Cacciari e la metafisica concreta
Massimo Cacciari all'Università Gregoriana di Roma | ©2024 Franco Garofalo

Massimo Cacciari all’Università gregoriana di Roma con la Metafisica concreta dell’Occidente e dell’Europa tra sogno e filosofia

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Una giornata di studi all’Università Gregoriana di Roma, con Massimo Cacciari

Mercoledì 17 marzo si è svolta, presso la sontuosa cornice dell’Università Gregoriana di Roma, una giornata di studi che ha riunito due eventi: la presentazione del libro di Massimo Cacciari Metafisica Concreta, Adelphi, Milano, 2023 (questo link per chi vuole acquistarlo), e un convegno dedicato al matematico, teologo e filosofo russo Pavel Florenskij (1882 – 1937). Di questo importante incontro cercherò di riportare, il più fedelmente possibile, la lezione introduttiva di Cacciari rinviando ad altra occasione l’approfondimento di cui Florenskij è senz’altro meritevole. Senza mancare di notare che un certo collegamento interno fra i due temi pure esiste: il titolo del libro di Cacciari è infatti un’espressione ripresa proprio dall’autore russo. Dei vari e affascinanti temi della meditazione florenskijana, quello che mi ha colpito immediatamente è la relazione da lui studiata fra antropodicea e teodicea contenuta nel suo saggio La filosofia del culto, tradotto e pubblicato da Edizioni San Paolo nel 2016. La giustizia (e giustificazione) divina che non è inficiata dalla presenza del male – che non è essenza nel mondo – si unisce alla giustizia (e giustificazione) umana, che attende al varco il male con la sanzione, ma non lo previene; una “cura” preventiva del male, almeno di quello che l’uomo può perpetrare, non si può realizzare senza negare la libertà umana e dunque attuando il peggiore di tutti i mali. Il mondo in cui viviamo, per quanto possa apparirci insidiato dall’enorme varietà dei mali, è pure il meno dannoso e ogni altro mondo sarebbe peggiore di questo.

Su queste basi mi aspettavo che il Prof. Cacciari dedicasse un ampio capitolo della sua conferenza a Florenskij, ma così non è stato. Tuttavia le questioni da lui sollevate, e contenute nel suo libro, sono del massimo interesse e spero di renderne adeguata testimonianza nelle righe che seguono.

Cacciari e la metafisica concreta

Noi predichiamo dell’Essente ciò che è pros tì, non ciò che l’Essente realmente è.  Vediamo, ad esempio, la Metafisica di Aristotele. Le cosmologie aristotelica e platonica provengono dalla stessa radice: nessun pensatore greco dubita che i corpi (tà physikà) siano di natura diversa dalla nostra: il mondo superlunare è una “fisica” diversa, ciò che giustifica la definizione aristotelica metà tà physikà (ovvero metafisica).

Gli astri sono “corpi” di natura diversa dalla nostra. È la rivoluzione cosmologica moderna a portarci alla coscienza, con angoscia, che quei “corpi” sono come noi: mortali. Il sole è mortale come noi. Per la mente greca è concepibile essere corpi e immortali: tali sono gli dei, poiché anche gli astri sono di questa natura corporea e immortale; all’opposto, la cosmologia moderna e copernicana unifica la physis, come materia, sotto il segno della finitudine; e transitivamente, un dio mortale non è più dio. In un passo fondamentale della Metafisica Aristotele dice che l’essente è un aporoùmenon. L’essente non può essere compreso nella logica e nella predicazione del possibile. La prima categoria è l’ ousìa (sostanza). Ci sono molti modi di definire l’ ousìa. L’ultima determinazione di essa, l’ente che possiede sé stesso, è quello che i latini chiameranno “quidditas”. È l’indicazione dell’ Essente “secondo sé stesso”. La singolarità, l’ ecceitas dell’ Essente. L’irriproducibilità dell’Essente. Accanto a tutte le determinazioni c’è la provenienza dell’Essente: ciò che l’Essere era, è. A seconda di come l’Essente viene considerato determinerà ogni altra cosa, ogni altra determinazione, ogni legame causale.

Il mio esser-ci NON permette di risalire all’essenza dell’Essente mediante legami causali. Così l’ esser-ci, come sta nell’avviso della sua provenienza, sta nell’avviso della sua destinazione. Quindi, per un’autentica fenomenologia-ontologia l’astratto non serve alla lezione dell’Essente. È invece massimamente concreto; non c’è nulla di più concreto dell’essere dell’ Essente, il pensiero urta contro di esso, che non ha fondamento se non nell’abisso: abisso la provenienza ed anche la destinazione. Possiamo sbagliare nell’attribuirgli alcune, o anche tutte, le relazioni, ma non possiamo dubitare della singolarità dell’Essente. Nella sua quidditas l’ Essente è inattingibile: non è alla mia portata. E l’unico rapporto possibile con l’essenza dell’Essente è precisamente quello implicito nel termine filosofia: cioè la philìa. Se non posso conoscerlo, posso però amarlo. Amare la sapienza nella quidditas del Sé. La quidditas dell’Essente si manifesta, si rivela, lo fa in tanti modi, ma in modi approssimativi. Non può rivelarsi con l’esattezza della scienza della natura. Ma non è un limite! Vi sono tante forme di esattezza, e il mito dell’esattezza scientifica è un mito neopositivista, che – guarda caso – è stato largamente superato dalla scienza contemporanea, la quale è alla base di tutti gli strumenti tecnici di cui disponiamo oggi.

Questa è una scienza probabilistica, che non si sogna di usare i legami causali in termini deterministici, ben consapevole della singolarità di ultima istanza dell’ Essente. Per tale scienza non potrai mai raggiungere il punto d’origine della sua provenienza, così come non potrai prevedere precisamente l’effetto di una causa. E per ragioni logiche. Posso determinare tutta la catena di cause che risale al Big-Bang; non potrò determinare l’istante del Big-Bang. E se anche lo potessi fare c’è comunque l’effetto, che non è la catena delle cause, è un’altra cosa. Il nuovo è la catena delle cause più il loro effetto. L’effetto – qualsiasi effetto – ha la propria singolarità. Metafisica dunque, ma su questa Terra. E’ l’Essente che ama nasconder-si, per dirla con Eraclito. L’Essente ama nascondere provenienza e destinazione. Manifestandosi, nasconde. Nel suo manifestarsi non si dà tutto, di modo che nessuno possa ap-prenderlo. Nel manifestarsi si ritira. E’ questa la metafisica; è questa la filosofia. Perché tende, e ama, questo sapere che non ha e non avrà. Il problema dell’Essente non risolve una questione come l’onto-teologia. Non può farlo perché non c’è onto-teologia nella metafisica. Quella onto-teologica è una interpretazione di Aristotele errata. Il dio di Aristotele è Sommo Ente, è Ente. Aristotele risolve l’Essere nell’Ente, in sostanza dimentica l’ Essere. Aristotele doveva spiegare l’eternità del tempo e del movimento. I libri aristotelici sulla Fisica non riescono a spiegare tale eternità, presupposta dai pensatori greci. L’altra natura che spiega il movimento dell’ Essente Aristotele lo chiama Theòs, dio. Dio è la causa di tutto il movimento dell’ Essente. Non è l’ Ente che dona l’ Essere a tutti gli enti: questa è l’interpretazione scolastica di Aristotele, mentre lui fondava la teologia naturale. Ecco la corretta interpretazione storica dell’ opera interpretativa di Aristotele da parte della Scolastica, come risulta anche dagli studi di Enrico Berti e di altri. Ma la prima conseguenza è che non vi è onto-teologia. C’è l’ente in quanto aporoùmenon mediante il quale svolgere l’interrogazione; e l’ente/relazioni che non risolve in sé l’Essere.

Tralascio la questione del rapporto attuale fra la filosofia, che non pretende più naturalmente essere Philosophia Prima, e la scienza contemporanea che funziona in base a una logica filosofica ma solo come regola di funzionamento appunto. La scienza contemporanea ha un carattere intrinsecamente filosofico-metafisico; ha molto a che fare con l’ Essente in quanto aporoùmenon, che è indagabile e indagabile ancora; e questa indagine si svolge per “esatte approssimazioni” poiché, come detto prima, esistono varie forme di esattezza. E’ il grande tema di Cusano prima, di Leibniz poi. Una scienza che rispetto alla scienza della rivoluzione scientifica, essenzialmente deterministica e meccanicistica, comincia a volgere questa in dubbio. Come farebbe d’ altronde la scienza galileiana a spiegare l’ energia dell’ Essente? La scienza galileiana deve considerare l’ Essere in quanto assolutamente determinato e, in quanto tale, ap-prendibile, preda della tecnica. Qui l’importanza di Leibniz: l’ ente è vita, è singolo, monade. La monade è in sé riflessione dell’ intero Weltraum (cosmo) e informa di sé lo spazio: lancia continue informazioni di sé e viene informata. La monade è tutta porte e finestre; quando Leibniz dice che non ha porte né finestre intende la sua singolarità viva. L’ ente ha identità propria. Ogni ente ha luce: dove finisce la luce che proiettiamo? Da dove viene la luce che c’illumina?

Università Gregoriana di Roma. Massimo Cacciari e la metafisica concreta
Il pubblico durante l’intervento di Massimo Cacciari all’università Gregoriana di Roma | ©2024 Franco Garofalo

Ciò che tutti i fisici contemporanei sono arrivati a dire è che non c’è la “cosa”, ma l’aporoùmenon. ciò che è continuamente da interrogare. La cosa pros tì, è relazione; l’ Essente come aporoùmenon è singolarità irriducibile alle sue relazioni; le due cose vanno insieme: la natura secondo la fisica e la natura metafisica. La cosa, la cosalità della cosa, sussiste solo per le sue relazioni: con altre cose e col Tutto e non ha sostanza, perché guardando alla sostanza si passa immediatamente al proprio e alla singolarità, che è l’infinito esame della metafisica. Dove finisce il Tutto? E’ da lì che proviene la luce. Qui subentra Heidegger. Come si fa a non interrogarsi su questo: sul suo inizio, sulla sua destinazione? Sorge l’analitica dell’ esser-ci. La differenza specifica fra il punto di vista di Cacciari e quello di Essere e tempo sta in ciò: per Heidegger l’ infinità del possibile, per l’ esser-ci si chiude con il nostro essere-per-la-morte. L’infinito indagare l’ Essere in quanto aporoùmenon per Heidegger si chiude, per Cacciari no. Per quale motivo il possibile dovrebbe avere come termine ciò che toglie ogni possibilità? Questo limite è il “necessario”, non qualcosa di esterno al possibile di cui ho solo l’apparire come negatore del possibile.

Ecco emergere il rapporto con i russi, Dostoevskij o Florenskij, dal quale è ripreso il titolo del libro. Una logica modale del possibile deve affermare che in realtà il limite del possibile è l’impossibile. E’ questa considerazione che lascia aperta la prospettiva del possibile. La possibilità infinita potrebbe essere limitata dal “muro dell’inesorabile” come lo chiama Wittgenstein: la necessità. Ma il muro dell’inesorabile non c’è, lo dice la scienza contemporanea. Questo o quest’altro esperimento esprimono solo la propria singolarità: perciò non v’è e non vi sarà mai un esperimento perfettamente ripetibile: ancora una volta la predizione è pura probabilità che qualcosa accada o non accada. Se quindi nessuna legge fisica, per Wittgenstein, erige il muro dell’inesorabile, perché tale muro dovrebbe essere la morte?

Così la logica modale della possibilità deve aprirsi alla possibilità che qualsiasi possibile sia, ovvero, all’impossibile. E’ il grande tema di Dostoevskij: mi ribello al muro dell’impossibile! Ma è certamente diverso se questo di Dostoevskij è un grido fatto sulla croce, o se è il frutto di un ragionamento. E, come non c’è nessuna separazione fra la metafisica e la scienza attuale, così non vi è separazione fra la filosofia e la teologia. La filosofia non deve ricercare astratte unità o unificazioni, ma l’analogia. La filosofia aborrisce ogni forma di astrattezza. Astrattezza è lo specialismo: Lo specialista è astratto, perché agisce per separazioni: separa il proprio dall’improprio, il pertinente e il non-pertinente alla propria specialità. Occorre ugualmente la coscienza; va bene anche la coscienza di essere astratti. Superare incessantemente l’astrazione: la filosofia è la massima concretezza. La nostra civiltà è analogica perché è fondata su queste premesse. Certo anche per gli aspetti più angosciosi, come questa inesaustività della ricerca: indaganda veritas, la verità è sempre da indagare ancora. Sulla verità non ti puoi mai sedere. Indagare tutti i nessi possibili: scientifici, filosofici, teologici.

Se manca la metafisicità del tuo stesso esser-ci e se tutto si risolve negli specialismi e basta, non c’è più Europa: l’occidente non è più europeo. Ma l’Occidente europeo non è stato, come pensano alcuni, un sogno. E se lo è stato, è bene dire che questo sogno è durato. Ha lasciato un suo profondo segno. Ciò ha molto a che fare con l’europo-cristianità. Perché in un Europa in cui venga meno la domanda metafisica, dubito fortemente che rimanga accesa la domanda teologica. O si sente il nostro esser-ci come un trascendersi, o l’idea di trascendenza come luogo della divinità è difficile che sopravviva. Ritengo che l’europo-cristianità non possa sperare di sopravvivere in un’ Europa che abbia dimenticato la domanda filosofico-metafisica. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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