Vi ricordate le mamme di una volta, quelle del «guai a te»? Oppure quelle del «se cadi ti do le altre sopra»? No, non credo che fosse un ricordo solo personale. Credo che fosse un modo di fare piuttosto generalizzato, collettivo. Generazionale, e si, in definitiva culturale. Per me, tra le espressioni più usate, arrischiato in qualche peripezia mal riuscita, c’era sempre un «ti sta bene». Seguito da un altrettanto consueto «te lo meriti». Ma come, pensavo, me lo merito? Eppure, col senno di poi, quella frase voleva dire molto di più.
Forse il merito ha anche a che fare con la colpa, non solo con la virtù. Ed è una faccenda intricata. La scuola italiana, intrisa, direi imbevuta di morale cattolica la faceva breve: c’erano i buoni e i cattivi sulla lavagna. Tertium non datur, sistema binario. I primi meritavano un elogio, gli altri una punizione. E se non ci si fosse riusciti in questa vita, perché si sa le cose come vanno, ci avrebbe pensato la divina provvidenza. Ce lo insegnava Fra Cristoforo, verrà un giorno. Eppure, ci facevano studiare anche Dante, pur senza farci capire che nonostante il suo rigore medioevale, per lui i buoni e i cattivi sfuggono spesso alle nostre convinzioni, al nostro metro. State contenti umane genti al quia. Perché il merito è una faccenda grossa, una faccenda intricata.
Da qualche anno a questa parte, la fregnaccia dell’antipolitica, coi suoi schiamazzi, ha insinuato un meccanismo. E ci ha messo poco, perché era quello che suggeriva la lavagna di scuola. La meritocrazia. Ovvero un altro modo di fare i buoni e i cattivi. Del resto, il sistema americano, del quale siamo degli scarsi (per fortuna) imitatori, educa proprio a questo. A una selvaggia competizione per far emergere i migliori. O quelli che risultano migliori, per merito. Per carità, l’italico spirito traffichino dell’accomodamento, sarà difficilmente scalzabile, abbiamo un consolidato sistema di raccomandazioni, di figli dei figli. Siamo quello che siamo. Ma il rischio di peggiorare le cose, in tal senso è alto. Tant’è che il neo nato governo Meloni ha pensato bene di inserire al già discutibile ministero dell’Istruzione, il merito. Ministero dell’Istruzione e del merito, si dovrà chiamare così. Quasi a dire, che altro possiamo fare, dopo le competenze, la pedagogia uniformante, i bes e tutti quei maledetti acronimi, le mascherine, i banchi a rotelle e la Dad, per fare ancora più casino? Inseriamoci il merito, sublimiamo la vecchia lavagna delle maestre elementari. Erigiamo i buoni e i cattivi come sistema. E facciamolo in maniera grossolana: una competizione senza regole chiare, una gara di atletica con i blocchi di partenza farlocchi. Si, perché il punto è proprio questo. Il già discutibile sistema dei buoni e dei cattivi diventa atroce, perché non indaga, si limita a segnalare un’ingiustizia e a glorificarla. Una bandiera a scacchi ipocrita, con annessa premiazione. E così torneremo a dire bravo ai bambini che ci piacciono e cattivo a quelli che non ci piacciono. Sulla base di una tabella sulla quale abbiamo indagato poco e niente. Joseph Stiglitz, Nobel per l’Economia nel 2001, sosteneva che Il 90% di quelli che nascono poveri, muoiono poveri, per quanto intelligenti e laboriosi possano essere, e il 90% di quelli che nascono ricchi muoiono ricchi, per quanto idioti o fannulloni possano essere. Da ciò si deduce che il merito non ha alcun valore. Aveva ragione ma anche torto. Certo, la giustizia sociale è ovviamente una condizione necessaria.
La vera domanda
Ma credo che ciò che si debba chiedere davvero, non sia se un ragazzo ricco che ottenga risultati “socialmente” apprezzabili lo abbia meritato davvero. Piuttosto, ciò che dovremmo domandarci è che cosa sia un risultato, a chi convenga e come. Bisognerebbe domandarci prima di chiederci se lo meritiamo, che cosa vogliamo essere. E per chi. Bisognerebbe chiederci cosa sia valore. È una faccenda complicata e chi vi scrive non sa disbrigarla. Il merito, anche snellito dall’ingiustizia, rischia di essere un equivoco. Perché si interessa del come. E non del perché. Nietzsche diceva che il talento è spesso un nascondiglio dietro il quale nascondiamo chi siamo con ciò che sappiamo fare. De André che ci sia poco merito nella virtù e poca colpa nel vizio. Io per me, credo che spesso, rischia di esserci anche poca virtù nel merito, proprio perché in esso vi è anche una componente di colpa, senza vizio. Ripenso ancora alle mamme, che ci dicevano che ci meritavamo di essere caduti, perché incauti nell’ arrampicarci. Quello che avrei voluto che ci avessero detto, però, è se lo meritavamo, di arrampicarci.