Carpi: L’amico, scultore e studioso di filosofia Paolo Gabrielli, conosciuto come GABRIELS mi aspetta all’ultimo piano di un antico edificio in via delle 3 Cannelle a Roma, a due passi dal foro. Lì su, nella Alessandro Vitiello Home Gallery, è ancora parzialmente allestita la sua ultima mostra, “Gabriels 10/10”, curata da Daniele Brocchi. Non sono stato all’inaugurazione, perché da tre anni ho smesso di occuparmi dell’arte in mostra, ma Paolo non ne fa così spesso, e avendone organizzate insieme tante, a Roma e altrove, praticamente da quando lo conosco, per sette anni, conoscendo dunque quelle sue sculture benissimo, ho pensato che poteva essere il caso di rivederle come ai vecchi tempi – mentre Gabriels, per fortuna, l’avevo già rivisto più di una volta. E le sculture erano lì, con la solita esattezza luminosa del bronzo lucidato a specchio, avveniristico, per precisione tecnica, di morfologie simboliche, organiche, larvali, attualizzate dal richiamo cute del loro appeal. I bronzi mi sono sembrati alleggeriti nell’accostamento con le grafiche in dibond, apparentemente progetti delle sculture ma in realtà derivazioni colorate, come per un alleggerimento dell’immaginazione riuscito. In un unico colpo d’occhio insieme alle sculture ancora e parete si poteva vedere la cucina di design dell’Alessandro Vitiello Home Gallery, e, come subito mi ha detto Paolo – ma me lo aveva già detto anni fa – tanto che subito mi è tornato in mente un allestimento, credo del 2013, organizzato dalla Mondobizzarro dove i suoi lavori erano proprio in una cucina – le sculture sarebbero state benissimo anche lì. Già la mostra aveva dato il suo meglio, perché che cosa si può chiedere di più a una mostra (riuscita) se non un’impressione fuggevole e nuova sulle cose già viste?
G La Vitiello Home Gallery, gestita da Alessandro Vitiello, giornalista, collezionista e mecenate contemporaneo, era la casa dello psicanalista Gindro. Si sviluppa su più piani nel cuore di Roma, a pochi metri dai Fori Imperiali. Vitiello ha ripreso la forma espositiva della casa-galleria – modalità piuttosto diffusa in Europa, in particolare a Berlino, da molti anni. Quando mi ha invitato a fare una mostra qui da lui ho accolto l’invito con molto interesse. Mi piace vedere le opere ambientate in quella che potrebbe essere la mia casa ideale.
Il Cute, il Kindchenschema e il contributo di Gabriels alla European Cuteness Art
C In effetti credo che i tuoi lavori stiano bene in questo contesto un po’ informale. Dieci anni fa abbiamo fatto una mostra a Roma al museo Canonica a Villa Borghese, “Gabriels and the Italian Cute Nymphet”, una mostra-saggio nella quale, fin dal titolo, prendevamo una posizione critica sull’influsso nippo-americano in Italia basandoci su una parola e un concetto allora poco noto, il “cute”. Anche lì, a ben vedere, si trattava di una casa, ma diventata museo, e cercavamo una sincronia atemporale tra cose distanti nel tempo. E poi si giocava sul tema della Ninfa ninfetta, tra Warburg (il bassorilievo/formula di pathos del Canonica) e le lolite giapponesi a partire dal tuo toys customizzato Ninfa Moderna (ma la Ninfa Moderna al mio arrivo non c’era e ho potuto vederla solo in foto, allestita al chiarore di una finestra). A quel tempo non avevi proposto le grafiche ora invece sono importanti nel tuo lavoro.
G Il titolo della mostra, Gabriels 10/10 si riferisce proprio al fatto che sono esposte 10 sculture e 10 opere grafiche
C Iniziai a esporre i tuoi lavori grafici nel 2014 nella mostra al Museo Archeologico di Costanza, in Romania, una versione celeste del teschio rosa esposto qui, del quale subito mi piacque l’effetto ottico cangiante, dato da diverse figure che sembrano divorarsi. Quanto alle sculture, sia l’uccellino argento che il Feticismo utopistico III – nudo toys multicolore entro i limiti di una mutilazione, né bronzeo né smontabile – che non avevi fatto dieci anni fa e non erano al Canonica, sono apparse mi sembra nel 2015 e poi nel 2016, e le inserii l’una nella collettiva Cieli di Roma alla Core Gallery e l’altra nella grande mostra European Cuteness Art a Bucarest e poi a Sofia all’Arsenal Museum of Contemporary Art.
G Sì, le sculture sono già state esposte in varie mostre all’estero e in Italia, tra cui quella al museo Canonica, che tu curasti. Qui ho raccolto quelle per me più interessanti e adatte al contesto. Le grafiche sono in buona parte inedite. In questi ultimi anni ne ho prodotte molte. Una selezione, come sai, è stata raccolta nel volume Kewpie dissolvi (Stamen, Roma, 2021, introduzione di G. Carpi). Il titolo è un gioco di parole che richiama i famosi Kewpies di Rose O’Neill, e allude ad un tema a noi caro, quello della cuteness. In particolare la cuteness gioca un ruolo centrale nella serie Cuties (Kewpie dissolvi).
C Il cupido-elfo Kewpie (1909) personaggio cardinale nella storia della diffusione del “cute” nel mondo all’inizio del Novecento (il più noto prima che arrivasse Topolino) inventato da quella variopinta ed eccentrica figura che fu Rose O’Neill, che, nella serie gemella “Sweet Monsters” già ne eviscerava i risvolti più “disgusting”. Quando lo scoprii nel 2004 in Italia era quasi del tutto sconosciuto e ne feci un anello centrale della mia ricerca storica che portava fino al Giappone degli anni Novanta. Quando te ne ho parlato nel 2012 lo hai accolto con entusiasmo tanto che decidemmo di mettere una foto di Rose con le sue bambole in una stanza del museo. Di cute abbiamo parlato tanto, e intanto, il cute ha preso sempre più spazio nella vita di tutti i giorni e nella letteratura critica, con un effetto che, personalmente, mi fa notare quanto sia cambiato dai primi pioneristici lavori di scoperta di questo fenomeno ma anche dalle sue prime espressioni. Non è solo che i primi esempi di cuteness ci furono veicolati tramite i prodotti tutto sommato “alieni” dei cartoni animati anni 80 ed oggi sono diventati mainstream (potevamo considerare familiare “Memole”? O, negli anni novanta, la faccetta otaku di Perfect Blue?) ma anche che la produzione industriale e la diffusione di prodotti commerciali basati sul Kindchenschema si è quasi completamente sostituita ai prodotti naturalistici, e la si può trovare in un qualsiasi giornalaio. Questo mi riporta anche al primo approccio storico critico del 2004-2005, cioè osservare la straordinaria continuità iconologica del Kindchenschema che sopravanza di fatto i soggetti iconografici. Ed oggi in effetti il Kindchenschema è talmente riconoscibile anche rispetto ai marchi dei prodotti che si potrebbe sostantivare l’aggettivo, dicendo «guarda, ho visto un “cute”!» di fronte a essi. Personalmente, rispetto alla teoria delle merci, continuo a considerare questa preminenza dello schema infantile, trans-iconografico, sul significato, come il suo punto di affinità con le merci, in senso marxiano. Quando possiamo dire “ho visto un cute”! parlando del pupazzo di un cagnolino così come di quello di un gattino abbiamo la sensazione della loro fungibilità.
Ma tornando alla percezione storica di questi oggetti come cose “altre” pensiamo al passaggio dall’underground al cool Japan. In questo senso credo che ci sia stata una svolta della percezione verso la serialità e la normalizzazione.
G Il cute è forse la prima categoria estetica che nasce come forma commerciale legata alla produzione seriale. Le prime immagini cute infantili sono già immagini pubblicitarie rivolte al consumo di massa. In effetti cuteness (come pure kawaii) e produzione seriale delle merci hanno alcuni elementi comuni: la ricerca della simmetria, della medietà (averageness), della neotenia (lato sensu). Le immagini della serie Cuties rispettano questi canoni, ma sono allo stesso tempo rigorosamente anti-cute (bizzarre, orride, sessualmente esplicite), creando un effetto perturbante di tenerezza e orrore, familiarità e ripulsa. In questo senso i Kewpies della O’ Neill, archetipi della cuteness, vengono decostruiti e dissolti.
Tra Pop, Pop Surrealism, Kawaii e Superflat
C Parliamo un po’ di arte e cuteness. Quando, nel 2012 mi avvicinai all’arte contemporanea italiana e ci siamo conosciuti portai la nozione di Kindchenschema in un panorama romano in cui il dibattito era tra un Pop surrealism di ritorno e un termine “vagante” Kawaii, non ben compreso. Centrare il focus sul termine “cute” rilevando la continuità morfologica tra la produzione di diversi artisti italiani e europei divenne il mio appoggio critico per segnalare un’autonomia rispetto alle due correnti già storicizzate, che erano giapponese e americana, rispetto alle quali il panorama italiano stava diventando epigonico. Tuttavia questo approccio mi ha sempre posto il problema di scegliere tra una ricognizione iconologica sul contemporaneo – e da qui la mostra European Cuteness Art, e una selezione-azione più serrata, di gruppo. Oggi posso dire interrotto il mio lavoro militante ma alcuni episodi mi possono dire che l’insieme di problemi, se non di soluzioni, in cui mi stavo, ci stavamo muovendo erano corretti, vedi l’asta realizzata da Sotheby nel 2021 e intitolata “Kawaii Pop – The Cult of Cute”, che mette sotto questo ombrello una grande varietà di artisti – muovendo dai movimenti storicizzanti nippo-americani. E poi la recente dichiarazione di Murakami sulla sua vicinanza all’altra sponda del Pacifico, nel lavoro di Mark Ryden. «Mark Ryden, Yoshitomo Nara, and I, among others, belong to a generation of artists who have been facing in the same general direction. What I mean by the ‘same direction’ is that as children, we were baptized in subculture and that experience remains intensely imprinted on each of our beings. When we subsequently began painting in our adolescent years, we also started to study art history while simultaneously developing our painting technique. Once we had full command of both of these, we succeeded in combining historical painting methods with subculture. That, in a nutshell, is our generation» (Takashi Murakami, introduzione alla mostra di Mark Ryden – Perrotin Gallery – Shangai – 2020).
Insomma, se qualcosa ha unito i due movimenti della ribalta neo-pop, il Superflat e il Pop Surrealism questo è stato proprio il Kindchenschema e il “cute”, perché oggettivi fattori estetici e morfologici fioriti nelle subculture. Parlavamo prima di letteratura critica, proprio di quest’anno è anche il libro che ripropone il cute come tendenza artistica contemporanea, di Sianne Ngai, The Cute, per la serie Documents of Contemporary Art, Whitechapel Gallery MIT Press. Con la Ngai, che nel libro cita anche due mie saggi vecchi (2009 e 2012) su cuteness e futurismo, ho avuto un cordiale scambio di mail riflettendo sul tema di quanto la standardizzazione iconologica del cute (tramite il Kindchenschema) possa ostare al riconoscimento dello stile di ciascun artista – fatto questo che nel mio lavoro di curatore ho anche in parte vissuto, proprio a volte puntando su quella caratterizzazione anche in senso conflittuale (vedi Neo Cute al Macro). Ma nel libro la critica insiste su una diffusione del cute scollegata da riferimenti storiografici al Pop surrealism e al Superflat. Non sono propriamente d’accordo con questa analisi perché credo che il Neo Pop sia stato un veicolo primario del cute nell’arte. Ad ogni modo, come sempre è accaduto, penso che non sarà possibile disconoscere chi ha interpretato questo fenomeno per la prima volta, e oggi come allora sei stato tra i primi se non il primo artista a occupartene in Italia – e parliamo del 2001 per Feticismo utopistico I, anno della mostra Superflat di Takashi Murakami. Molto semplicemente, c’è un tempo e uno solo per fare pupazzetti con gli occhi grandi.
Andiamo un po’ oltre, le altre serie?
G La serie Controanatomie si ispira agli antichi e moderni atlanti teratologici, al gusto barocco per le dissezioni e le Veneri scomponibili e alla passione surrealista per gli anagrammi e i paradossi anatomici (da Hans Bellmer e Pierre Molinier fino a Yoshifumi Hayashi). Si tratta di forme di ibridazione tra l’organico e l’inorganico, il biologico e il meccanico, la forma neotenica e il feticcio, la merce e la sessualità, il mito e il prodotto seriale.
La serie Mad in Italy (Italian serial killer), di cui qui vedi un esempio (Hello Chiatty, che ha per protagonista Luigi Chiatti, il «mostro di Foligno») è un catalogo di ritratti cute di noti maniaci assassini italiani. La sovrapposizione plateale di forma cute e mostruosità nazional-popolare vuole evidenziare per contrasto il carattere morboso, voyeuristico e infantilistico della passione ormai globale per entrambe le dimensioni.
La serie Giocattoli per malinconici, di cui puoi vedere in mostra Grande Necrofilaia e Poi d’improvviso venivo dal vento disfatto, si riferisce alle serie di sculture con lo stesso titolo. Le immagini non sono però disegni preparatori delle sculture, né la loro trascrizione bidimensionale. Ne sono piuttosto idee in senso platonico, ovvero schemi geometrici fuori dal tempo. Rendono chiaramente visibili alla mente i canoni, le proporzioni matematiche e i moduli sottesi alle concrete opere tridimensionali.
Mancano esempi in questa mostra della serie Ritratti e autoritratti. Quest’ultima è una anticelebrazione giocosa in chiave surrealista e un divertissement figurativo antiretorico sui temi classici della morte, della nascita e della vita embrionale – che per la maggior parte degli artisti, come per gli axolotl, campioni naturali di cuteness neotenica, dura un’intera esistenza. Inutile dire che siamo dalla parte degli axolotl.
C La tua accoglienza del cute e il tuo rapporto con il mondo del Pop Surrealism e del Superflat si devono anche al tuo essere stato parte della generazione che vide e amò il cartoni animati giapponesi negli anni Ottanta, cosa che è valsa anche per me come critico e curatore militante, uno che nel 1996 ha visto Evangelion su MTV e nove anni dopo si è ritrovato a scrivere di questi fenomeni e poi a condividerli con degli artisti anche come fatto generazionale e identitario. Cosa che vale anche in altri campi e mi piace qui ricordarlo, il bellissimo romanzo di Fabrizio Patriarca, tuo coetaneo, Tokyo Transit, 2016 (66TH and 2ND) impregnato di temi otaku e cute, ma anche mi sembra vissuto proprio come ancoraggio generazionale – senza peraltro che la critica se ne sia minimamente accorta – basti il rifermento alle teorie di Hiroki Azuma – e personalmente con Fabrizio ricordo qualche bella sfida a Street Fighter II. Ma almeno altri due esempi letterari generazionali andrebbero fatti, la Lulù (neo-kewpie) di Isabella Santacroce (2010) e, con corrispondenza più tematica che estetica Occhi sulla graticola di Tiziano Scarpa con copertina di Murakami (1996). Del retaggio degli anni 80 ha scritto un tuo critico accademico, Sergio Cortesini, riprendendo anche il catalogo della nostra mostra al Canonica. Ma poi, come mi stai dicendo, i tuoi temi toccano un gusto macabro decadente riproposto in chiave di cultura popolare. E hai sostanziato queste sponde pop con temi della storia dell’arte e della “teoria critica”. Facendoci accompagnare da un passo di Fabrizio «Non ci volle molto perché si ritrovasse di fronte all’albero di Natale. Stavolta scrutò a fondo le palline e si accorse che portavano incisi dei segni geometrici: quadrato rosa, cerchio rosso, triangolo verde, poi vide una x violetta seminascosta tra le foglie unte di lucido e la falsa frutta secca». Tra le prime interpreti di un legame tra Adorno, Marx, Benjamin e la cuteness ricordiamo la critica Sianne Ngai, nel 2005 con il fortunato “The Cuteness of the Avant Garde”; temi che tu già portavi avanti a partire dai tuoi studi accademici su Benjamin, barocco e malinconia.
In effetti con le serie Giocattoli per malinconici e Nuovi giocattoli per malinconici cerchiamo di fondere il gusto del Pop Surrealism americano e la tradizione estetica europea. Più esplicitamente tentiamo di unire in modo ironico e giocoso, vale a dire antimonumentale e antiretorico, questi aspetti: la ricerca della forma essenziale tipica dell’arte “alta” e della grande scultura moderna europea (Arp, Moore, Brancusi ecc.), l’idea della malinconia come contrassegno dell’artista (Warburg, Panofsky, Saxl, Starobinsky), la prospettiva dell’allegorista in quanto feticista delle immagini e delle merci (Benjamin), il gusto barocco delle Veneri scomponibili (le cere anatomiche di Susini e Zumbo), e l’estetica semplificata dei giocattoli cute, o, per meglio dire, lo stile “giocattoloso”, commerciale e low brow del pop surrealism americano e del Kawaii giapponese (Superflat).
C Spesso torna nelle tue opere il concetto di melanconia. E se dovessimo partire dalle categorie di contesto di cui ho detto, Pop Surrealism e Superflat, la si potrebbe ascrivere solo a questo secondo movimento, malinconia della propria persa, o rimossa, identità culturale, sociale, umana, sostituita dal mondo pop, mondo di una disperata fuga dalla realtà tanto dolce quanto lancinante. E, stando a tempi recenti (2020), è interessante come quel tema tipicamente giapponese si sia fuso con la nostalgia per l’infanzia (di Murakami, ma potrebbe essere quella di milioni di persone), nelle sue serie su Doraemon, dai titoli antifrasticamente commoventi “So Much Fun. Under the Blue Sky” o “A Blue Sky! Like We Could Go On Forever!» Che cosa significa nelle tue sculture?
G Direi in sintesi questo: non si tratta di tristezza personale, ma della consapevolezza della fine della Grande Arte portatrice di esemplarità, luogo esemplare di senso comune kantiano, e il riconoscimento che fare arte è nel migliore dei casi una privata pratica di senso, al limite della deriva feticistica. In fondo, del resto, malinconia e feticismo sono forse l’una la negativa dell’altra. Quando Benjamin citando quasi in senso straniante Riegl, parla di Kunstwollen, intende già questo. Non la malinconia come umore dell’uomo di genio aristotelico e rinascimentale. Piuttosto malinconico «fare arte» nella consapevolezza della sopraggiunta impossibilità della Grande Arte.
Gabriels, inventore della «Scultura smontabile», un attentato alla monumentalità ormai comica
C Di qui il concetto di opera come giocattolo, che, tuttavia, io ho sempre voluto leggere anche in relazione alla proposta generale del Neo Pop, che altro non è che proporre il merchandising come arte (e viceversa), fino ai limiti del possibile. Su questo, peraltro, abbiamo realizzato il progetto Neo Cute al Macro nel 2019, il mio ultimo progetto. Lì le tue opere “speciali” erano interattive, ma di per sé, da sempre, sono liberamente smontabili, fino a dissolversi in tanti pezzi
G Sì. Detesto la monumentalità, ritenendola una dimensione non più praticabile senza comicità involontaria. Il che non significa che non siano possibili monumenti paradossali – monumenti non monumentali, forse monumenti alla non-monumentalità.
C Ancora sul carattere di giocattolo scomponibile – fino a cento pezzi – di molte tue opere, che, così messe, sembrano uscire da una rivista di meccanica – con salutare negazione dell’aura feticcio artistica – rimandando alla custom culture californiana, e quindi anche al lowbrow, e del resto proprio su HI FRUCTOSE sono stati pubblicati alcuni tuoi lavori.
G La scultura scomponibile è naturalmente anti-monumentale. Lo è in quanto problematica dal punto di vista mimetico – mostrando il segreto dell’interno distrugge la possibilità propriamente monumentale dell’illusione. Ma lo è anche dal punto di vista materiale. Un’opera enorme non potrebbe essere maneggiata se non da un gigante. La scultura decomponibile riduce le ambizioni monumentali alla più modesta e meno retorica prospettiva del giocattolo, e invita a una diversa esperienza estetica, a un’interazione con l’opera allo stesso tempo più e meno familiare rispetto alla pura contemplazione o al puro possesso. Come il malinconico barocco, collezionista di allegorie, il collezionista contemporaneo può così rigirarsi tra le mani il suo giocattolo-feticcio, scomporlo e ricomporlo all’infinito in cerca di un possibile senso.
C Eh, insomma, si potranno rivedere presto due tue sculture, nella Nuvola di Fuksas
G Sì la Alessandro Vitiello Home Gallery esporrà due sculture, Elena e Paride, nel suo stand ad Arte in Nuvola, dal 17 al 20 novembre 2022. Come diceva il poeta “in quest’ora che si indovina afosa./ Sopra il tetto s’affaccia / una nuvola grandiosa.
C «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato». Ma lieti di vederti ancora in corsa.