Padre Mauro Armanino

Antropologo, etnologo, operaio, sindacalista, oggi missionario. L’esperienza di Padre Mauro Armanino. L’Intervista

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Padre Mauro Armanino è nato a Chiavari, in provincia di Genova, nel 1952. Oggi missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia, è stato operaio e sindacalista della FLM a Casarza Ligure (Ge). Volontario in Costa d’Avorio, in sostituzione del servizio militare, poi ordinato prete missionario presso la Società delle Missioni Africane di Genova. Cappellano dei giovani in Costa d’Avorio fino al 1990. Dopo alcuni anni a Cordoba in Argentina si è trasferito in Liberia per sette anni, dove ha conosciuto la guerra e i campi di rifugiati. Al ritorno da questa esperienza si è impegnato a Genova, nel centro storico, con i migranti e come volontario nel carcere di Marassi accanto ai detenuti stranieri di origine africana. Dal 2011 è missionario nel Niger per servizio ai migranti. I sui libri sono stati pubblicati da EMI, l’editrice missionaria, (Isabelle e altri volti africani, 5 nomi per dire Liberia, La storia si fa coi piedi), Insieme (Cercando il volto. L’umanità nel missionario), Gammarò (La storia perduta e ritrovata dei migranti), Museodei by Hermatena (Un Dio qualunque. Storie e attraversamenti dal Niger, La nave di sabbia. Migranti, pirati e cercatori nel Sahel, Nomi di vento. Storie migranti dal SahelLa città sommersa. Il mondo altro dei migranti del mare, L’arca perduta del Mediterraneo. Prove di naufragio di una civiltà, L’ isola delle speranze rubate. Diario di bordo dal Sahel) e Pentàgora (Mare muro, il Mediterraneo sguardato dalla parte di chi parte e non sempre arriva).

Da sindacalista a missionario: come è accaduto?

Ho vissuto fin da subito l’esperienza operaia di quegli anni (in parte di ‘piombo’…) come una missione, se per missione si intende prendere sul serio il luogo dove si vive, in tutto lo spessore dell’umanità che lo attraversa. Anni interessanti perché un mondo differente era a portata di mano…le assemblee, la partecipazione, gli scioperi, il blocco delle portinerie, le manifestazioni che apparivano come altrettanti inviti al cambiamento della società. L’esperienza operaia, in una fabbrica di medie dimensioni, è stato un luogo importante di condivisione di ciò che significa il lavoro, i conflitti e la gestione non violenta degli stessi. Soprattutto per me era importante ascoltare e parlare con gli operai…anche di ciò che succedeva in famiglia e l’impegno sindacale, gratuito e libero, era in quel momento ancora credibile. Passavo una buona parte del tempo di lavoro incontrando gli operai. Il lunedì, giorno particolare e ‘critico’ per molti, era per me di gioia perché era come partire per la missione. Non per convertire ma per condividere il vissuto. Essere passato per l’esperienza di volontariato internazionale sostitutivo al sevizio militare, con l’aspettativa del lavoro, ha facilitato la continuità tra la prima Africa e il lavoro operaio: non rottura ma continuità!

Il Covid19 e l’Africa: come avete vissuto e ancora vivete questa realtà?

Il Niger è stato tra i Paesi meno colpiti al mondo… e da noi i problemi erano ben altri che la gestione politico-manipolatoria della cosiddetta pandemia. L’uso delle medicine contro la malaria, la malattia più mortale nell’Africa subsahariana, la prossimità con altre temibili epidemie (ad esempio la meningite…), la consapevolezza che tra morte e vita c’è giusto una porta che ci separa…Tutto ciò ha dato la giusta dimensione all’uso strumentale della malattia così come si è sviluppato altrove. Sono state parzialmente chiuse le frontiere (soprattutto quelle aeree) ma quelle terrestri hanno sempre funzionato seppur con maggiore difficoltà. Mi verrebbe da dire che avevamo altro a cui pensare, la violenza armata terrorista, la crisi alimentare e il sopravvivere quotidiano. Maschere, distanza sociale, confinamenti…da noi hanno avuto una vita effimera!

In un tuo libro edito nel 2000, Cercando il volto. L’umanità nel missionario, Giuseppe Faretra ti chiede come trascorre la sua giornata un missionario. Rispondendo fai riferimento alla frequenza d’onda della gente, dell’importanza di mettersi su questa frequenza. Oggi su che frequenza si muove la gente?

Dipende dal tipo di gente con cui si sceglie di camminare la vita. Nel mio caso il ‘punto di vista’ e cioè la vista da un punto sono i migranti e rifugiati. Sono loro che, da anni ormai, dettano in qualche modo la mia agenda quotidiana. Una visita improvvisa, una richiesta di aiuto, il bisogno di accoglienza e di ascolto…il sentimento, a volte, della propria impotenza, tutto ciò detta e scrive sulla sabbia un’agenda quotidiana nella quale, da tempo, mi ritaglio comunque momenti necessari di studio, riflessione, scambio anche all’infuori delle migrazioni. L’altra gente, poi, sono i volti della povera gente della comunità cristiana che accompagno da quasi dieci anni, alcuni militanti della società civile e la quotidiana lotta per la sopravvivenza.

Che messaggio ti piacerebbe recepissero e abbracciassero i “potenti della Terra”?

Per evitare ciò che è accaduto al ricco senza nome nella parabola di Lazzaro, nel vangelo di Luca, è essenziale che i ‘potenti’ imparino a ‘sguardare’, ascoltare e soprattutto non barricarsi dentro i loro palazzi ben custoditi e difesi. Sarà tardi, dopo. Troppo tardi per colmare l’abisso che nel frattempo si è creato tra i due mondi, quello dei potenti e quello dei senza parola e potere. Ciò implica un’esperienza di limite e di umiltà che non necessariamente è facilitata dallo stile di vita dei potenti. Essi vivono in un mondo a parte e non credono, giustamente, che siamo sulla stessa barca… in realtà solo la capacità e il dono di lasciarsi ‘ferire’ dall’altro, come nel caso del Samaritano nell’altra parabola di Luca, potrà scolpire una fessura nel muro che circonda la città-fortezza dei potenti di oggi. Solo i poveri potranno salvarci!

Lo immagini mai un mondo senza denaro, senza banche, senza “barriere economiche”?

Personalmente, da ex operaio e figlio di un operaio, considero che la moneta cartacea, quella che passava di mano in mano, mani di lavoratori, contadini e massaie, era qualcosa di prezioso e ‘umano’. Non mi piace e interessa la moneta virtuale, quella della ‘targhetta’ o i ‘bit coins’ che virtualizzano le transazioni e rendono ancora più invisibile la materialità che pure ci costituisce. Le banche e il mercato azionario sono ormai preda di un’economia finanziaria che specula e non ha più nulla a che fare con l’economia reale che è risposta concreta a bisogni concreti. Siamo da tempo in un’economia ‘crematista’, per dirla col buon Aristotele. Il sistema neoliberista che si presenta come ‘naturale’ vive, com’è noto, una profonda e irreversibile crisi. Fino a quando si potrà creare ricchezza e opulenza per una parte del mondo e depossessione per l’altra? Le cicliche crisi del sistema ci ricordano che solo un’economia basata sulla realtà, la giustizia, la partecipazione e la dignità, può offrire garanzie di solidità e pace.

Hai fatto caso che in questo nuovo millennio le parole d’ordine sembrano essere “paura ed eccesso”. Secondo te perché siamo arrivati a questo?

Le parole d’ordine non sono le stesse dappertutto e non è bene pensare che ciò che detta l’Occidente vada bene dappertutto. Qui da noi, ad esempio, si parla di ‘sicurezza’, per via dei gruppi armati, di democrazia, alla luce dei colpi di stato recenti nella zona e soprattutto di carestie… Nel Sahel, porzione ragguardevole dell’Africa subsahariana,’primum vivere’… e cioè avere ciò di cui nutrirsi, mandare a scuola i figli, potersi curare quando si è malati e avere una vita decente. Il tema della ‘decenza’ è da noi cruciale… Un lavoro, una casa, un futuro e soprattutto una vita decente adesso. Le parole d’ordine sono altre perché da noi c’è ancora l’essenzialità che conta e non abbiamo paura della vita, cosa che invece ha coinvolto l’Occidente. C’è una popolazione giovane poiché, quasi dappertutto, chi ha meno di 25 anni rappresenta almeno il 60 per cento del popolo. Occorre fare attenzione alla scelta delle priorità e dunque delle parole che non sono mai ‘neutrali’.

Padre Mauro Armanino prete missionario in AfricaL’Europa vista dall’Africa che effetto fa?

Considero un privilegio l’aver vissuto buona parte della mia vita in Africa Occidentale e in America Latina. Il motivo è semplice: secondo la scelta del nostro punto di vista del mondo cambierà contestualmente la ‘lettura’ del nostro mondo! Ciò non ha prezzo perché ‘sguardare’ il Nord dal Sud del mondo cambia la prospettiva, le priorità e soprattutto aiuta a rimanere fedeli all’essenziale. La verità sta nei poveri e nel loro sguardo sulla realtà. Non ho la pretesa di arrogarmi lo sguardo dei poveri: non ne sono degno… Ma certo, la loro vicinanza, prossimità e soprattutto le loro ferite,  mi hanno aperto orizzonti nuovi nell’interpretazione della realtà. Vista da qui l’Europa appare accecata dalla sua HYBRIS, la superbia di credersi sempre e ancora al centro del mondo e di giudicare il mondo a partire dal proprio metro di misura. Da un lato essa continua ad attrarre per la sua economia e ‘possibilità’ e dall’altra appare vecchia, stanca e senza futuro perché senza gusto per la vita. Stupisce la sua mancanza di ‘Anima’, perché si è fatta colonizzare dal successo economico e ideologico coloniale e post coloniale. L’Africa prende le sue distanze culturali dall’Europa e traccia un nuovo cammino di rispetto reciproco e di autonomia.

Che cosa è accaduto ieri mattina fuori dalla porta della missione?

La polvere in questo tempo di ‘Harmattan’, era in attesa. Col vento del deserto che vende il suo prodotto principale, la polvere appunto. Entra dappertutto, specie nei luoghi dove si pensava non potesse arrivare, ad esempio gli occhi e il cuore. Tutto è polvere e tutto torna alla polvere: imperi, economie, progetti e monumenti. È un momento di verità! Dalla polvere si passa a ciò che si vede nella strada, il cammello, l’asino che tira il carretto, i capri che non mancano mai e soprattutto i venditori di tutto e di nulla che fanno della strada il luogo principale del loro quotidiano transito. Poi passano alcuni migranti in cerca di qualcosa da mangiare e soprattutto di un futuro che è rimasto incagliato in qualche inutile frontiera tra i Paesi. Le notizie alla radio, i contatti mail con gli amici che rendono le distanze più precarie di prima, la celebrazione in comunità e poi il silenzio che abita dove meno lo si aspetta, nello sguardo di un mendicante che apre la mano nell’attesa di uno sguardo.

In Mare muro metti in chiaro da dove arrivi e dove stai andando subito a inizio libro, nella riflessione So di che parlo. E scrivi un concetto che ti rappresenta molto: la resistenza è diventata una serie di scelte conseguenti. Oggi, invece, più che di resistenza di parla di resilienza. Resistere, dunque, si è ingentilito mutando in accettare passivamente?

Come dicevo sopra, le parole non sono mai neutre o ‘innocenti’, possiedono una storia e un’archeologia che le rendono come sassi, armi letali, semi o muri-mari…Ecco perché le parole non sono slegabili dal nostro tempo e ci costituiscono. Senza il linguaggio non potremmo raccontare la nostra percezione della realtà o raccontarci. Sono preziose le parole e sarebbero da abitare per non farsi fagocitare dalle mode. Non farsele scippare, portar via dal consumo e dall’ideologia politica o religiosa del momento. Resistenza, resilienza, diritti…guerra umanitaria e armi per combattere…in fondo la grande perdente (o persa?) è la politica che dalla parole è costituita e si offre ai cittadini. Il tradimento della parola e della politica vanno assieme perché una non sta senza l’altra. La perdita di valore della parola è uno del drammi della nostra epoca o forse IL dramma! Riappropriarsi della parola per riappropriarsi del proprio destino è il cantiere sociale prioritario della nostra epoca perché senza la verità delle parole nulla sarà costruibile nel futuro!

 Se facessimo a meno del politicamente corretto?

Ecco perché il tema della verità, senza la quale neppure la libertà è possibile (… la verità vi farà liberi… ), è cruciale nel nostro come in altri tempi. Ridare senso alle parole scritte, parlate e immaginate per ritrovare il gusto della testimonianza e della profezia: la capacità di leggere i ‘segni dei tempi’, è qualcosa di essenziale se vogliamo ricostruire un mondo più umano. Più umano, per me significa il rinnovamento del nostro ‘immaginario sociale’ e dunque le relazioni, i simboli e le forme culturali che traducano e rendano visibile il mistero della vita. Al centro dovranno esserci i poveri e la loro ritrovata sovranità, le sofferenze della povera gente, gli aneliti più autentici all’emancipazione da ogni forma di schiavitù. «Nessuno libera nessuno, ci si libera nella comunione», ricordava il grande Paulo Freire nel suo La pedagogia degli oppressi. «Fare strada ai poveri senza farsi strada», rimbeccava da parte sua il nostro don Lorenzo Milani.

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