Il 10 agosto è venuta a mancare la scrittrice Michela Murgia, all’età di cinquantuno anni. La sua scomparsa era purtroppo attesa, perché nel maggio di quest’anno aveva lei stessa rivelato che la diagnosi di adenocarcinoma renale, al quarto stadio, era fatale, lasciandole pochi mesi di sopravvivenza e giusto lo spazio per alcune decisioni di carattere personale ed affettivo: come il matrimonio in extremis con il regista Lorenzo Terenzi del 15 luglio, accompagnato dalla precisazione che “il coniuge avrebbe potuto anche essere una donna”, in ossequio alla sua personale visione della famiglia allargata, a tutte le amiche e gli amici che avessero costruito con lei una esperienza affettiva profonda e un legame duraturo.
Il potere è nelle parole: la vicenda esistenziale e politica di Michela Murgia
La vicenda esistenziale e politica della Murgia è stata indubbiamente molto significativa e un bilancio storico e letterario appare – con le esequie appena concluse – assai difficile da tracciare.
Oltre il cordoglio per la perdita di una figura di tale valore, sono infatti attirato dal fatto che anche nel caso della Murgia torna il tema dell’ underdog, dell’individuo non previsto dal canone, di colei che non avrebbe dovuto esserci. Me ne sono già occupato poche settimane or sono a proposito di Pino Torre “filosofo selvaggio”, e credo che la scrittrice, certo a un livello di maggiore notorietà pubblica, rientri a pieno titolo in questa categoria. Studentessa di un Istituto Tecnico, si laurea successivamente in Teologia. Diventa insegnante di religione per sei anni, per poi lavorare come venditrice di multiproprietà, dirigente amministrativa e persino portiera di notte. Un particolare significato deve aver avuto, fra queste multiformi esperienze di lavoro, quella di televenditrice per conto di una multinazionale, dal momento che il suo libro d’esordio, Il mondo deve sapere del 2006, è ambientato nel mondo dei call center e descrive l’accelerazione e il mito della produzione immateriale dei contatti. Da questo romanzo è stato tratto il film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti del 2008.
Allo stesso modo, nell’ambito delle scelte politiche, i percorsi intrapresi dalla Murgia non sembrano in alcun caso dettati da opportunismo e ponderazione. Tenuto conto che entro il 2010, dopo la pubblicazione di Accabadora nell’anno precedente e la vittoria nei premi Dessì, SuperMondello e finalmente nel Campiello, si poteva considerare a tutti gli effetti una scrittrice di successo, questa nuova e bruciante fama potrebbe eclissare gli inizi difficili, le oscillazioni e i mutamenti repentini di rotta. In tal senso si può leggere il sostegno della Murgia alla candidatura di Mario Adinolfi alle primarie del 2007 per la segreteria del Partito Democratico, un vero abbaglio della componente cattolica del partito e della Murgia, considerando tutte le successive prese di posizione di Adinolfi contro aborto, eutanasia, matrimoni atipici e maternità surrogata che lo condurranno nel 2022 a riunirsi con l’ultrareazionario Simone Di Stefano in “Alternativa per l’Italia”.
Qui vedo con maggiore evidenza l’imprevedibilità dell’outsider, in quanto la Murgia dopo il 2010 e fino alla morte andrà in una direzione esattamente opposta, predicando e praticando la famiglia estesa e la comunione degli affetti sotto lo stesso tetto, messo da lei generosamente a disposizione di tutti i legami che reputasse indispensabili.
Più costanti nel tempo di vita dell’autrice mi sembrano essere stati altri due orientamenti: il femminismo e il sardismo. In entrambi i casi veniva rispecchiandosi un suo bisogno di radicalismo profondamente avvertito. Un impegno non destinato a vacillare è in L’ho uccisa perché l’amavo. Falso! Scritto con Loredana Lipperini, e nelle biografie di Morgana storie di ragazze che tua madre non approverebbe scritte con Chiara Tagliaferri e pubblicate nel 2019. La Murgia sarà inoltre la prima a pubblicare un articolo, per L’Espresso, con la controversa schwa, desinenza neutra concepita per superare la questione grammaticale di considerare nella scrittura il genere maschile come neutro e plurale, tale da inglobare il femminile.
Non deve stupire: la Murgia aveva una considerazione totale del potere del linguaggio, inteso come ordine superiore alle cose stesse ed espressione di un’intelligenza ordinatrice. Il caso che esprime il genere dice anche implicitamente – e soprattutto a livello inconscio – quale genere circoscrive e sottintende gli altri. Senza essere necessariamente d’accordo, va pur detto che questa implicazione fra sfera grammaticale, sessuale e successivamente sociale, rappresenta qualcosa di concettualmente nuovo e originale. Molto antico è, invece, il principio secondo cui il linguaggio crea il mondo e non si limita, come vorrebbe il Wittgenstein, a descriverlo; questo è con ogni probabilità dovuto al retroterra cattolico, che in alcuni momenti sfiora il mistico, della scrittrice.
Il suo testo forse più conosciuto è il già citato romanzo Accabadora
Per il carattere che sempre l’ha contraddistinta, la Murgia non era destinata ad unire neppure le sparse, ma tuttora ben presenti, truppe del sardismo, o indipendentismo sardo: proviamo a spiegarne le ragioni.
Intanto, è controversa la figura della “accabadora” nella tradizione popolare isolana e anzi, da alcuni decisamente rifiutata. Una volta, mentre lavoravo a Istanbul, provai ad affrontare il tema con una collega sarda domandandole chiarimenti sull’attendibilità di questa “professionista della buona morte”, il cui ingrato compito era di porre fine alla vita di malati e moribondi incapaci di passare. La collega negò recisamente e protestò vivacemente contro questa, a suo avviso, invenzione letteraria. Si intuiva, comunque, la reazione offesa per la violazione di un perimetro riservato a quell’antichissima terra, dal quale il romanzo della Murgia aveva fatto filtrare una tradizione inconfessabile – posto che una specie di eutanasia popolare possa mai costituirsi in tradizione. Ad ogni modo gli ultimi interventi documentati di questo tipo pare risalgano ai primi anni cinquanta del novecento; la stessa scrittrice colloca gli eventi del romanzo proprio in quegli anni.
Chi era dunque “sa femmina accabadora”? Lo diciamo con le parole dell’autrice:
«Acabar», in spagnolo, significa finire. E in sardo «accabadora» è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. Perché è lei l’ultima madre.
I racconti orali aggiungono ulteriori dettagli. L’accabadora veniva chiamata dai parenti dell’agonizzante, vestita di nero; entrava in punta di piedi nella “stanza della morte”. Agiva di regola soffocando con un cuscino, oppure utilizzando “su mazzolu”, un bastone fatto con un ramo di olivastro della lunghezza di circa quaranta centimetri. Sempre in punta di piedi andava via, accompagnata dalla gratitudine dei parenti dell’appena defunto. Non poteva essere la sua opera pagata con denaro, ma soltanto con frutti della terra.
Le tradizioni come tali non hanno che un autore collettivo, non recando firme ma esaltando il lato immaginifico della realtà. Nel passaggio, dunque, dal folclore puro all’autorialità – perché Accabadora è decisamente un romanzo d’autore, anzi, per renderle il giusto omaggio, d’autrice – la contaminazione con una sensibilità più moderna e tormentata è tanto inevitabile quanto feconda. Scopo del romanzo, difatti, non è documentare una insolita tradizione popolare ma il plot, lo sviluppo della vicenda, l’intreccio. In una sua apparizione televisiva – Michela Murgia ha frequentato spesso e volentieri le televisioni – lei disse una volta una cosa che mi ha molto colpito. Descrivendo l’Italia attuale, la sua situazione politica, affermò che la storia italiana sembra saldare male il passato col presente; che se fosse concepita come narrazione, come il racconto di un autore, sarebbe poco coerente, come se lo scrittore non sapesse come legare le parti, dove andare a parare. In estrema sintesi un giudizio finalmente estetico sulla nostra storia politica, che tuttavia in certo modo coglieva nel segno: la storia italiana è stata scritta da troppe mani; e alcune di quelle mani sono state in aperto contrasto fra loro.
Insomma l’accabadora aveva, in genere, anche un altro mestiere: talvolta era levatrice: per aiutare le donne a partorire indossava vesti bianche; mentre come si è detto, da accabadora vestiva di nero. Nel romanzo Tzia Bonaria Urrai è sarta e “acquista” la protagonista, Maria Listru, dalla madre Anna Teresa sul cui bilancio familiare questo frutto tardivo pesa insopportabilmente. La bambina viene adottata a sei anni, non certo da un’orchessa. Tzia Bonaria vuole a tutti i costi un’erede; la tratta con garbo e lo ricopre di attenzioni, oltre a farla andare a scuola, cosa non scontata per una femmina di allora. Maria deve scoprire poco a poco la vera ragione dell’aura speciale che circonda la vecchia:
Per qualche tempo Maria pensò che Tzia Bonaria facesse la sarta. Cuciva per molte ore di seguito, e una stanza della casa era sempre piena di scampoli e stoffe. Venivano donne a prender misure di gonne e fazzoletti, ma qualche volta anche uomini per calzoni e camicie da festa. Gli uomini Tzi Bonaria non li faceva entrare nella stanza delle stoffe, li accoglieva in sala facendoli rimanere fermi in piedi. In ginocchio con il metro di pelle si muoveva rapida come un ragno femmina (…) Le donne durante le misurazioni parlavano volentieri (…). Gli uomini invece tacevano, cupi e come nudi davanti a quegli occhi precisi. Maria osservava, e domandava:
— L’uomo si vergogna di farsi misurare perché voi siete donna, vero?
— Macché, Mariedda! Gli uomini hanno paura, non vergogna. Lo sanno loro qual è il cappotto che temono da me.
A questo sfondo etnicizzante, si sovrappone appunto la vicenda: essendo Maria una ragazza, in lei fiorisce l’invaghimento per un giovane e la storia d’amore sognata. Ma la professione cui è stata destinata aleggia su di lei, rendendole impossibile una vita da ragazza “ normale”.
Consigliando la lettura di questo intensissimo romanzo, spero di ricordare nel modo più adatto una scrittrice di cui in futuro sentiremo la mancanza. Geniale e perciò stesso non sempre gradita; apprezzata al “centro” del nostro paese e considerata con molte diffidenze nelle mille periferie che si sono ormai trasformate nella vera Italia contemporanea, Michela Murgia, che altro non voleva che essere amata, come da lei stessa confessato, sarà forse presto più giustamente considerata dopo la sua sofferta e prematura fine, e sollevata all’altezza del suo grande modello “regionale”, Grazia Deledda. ©RIPRODUZIONE RISERVATA