancora fino al caotico Petrolio, brunito specchio narrativo dai bagliori oscuri, credo di aver trascurato veramente pochi ambiti della sua multiforme attività. Ma, si sa, il casarsese emigrato a Roma per ritrarla senza lodarla, senza considerarla né immutabile né inguaribile, come sembra invece fare Federico Fellini ne La dolce vita scritta con Ennio Flaiano, nel Satyricon o in Roma, è sempre pieno di sorprese e non dubito ci riservi ancora – chissà se in qualche inedito non ancora venuto alla luce – qualche novità. Eppure non ho l’ambizione di essere un suo ennesimo critico, e non mi propongo di storicizzarlo meglio o diversamente da quanto non abbiano già fatto molti altri. Posso invece scrivere di talune mie impressioni e orientare la sua torreggiante figura secondo la mia prospettiva culturale.
L’ombra di Pasolini è oggi forse la sua opera più grande
Mi interessa molto la sua gigantesca ombra; quella propensione agli ambienti del sordido e del crimine, in lui viva almeno quanto il senso di profonda comunità spirituale con i migliori letterati del suo tempo: Alberto Moravia, Elsa Morante, Enzo Siciliano, Alberto Arbasino, Bernardo Bertolucci ed altri notevolissimi. Ma l’attrazione della suburra, della sgangherata cintura delle borgate che come un anello di costruzioni abusive tirate su a casaccio con materiali di risulta, cingeva il centro storico di Roma/Saturno con i suoi gloriosi ed antichi ruderi, questo è il centro oscuro e chiuso della sua incontenibile personalità. Chissà quanti ricordano l’episodio della presunta rapina in un bar di San Felice Circeo del 1961. Il barista credette di riconoscere nel poeta l’avventore che, dopo aver bevuto una Coca Cola, aveva estratto una pistola e cercato di sottrargli l’incasso della giornata. Sulla base delle dichiarazioni del barista, Bernardino De Santis, Pasolini fu condannato a quindici giorni di reclusione e multato per il porto abusivo di un’arma.
Pasolini era, dunque, attratto dai piccoli criminali e, di rimando, dai piccoli crimini con i quali questi perpetuavano una stentata sopravvivenza, oltre naturalmente alle marchette con gli omosessuali, che dovevano costituire probabilmente la loro principale fonte di reddito. Ma anche questo tratto dell’uomo porta un tassello alla costruzione/ricostruzione del mito: il monumento a Pasolini non può essere piatto, frontale e ieratico come un’icona dei cristiani d’oriente; per forza di cose, o meglio detto per la forza di questa potente personalità che ancora si progetta e si proietta a quasi cinquant’ anni dalla sua morte, tale monumento dovrà essere chiaroscurale e, sfruttando tutta la profondità del campo visivo, pieno di cavità, grotte e rupi scoscese, come nella Tempesta di Giorgione o nell’ Amor sacro e amor profano di Tiziano.
Il Doppio sgradevole
Pasolini scopre dentro di sé – già probabilmente in anni precoci – un doppio sgradevole, negatore del suo genio e del suo ordine intellettuale, che vorrebbe poter rinnegare. Altrettanto probabilmente non vi riesce. La militanza comunista – e da un certo punto in poi, parallela al Partito – accentua nel suo carattere un certo grado di pignoleria, di dogmatismo e di schematismo, che Carrera felicemente descrive così:
Oh, per favore, piantala con questo tono da curato di campagna e lascia vivere la gente. Non avrei una simile reazione con nessun altro, s’intende, ma nessun altro è Pasolini.
Questo di P.P.P. è il sintomo, per me evidente, di una lotta con l’ombra, con la traccia dell’Altro dentro di sé, con un doppio oscuro. Sono folgoranti le parole di Rudolf Steiner in proposito. Nel capitolo Il guardiano della soglia nel testo L’iniziazione, con una sorta di finzione narrativa, Steiner fa parlare proprio lui, il (piccolo) Guardiano:
Quando avrai varcato la mia soglia, come figura visibile io non mi staccherò più un solo istante dal tuo fianco. Se da ora in poi opererai o penserai qualcosa di non giusto, percepirai subito la tua colpa riflettersi in un contorcimento orribile e demoniaco della mia figura. Soltanto quando avrai compensato tutti i tuoi passati errori, e ti sarai purificato in modo che ti sia del tutto impossibile commettere altro male, allora il mio essere si trasformerà in bellezza risplendente.
Ecco allora cosa non può che sfuggire all’agiografia attuale di Pasolini. C’è una parte di verità e sincerità nei suoi attuali adoratori, questo è fuor di dubbio: il santo laico. La virile omosessualità. La condanna del borghese filisteo e dell’ostinata ignoranza che fiacca l’organismo della società italiana come una tabe. Il nobile rimpianto per un’irreale civiltà contadina (ma dove mai). Tutto questo ha un senso e soprattutto fa senso. Ma è in ultima analisi falso e fuorviante. Pasolini era davvero sanguinosamente segnato dal suo doppio deforme, poiché si era auto-iniziato ad un superiore grado di coscienza, impossibile da raggiungere senza precisi atti sacrificali. L’asse della normalità nella sua vita era custodito dalla madre Susanna, che nel Vangelo secondo Matteo diventa Maria. Ma c’era anche la realtà al di là dello specchio, la vanità dell’uomo, la sua sete d’amore sempre inappagata. Pier Paolo e la madre erano fuggiti dal Friuli in seguito al solito “scandalo” collegato alla sua omosessualità.
Oggi, senza tutti quei tormenti, Pier Paolo sarebbe stato forse più disincantato e meno mistico, meno propenso a subire il fascino di Jacopone e della splendida poesia del Duecento italiano. Tutti i suoi film sono, in fondo, altrettanti Misteri medievali. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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