[Si è conclusa ieri la mostra “Corrado Cagli. Intorno alla fontana dello zodiaco”, a cura di Massimo Duranti e Andrea Baffoni, per la Giostra dell’Arme di San Gemini, allestita presso Palazzo Vecchio, Sala dei Priori e a Santa Maria Maddalena dal 24 settembre al 9 ottobre 2022. Pubblichiamo questo breve saggio inserito nel bellissimo catalogo della mostra stampato in tiratura limitata.]
Conformata di fatto come sodalizio artistico degli allievi di Felice Carena, da Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli, Fausto Pirandello, nonché dalle proposizioni post-futuriste di Francesco di Cocco, a Roma, alla fine degli anni Venti, con la mostra presso l’Hotel Pensione Dinesen nel 1927, una “scuola romana” era andata avverandosi anche attraverso una mostra in Francia, nel 1928. Mentre Roma vedeva nascere, in quel brevissimo giro di tempo, un’altra pittura di ispirazione anti-novecentista, quella di Raphael, Mafai, Scipione, la quale egualmente, di lì a poco avrebbe ricevuto, da Roberto Longhi, il sugello di “scuola”. Ai primi anni Trenta risale l’adesione di Corrado Cagli, ed è ancora a Roma, che il gruppo decide di dotarsi di un manifesto teorico, con la stesura nel 1933, da parte di Roberto Melli, Emanuele Cavalli e Giuseppe Capogrossi, del “Manifesto del Primordialismo Plastico”. Ideato in rapporto con la mostra parigina dello stesso anno (Cagli, Capogrossi, Cavalli, Sclavi) quando il critico Waldemar George coniò la definizione di “jeune École de Rome”, destinata a divenire canonica nel panorama critico italiano, il manifesto non fu pubblicato al tempo, ma un’opera di Cagli, presente in questa mostra come in quella francese, Edipo a Tebe, fu acclamata come uno degli esempi più rappresentativi della nuova scuola. Termini come “plastico”, “valori cosmici”, “futuro” possono leggersi nel testo, e ben si osserva come già circolassero nella teoria futurista dei decenni addietro (o in quello presente, essendo un plasticismo cosmico-biochimico nelle corde dei più recenti esperimenti) fintanto che, dopo una prima parziale adesione al gruppo romano, il filosofo Franco Ciliberti si sarebbe adoperato per costituire un “Gruppo futuristi primordiali” e un “Gruppo Primordiali Futuristi Sant’Elia” alla fine degli anni Trenta. Altresì significative per la storia dell’arte del tempo furono le relazioni degli artisti che stavano trovando la loro parola d’ordine nel “primordio” con il nascente astrattismo italiano della Galleria “Il Milione” di Milano; nella mostra alla Galleria di Roma organizzata da Pietro Maria Bardi, e poi con la mostra di Cagli a Milano nel 1933. Per altro verso ancora, è noto come nel “Gruppo Primordiali Futuristi Sant’Elia” vennero a confluire alcuni esponenti – da Manlio Rho a Mario Radice – dell’altro centro irradiatore dell’astrattismo in Italia, il gruppo comasco. Ma se queste possono dirsi alcune assonanze e coincidenze nello spirito degli anni Trenta, cui sarebbero senz’altro da aggiungere, nel caso specifico di Cagli, i rapporti con uno dei maggiori pittori della, anch’essa da poco nata, aeropittura, Gerardo Dottori, è pur vero che egli trovò il suo primo decisivo motivo di novità, in quegli anni, in una dimensione del primordiale assai distante da quelle futuriste o astrattiste, il suo viaggio nelle rovine di Paestum.
Corrado Cagli viaggiò a Paestum nel 1932. Ed è intorno a quella data che ruota il primo corpus di dipinti e disegni presenti in questa mostra. A partire dal disegno Viaggio a Paestum, un coacervo di figure umane e divine connesse dalle rovine di templi antichi. L’afflato delle divinità e la vita quotidiana del tempo: un cacciatore con la sua preda, una portatrice d’acqua, vi risultano così unite con naturalezza in quella che può dirsi una prima dichiarazione della poetica del “primordio”. Nel grande olio su tela Paestum, del 1932, la linea dell’orizzonte montuoso si fa tutt’uno con il tempio scoperto alla destra, per poi curvarsi repentinamente al centro proprio sopra il colonnato in lontananza. Cielo e monti paiono un insieme piatto e unico, mentre il frontone del tempio vi si staglia acuminato, bilanciando su una traiettoria obliqua la pavimentazione sconquassata all’estrema destra della via. Ed è già nell’articolazione irrequieta, irta e variegata della via che costeggia i templi che Cagli dà mano libera al segno e a una pittura più espressiva. Pietre e rovine, ciottoli, alberi spogli e isolate colonne: natura e cultura unitamente, mentre solo nei pini in fondo, sopra una collina v’è un accenno di paesaggio classico. In Edipo a Tebe, 1933, la monumentalità di Edipo è sottolineata plasticamente dalla torre che lo fiancheggia. Il volto, dagli occhi sovradimensionati e dalle pupille spalancate è bloccato in una fissità mitica, così la testa, in contrasto con la torsione del bacino. La testa, come l’apice della torre, spicca al di sopra del muro e si staglia sul cielo azzurro in una dimensione intellettiva. Per contro, la massa dei due cittadini di Tebe raccolti in adorazione che giacciono all’interno dell’area del muro, protetti e collegati al salvatore da una pittura libera che finisce per raccordare la mano di Edipo e quella del cittadino.
Sirena, Navigatori e La nave di Ulisse appartengono a uno stesso insieme tematico. Nel primo dipinto le figure costituiscono un gruppo quasi scultoreo. Il profilo basso del corpo argenteo della sirena delimita le possenti gambe dei pescatori che occupano quasi un quarto del dipinto: arti saldi e sovrapposti in contrasto non solo con la coda della sirena ma anche col suo essere sollevata da terra. Altresì, in perfetta opposizione con quello che le cinge la vita, il suo braccio si alza verso il cielo bruno e verso la vela, con un senso di solennità piuttosto che di disperazione. Lo sguardo della sirena come quello del ghermitore a sinistra pare rivolto verso qualcosa, e il taglio parziale dell’albero della barca omette di dirci che cosa sia. In questa composizione ispirata alle pitture pompeiane, ha agio la poetica del “primordio”, della presenza e continuità del mito nella vita quotidiana. Nel piccolo olio su tavola Navigatori, la composizione appare caotica come in una confusione di ombre e di masse plastiche, simboli validi, elmi, lance, al di là di una precisa iconografia. Di nuovo l’innaturale dimensione dei corpi favorisce effetti di continuità e fluidità della pennellata. A sinistra la piega della vela è ripresa da quella del corpo ingigantito e del bacino dell’uomo, che, a sua volta, cinge il ragazzo volto di schiena curvando il braccio. Contro questi corpi uniti e ondulati, sta il personaggio a destra, in posizione eretta, ribadita dal braccio piegato a novanta gradi. È quasi che questi eroi, con il loro incontro e le loro braccia stessero tracciando la rotta del mare. In La Nave di Ulisse, le anatomie dei sette personaggi di spalle sono quasi trasmutate, come in una confusione tra le rocce marine e la carne. Le teste, profilate e senza volto, lasciano il posto a macchie di colore e corpi che con il loro misterioso dinamismo sospingono visivamente la nave. Su tutti troneggia Ulisse, unico la cui anatomia appaia più plasticamente definita, il quale protende il braccio oltre la vela, la prua e verso l’orizzonte rossastro. Rispetto alla semplice forma del mare e del cielo, risolte con pennellate orizzontali, il gruppo di roccia marina dei navigatori sembra essere emerso, rappresentare il mare. In Neofiti, il tema iconografico del battesimo permette al pittore una composizione fortemente orientata dai contrappunti plastici tra le figure umane e le vesti, che, coprendo il volto dei personaggi, li raccordano globalmente al paesaggio. Nel bagnante di sinistra e in quello di destra, la gesticolazione delle braccia è giustificata dal fatto che stanno denudandosi, mentre, nel bagnante nudo al centro, la postura è quieta, reclinata in preghiera. Il suo capo è inscritto nel cavo della roccia. Questa forma ombrosa, come per la veste del bagnante a sinistra che si sta svestendo, fa da contrappunto plastico alla nudità del corpo. L’orizzonte molto alto del paesaggio, affine nelle tonalità ai corpi nudi o seminudi, combacia al dorso di uno dei bagnanti e poi con il celeste della veste nel punto in cui ne copre la testa. Se le teste dei tre personaggi son tutte in rapporto con il paesaggio per associazioni plastiche e cromatiche, è però quella del personaggio nell’acqua, l’unica che, in opposizione a un movimento delle rocce verso lo spettatore, scava dentro di esse e vi si inscrive in una nicchia sacrale. A ben vedere un rettangolo irregolare, bipartito in basso dall’acqua e in alto dalla parete rocciosa, crea la vera apertura nel paesaggio, verso la quale i due personaggi a lato stanno tendendo, liberandosi pian piano delle vesti come lasciando la materialità della vita. Non a caso si è parlato dell’ispirazione rinascimentale della composizione, per il suo complesso e simbolico bilanciamento di masse plastiche che muove dalla centralità del corpo umano. L’olio su carta del relativo dipinto, presente in mostra, si caratterizza invece per un bilanciamento più semplice tra figure monumentali. Il raccordo tra il paesaggio e la figura centrale è più immediato che nel dipinto: si tratta di un orizzonte basso che si inclina e apre in coincidenza di essa, inscrivendone la testa nel proprio spazio.
Le due nature morte presenti in mostra, La tromba e il calice, e Pesci, sono datate 1936 e 1937. Nella prima, gli oggetti emergono coloristicamente rispetto al telo su cui sono posti raccordandosi alla varia luminosità del tendaggio che li separa da un paesaggio all’esterno. Il calice con la striscia centrale rosa, così come il nastro rosso. È come se il panno monocromo su cui poggiano discendesse da sinistra per pieghe irregolari simili a una conformazione di roccia scura, sicché la dimensione di questi oggetti colorati e giocosi, apparendo indeterminata, li pone in uno spazio senza tempo. L’iconografia della tromba, oggetto gioioso, è presente anche nel disegno a inchiostro Luogo d’amore, retto da vibranti tratti obliqui che compongono figure umane allo stesso tempo saldamente plastiche e mosse. Diverso vibrante dinamismo, ottenuto per fasce gialle orizzontali tono su tono e rapide pennellate nella parete, e un simile tema iconografico è in Suonatore di flauto, 1936-37. Si tratta quasi di una natura morta con una presenza umana. Il mandolino, infatti, occupa il centro della composizione, e il telo verde sotto di esso è ripreso plasticamente dalle gambe del suonatore. In realtà, è come se gli oggetti delle nature morte di Cagli potessero per il loro senso di vitalità quotidiana eppure senza tempo inscrivere nel proprio spazio visivo anche la figura umana. Ambientato quasi nello stesso interno giallo è Compagni, 1936-37, dove questo colore determina atmosfericamente il corpo dell’uomo a destra dando alla coppia una naturale complicità.
In Pesci, un panno giallo, assai vario per tonalità, contiene alcuni animali vibrantissimi sia nella tonalità argentea sia nella moltitudine delle code ancora apparentemente guizzanti, più numerose dei pesci ritratti per intero. Nel dosso conformato dal corpo del pesce al centro che concentra su di sé la luce della composizione l’espressione pittorica esorbita dalla naturalezza della scena eppure in qualche modo la conserva. Il tavolo, che mostra solo parte del piano a destra e una gamba in basso a sinistra, inquadra in una stabilità di fondo la movimentata scena centrale.