Si lo ammetto, l’ho visto anch’io. E non sono tra quelli che di solito lo fanno, neanche tra quelli che fanno finta di non farlo. A dire il vero non sono nemmeno tra quelli che non lo fanno per principio etico, quasi ideologico. Non lo faccio, di solito, perché per fortuna rifuggo gran parte di ciò che passa in televisione, perché come un vecchio conservatore del pensiero, la considero ancora un oggetto pericoloso da guardare con diffidenza. E per dirla come il vecchio Groucho Marx, ogni volta che la accendo mi viene voglia di leggere un libro. No, però non prendete queste poche righe come le altolocate confessioni di uno snob. Perché, vi ripeto, io Sanremo l’ho visto. E praticamente quasi tutto. Forzando la mia naturale inclinazione di cui sopra e soprattutto cercando di acquietare un fastidio più o meno sommesso che mi ha pervaso per tutto il tempo. Un fastidio ingombrante, parafrasando il poeta, che ogni tanto si è trasformato in malessere. E si sa, i malesseri hanno una forma sulla quale è necessario indagare, per conoscerne origine e significato, nella speranza (che temo in questo caso resterà vana) di trovare una cura. Ho ripensato alla mia giovinezza e agli anni in cui Sanremo poteva sembrare ancora una kermesse di musica. Che cosa mi spingeva a disinteressarmene totalmente, sbirciando al massimo dalla finestra o meglio ancora a giochi fatti se c’era qualcosa di interessante? Ma come, mi sono detto in questi giorni, quando c’erano quelli bravi, quelli che magari potevano anche piacerti, non lo guardavi e ora che ci sono questi qua, lo guardi, biascicando in pigiama sulle porcherie che ascolti? La risposta va da sé: ero giovane e Sanremo, allora, era una roba per vecchi. E se ci capitava dentro qualcuno bravo, in nome della violenta e severissima categorizzazione morale dei giovani, doveva essere bandito e bollato come un venduto, fiancheggiatore della borghesia salottiera delle canzonette. Certo, già allora pensavo che ci fossero state delle memorabili eccezioni. Senza dover ricordare il povero, grande, Tenco, però già allora credevo per esempio che il Vasco di “Vado al massimo” e di “Vita spericolata” fosse una specie di apparizione divina, su quel palco. Un miracolo, una maglia rotta che permette l’intrusione della bellezza, di una commovente verità. Ancora meglio di quello che fece, poco prima, Rino Gaetano. Ma a parte quello, poco altro. Perché Sanremo era un salotto, appunto, e le brave famiglie italiane, se trovano una crepa la riparano, e la sporcizia la mettono sotto il tappeto. Polvere alla polvere. Poi però, a quanto pare, è successo qualcosa. A Sanremo sono arrivati i giovani. Anzi, peggio (perché i giovani a Sanremo c’erano pure prima ma come categoria, sempre borghese e sempre etichettata secondo i criteri richiesti): i vecchi hanno creduto di voler restare giovani. Senza più etichette, senza più quelle ridicole convenzioni, senza più regole e compromessi. Peter pan che fa tana libera tutti. Del resto, chi ha gestito Sanremo negli ultimi anni? Amedeo Umberto Rita Sebastiani, in arte Amadeus, per gli amici (cioè tutti, perché siamo tutti dei grandi amiconi) “Ama”. Uno cresciuto nei disimpegnati anni ’80, quelli della Milano da bere, alla scuola di Claudio Cecchetto, quello del gioca joeur, assieme a Fiorello, Jovanotti (quando ancora non era un guru e cantava Gimme five) e tanti altri. Un ragazzo simpatico, un ragazzo di 60 anni. E con lui, un altro eterno ragazzo, quel Gianluigi Morandi detto Gianni, che di anni ne ha 78 ma che oramai ha deciso di voler essere il nonno che tutti i giovani vorrebbero avere e che purtroppo molti di loro hanno. Uno tutto social e attività fisica. Intendiamoci, lui a me è simpatico davvero, tanto che a differenza dell’esimio direttore artistico, mi è persino sembrato che durante questo festival sia stato un po’ a disagio pure lui. Con la faccia di chi, dopo più di un’esibizione aveva voglia di dire ma che roba era questa, sócc’mel. Lo si notava soprattutto nel modo col quale accoglieva quelli più simili a lui, i Paoli, i Ranieri, gli Al Bano. Quelli che sapevano ancora cosa fosse una cavolo di canzone, un pentagramma, una melodia, un accordo, un’intonazione. Se li sbaciucchiava, li guardava con pietà e commozione, chiedendone in cambio la stessa sorte. Come dei reduci in incognito. Stando bene attento a non dare troppo dell’occhio. Per non tradire la fiducia dei nuovi padroni. Quei vecchi giovani che “Ama” invece così beatamente incarna. Ecco, a me il Festival è sembrato innanzitutto questo. Eppure il fastidio andava indagato più a fondo, perché ammesso che questa fosse l’origine, non mi sembrava la causa di tutti i mali. E allora mi sono concentrato su qualcun altro. O meglio qualcos’altro. Sulla coppia Ferragni-Fedez, i Ferragnez, mi dicono vadano chiamati così. I veri signori oscuri del Festival e del loro significato sociale, con la e, non social. Ho scritto “qualcosa” perché per me questo è. Perché Chiara Ferragni, di cui il marito altro non è che una prolungamento (che sconfitta per il femminismo pensare che questa sia una vittoria), non sa fare granché. Non ha nulla da dire ma ha capito come si fa a dirlo. I suoi spazi non se li è conquistati, se li è comprati. E del suo nulla, con la complicità dei vecchi/giovani/scemi figli del disimpegno, ne ha fatto sistema. Ne ha fatto carne, disegnata su un vestito costoso, venduto a caro prezzo. Si, ci siamo, il mio disagio nasce da qua. La sensazione era quella di stare nel nulla. In un deserto senza confini. Oppure no, era altro ancora. Di più profondo. Perché la ragazza dagli occhioni blu e dal corpo perfettamente a norma, come il suo illustre compare, mi sono apparsi per tutto il tempo lucidissimi, perfettamente vigili rispetto a un copione personale, evidentemente studiato a tavolino, da quegli abili esperti di marketing che sono. Angosciante rivelazione: il nulla di questo Sanremo aveva un significato, terribile ai miei occhi. Il loro scopo era un altro, persino più grave di quello che essi stessi credono, cioè di vendere un prodotto. Ci aveva, già provato, a pensarci bene, un’altra coppia, con forse gli stessi intenti ma con diverse capacità. I signori Costanzo-De Filippi, con anche qui la donna che prevale sull’uomo. A loro è mancato quello che questi hanno, la reale padronanza dei mezzi, da Instagram ad Amazon: la comunicazione che si fa mercato. I Ferragnez invece sono una macchina da guerra del capitalismo sfrenato. Tant’è che il loro variegato apparato di finto impegno sociale, è totalmente sprovvisto di un aspetto. Gli interessano le lotte degli omosessuali, delle donne, dei bambini, dei disabili (sempre meno in realtà, perché forse quelli ci stanno tornando a fare un po’ schifo, infatti non se ne è avuta traccia in questo Sanremo). Chissà perché però, la loro ipertrofica coscienza non si è mai occupata di chi è povero e di conseguenza, di chi è ricco. Chissà perché. E allora ho capito o presumo di averlo fatto. Già, mi sono chiesto, chissà perché ai tempi del Sanremo dei vecchi, esisteva ancora una censura forte, sotto la cui mannaia sono passati in molti, da Grillo a Benigni (non quello pacificato e buonista di oggi, quello di prima che assaporasse il sapore della gloria americana) passando per Troisi e tanti altri. Che fine hanno fatto quei cari censori borghesi che scandagliavano copioni e testi, con minuziosa cura e generosa voglia di proibire, per non offendere il potere costituito? Possibile che siamo diventati così civili e moderni? No, cari che siete riusciti ad arrivare a questo punto dei miei ragionamenti, non fatevi belli della vostra modernità. Non siamo cambiati noi, è semplicemente cambiato il potere. Perché il nulla che ci è stato scagliato addosso in questa settimana, così lordo di significati etici, così inzuppato di sessualità liberata, di giovani manichini tatuati, di bambocci con l’aria da cattivi e i nomi in codice, senza identità, di baci omosessuali, di culi mostrati in prima serata, di musiche (come il rock, vero dolcì Maneskin? e il rap) nate per essere ribelli e contro, oramai non fanno più paura a nessuno. Sono totalmente innocui. Non fanno scandalo. Anzi, sono approvati dal marchio. L’importante è che servano a vendere. L’importante, è fare soldi. Siamo fluidi, amici cari, come l’acqua. E come acqua scivoliamo via. E nel frattempo, Chiara Ferragni piange (anche un po’ male, a dirla tutta, perché non sa fare neanche l’attrice) su quanto è stata brava nella sua travagliatissima vita. E quelle lacrime, poi, se le vende su Amazon, mentre il marito, a comando, slinguazza un ragazzo in primo piano, non dimenticando mai di farlo a favore anche di chi, quello seduto accanto, lo spara in diretta sui social. Si, alla fine credo sia proprio così. Il nuovo potere ha quelle facce là e non è certo meno cinico e spietato di quelli di prima. La gabbia si è tramutata in uno spazio libero, un enorme deserto dove in fondo puoi fare il cazzo che ti pare, perché tanto non fa paura, non preoccupa. Anzi, in qualche modo serve. Siamo fluidi, amici cari e come tali ungiamo ancora meglio gli ingranaggi. Ci dicono di essere liberi, in realtà ci intrappolano nella scatoletta del consumo, lo chiamano progresso ma è solo una nuova forma di intorpidimento, per renderci schiavi. L’ideologia del sociale funziona, è un buon modo per promuovere se stessi o meglio il proprio marchio. Perché di questo parliamo, di abili squali nel mare del mercato. Un mare placido, senza nemmeno una burrasca, dove annaspiamo allegramente, senza memoria, senza identità, personale e collettiva. Un mare apatico, torbido, tendenzialmente depresso, di una “pace terrificante”, avrebbe cantato uno che a Sanremo non era mai voluto andare. L’ho scritto all’inizio, ammesso che il male sia davvero questo, non saprei proprio trovare una cura. Io per me, tornerò al rifiuto preventivo, per quanto mi sia possibile, dei mass media vecchi e nuovi, per cercare almeno di arginarlo, il male, di sviluppare anticorpi per uscire indenne anche dal prossimo attacco. Ho una speranza ma me la riservo per pudore, per ora mi va già grossa pensare di essere ancora in grado di tornare a spegnere la televisione. Forse il nulla ha un punto debole, ogni sistema di potere ce l’ha. E questo forse è nella sua naturale e violenta fragilità, contro la cui invadente voglia di apparire non può che esserci l’indifferenza. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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