Netflix ci aveva mostrato qualche mese fa il film Enola Holmes 2, dove l’attrice Millie Bobby Brown interpreta la sorellina peperina del celebre Sherlock: nella documentata storia di una delle prime proteste di operaie nell’Inghilterra vittoriana si può scovare, dietro le quinte, Annie Besant, la giornalista che aveva rivelato maltrattamenti e abusi in una fabbrica di fiammiferi; proprio lei, sì, Besant che anni dopo sarà una delle colonne del primo ordine massonico misto della Storia, Le
Droit Humain, di cui nel 2023 si celebrano i 130 anni dalla fondazione. Sempre Netflix in queste settimane, strategicamente poco prima dell’8 marzo, ci fa scoprire con una breve serie tv in sei puntate un’altra donna coraggiosa, intelligente, combattiva: la valdese Lidia Poët, che fu la prima donna avvocata italiana nel 1920, ormai sessantacinquenne.
Un po’ di imbarazzo
La storia della vera Lidia Poët la si può leggere in almeno tre libri (in particolare quello di Cristina Ricci), e nei documenti biografici conservati dalla Fondazione Centro Culturale Valdese di Torre Pellice e dalla Biblioteca Civica Alliaudi di Pinerolo. La legge di Lidia Poët è prodotta e diretta da Matteo Rovere, uno dei nostri migliori registi di fiction. Non è assolutamente uno sprovveduto, in termini di ricerca storica e di reinvenzione della storia: il suo film Il primo re (2019) e le due stagioni della serie Romulus (2020, 2022) sono ambientate nei tempi immediatamente precedenti la fondazione della città e della civiltà di Roma, e tutto il cast recita in protolatino (sic!) reinventato da due linguiste. Le figure femminili in quei titoli sono guerriere coraggiosissime, madri e figlie dignitose e fiere: Rovere ha quindi spiegato come la scelta di Matilda De Angelis, giovane attrice sensuale, per interpretare Lidia sia indirizzata a reinventare liberamente la storia autentica, per rivolgersi a un pubblico di adolescenti internazionale (format Netflix).
Ci sono moltissime scene imbarazzanti e incongruenti nella miniserie: un orgasmo a petto nudo dopo pochi secondi nel primo episodio (che ha indignato autrici femministe: “le donne libere e indipendenti devono sempre essere belle e sexy, per essere sdoganate ai maschi?”), baci focosi con il cognato giornalista stupidotto, parolacce da liceale del terzo millennio à go-go, precoci metodi di indagine come impronte digitali e altri tricks da polizia scientifica certo più credibili in C.S.I., fumate d’oppio e bordelli con prostitute procaci e seminude più probabili in qualche postaccio della Parigi di Baudelaire che nella Torino di fine Ottocento… Lidia viveva a Pinerolo e non a Torino; non si dice una sola volta che fosse valdese; il suo cognome è pronunciato Pòet e non Poèt come si dovrebbe. Non si fa minimamente riferimento allo straordinario lavoro decennale della vera Poët per migliorare il sistema carcerario, per istituire un Tribunale dei Minorenni; tuttavia, per la Poët finta nei vari episodi si inventano indagini vincenti sempre progressiste assai: a difesa di anarchiche, operaie, lesbiche, prostitute, accademiche d’umili natali…
Ma quanti di noi conoscevano Lidia Poët prima di questa serie tv?
Una Torino stupefacente (non per l’oppio)
Quanti di noi soprattutto non ricordavano una Torino così bella, rivedendola nei luoghi messi a disposizione dalla Film Commission Piemonte? quanti di noi sono rabbrividiti a sentire le incredibili argomentazioni maschiliste e reazionarie con cui dal 1883 l’Ordine degli Avvocati e poi la Corte di Appello, e poi la Corte di Cassazione rigettarono la domanda di ammissione all’esercizio dell’avvocatura della laureata in Giurisprudenza Poët?
Ma la Torino di quegli anni era anche il cantiere dell’Italia costituzionale e liberale: il 3 dicembre 1845 vennero istituite le prime scuole pubbliche serali per adulti, il 1° giugno 1846 furono istituite le prime scuole di istruzione femminile, e i fratelli Roberto e Massimo Taparelli D’Azeglio spinsero re Carlo Alberto a fare passi di enorme rilevanza storica e civile, possiamo dire pre-democratica. Il 17 febbraio 1848 vennero pubblicate le Lettere patenti:
Prendendo in considerazione la fedeltà ed i buoni sentimenti delle popolazioni Valdesi, i Reali Nostri Predecessori hanno gradatamente e con successivi provvedimenti abrogate in parte o moderate le leggi che anticamente restringevano le loro capacità civili. E Noi stessi, seguendone le traccie, abbiamo concedute a que’ Nostri sudditi sempre più ampie facilitazioni, accordando frequenti e larghe dispense dalla osservanza delle leggi medesime. Ora poi che, cessati i motivi da cui quelle restrizioni erano state suggerite, può compiersi il sistema a loro favore progressivamente già adottato, Ci siamo di buon grado risoluti a farli partecipi di tutti i vantaggi conciliabili con le massime generali della nostra legislazione.
I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ Nostri sudditi; a frequentare le
scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici.
Il 4 marzo 1848 fu promulgato lo Statuto del Regno di Sardegna:
Art. 3. – Il potere legislativo sarà̀ collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: il Senato,
e quella dei Deputati.
Art. 24. – Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla Legge.
Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari,
salve le eccezioni determinate dalle Leggi.
Art. 26. – La libertà individuale è guarentita.
Art. 28. – La Stampa sarà libera…
Art. 32. – È riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente e senz’armi, uniformandosi alle
leggi che possono regolarne l’esercizio nell’interesse della cosa pubblica
Art. 39. – La Camera elettiva è composta di Deputati scelti dai Collegii Elettorali
conformemente alla Legge.
Art. 73. – L’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al
potere legislativo.
Il 29 marzo 1848 si aprì anche alla religione ebraica:
Gli Israeliti regnicoli godranno dalla data del presente di tutti i diritti civili e della facoltà di
conseguire i gradi accademici, nulla innovato quanto all’esercizio del loro culto, ed alle scuole
da essi dirette.
La parola all’avvocata Poët
Quindi, grazie – tutto sommato – a La Legge di Lidia Poët. La vera Lidia fu una donna di incredibile coraggio e intelligenza, e in un’intervista pubblicata dal «Corriere della Sera» il 4 dicembre 1883 constatiamo che l’opinione pubblica stava dalla sua parte, ed era più avanti del burocratico Stato italiano (come nel 2023?):
La Poët osservò che le donne non sono escluse dagli impieghi pubblici. Esse possono essere maestre, professore, ufficialesse, telegrafiche, medichesse, segretarie comunali, ecc. Nel 1876 si ammisero le donne alle iscrizioni universitarie, dunque tale fatto legittima la laurea, la pratica e l’esercizio. «I miei avversari – esclamò la Poët – hanno un concetto assai strano delle loro mogli, delle loro sorelle, delle loro madri. Essi parlano sempre della donna come di cosa
essenzialmente fragile. Come potranno esse conservare con religione il segreto dei loro clienti negli oggetti litigiosi? Per tale cosa occorrono “capacità scientifica, intelletto civile, fortezza, longanimità, interesse, versatilità e libertà d’azione!”. Tutte virtù che secondo loro sono interamente negate alla donna. Mi accusano poi di “respingere le buone leggi ed i buoni
dettami, di invocare i principi della grande rivoluzione e di brandire la bandiera della emancipazione della donna respingendo teorie tutelari del mio sesso e del decoro e della dignità delle aule magistrali”».«Ma insomma, chiesi ancora, la donna secondo questi signori giudizi, non è riconosciuta capace di cosa alcuna pubblica e si deve solo occupare delle cose private?». «Sì – mi rispose con accento fra l’ironico e l’addolorato, poiché – e son parole testuali delle opposizioni contro di me – “la riservatezza del sesso, la sua indole, la destinazione, la fisica cagionevolezza ed in generale la deficienza in esso di adeguate forze intellettuali e morali, quali la fermezza, la severità, la costanza” ci impediscono di esercitare affari pubblici.
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