Continua il viaggio attraverso i sensi. Ottava tappa. Oggi tocchiamo con mano la Nascita di Venere per vedere oltre l’uso convenzionale dei sensi tra sinestesia e opera d’arte: l’analisi testuale.
Soggetto iconografico
Il soggetto iconografico è l’allegoria della Nascita di Venere, tradizionalmente rappresentata come emergente dalla spuma del mare. Nella versione botticelliana Venere acquista anche altri significati, che vanno ben oltre il mito e la tipizzazione della Dea. Qui Venere rappresenta non solo l’unione delle due nature, celeste e terrestre, della deità, ma anche l’ideale rinascita delle umane lettere, rinascita celebrata dagli umanisti, artisti e intellettuali del XV secolo, in quanto risveglio del mito, in accordo armonico con il Neoplatonismo, corrente filosofica volta al recupero e alla rilettura cristianizzata e gnostica della classicità. Venere nascente dalla spuma, sostenuta dalla conchiglia e sospinta dal vento fecondatore di Zefiro, approda a riva dove l’attende la ninfa Ora, nell’atto di porgerle il mantello.
La lettura[1]
Dalla breve descrizione iconografica si coglie già la relazione che interessa i soggetti ospitati nella composizione botticelliana.
Venere è posta al centro della scena, e rappresenta il principio sacro e umano dell’amore divino e terreno, della purezza dell’anima, del principio della rinascita. Alla sua destra, si scorge il gruppo costituito da Zefiro e Clori. Zefiro è l’immagine del vento fecondatore, da cui ha origine la vita fisica e quindi l’incarnazione dello spirito, Clori rappresenta il principio fisico dell’atto amoroso e per questo viene ritratta abbracciata a Zefiro, ad alludere all’unione.
Venere ignuda, ritratta nell’atto pudico di coprire il seno con la mano destra e il pube con i lunghissimi capelli raccolti nella ciocca folta, sostenuta dalla mano sinistra, ha il capo lievemente reclinato alla sua destra. Il corpo, longilineo e sinuoso, si svolge lungo una linea a tratti
leggermente arcuata. Muovendo dalle fattezze del volto, incorniciato da lunghi, ondulati capelli, si percepisce la regolarità dell’ovale, l’ideale estetico che fissa il canone di bellezza e proporzione rinascimentale, la dolcezza lievemente velata da una sottile malinconia nell’espressione del volto e dello sguardo, il taglio allungato degli occhi a mandorla e quello arcuato delle sopracciglia, infine la sensualità impercettibilmente espressa nella pienezza delle labbra della Dea.
Sul capo, i capelli divisi dalla scriminatura scendono sulle spalle e sul corpo in due bande laterali, formando a destra una folta ciocca arrotolata su se stessa, a sinistra piccole ciocche mosse dalla brezza, sulla nuca la chioma foltissima, raccolta da lacci in prossimità della spalla sinistra ribassata. Le spalle di Venere sono inclinate e da esse, senza soluzione di continuità, dipartono le braccia tornite della Dea, eleganti e disposte rispettivamente: il braccio destro con avambraccio aderente al dorso, e braccio sollevato con mano posta sul seno, il braccio sinistro, leggermente discostato rispetto al corpo, con mano posta a sostenere la ciocca di capelli che copre il pube. Nella postura assunta in equilibrio, quasi in sospensione, nonostante i piedi poggino sulla valva della conchiglia, Venere presenta la gamba destra leggermente arretrata, dal ginocchio alla caviglia, rispetto alla gamba sinistra, anch’essa inclinata a suggerire un accenno di movimento.
L’emblematica figura femminile, che ancora risente della teoria delle proporzioni di matrice gotica, è dispensatrice di vita poiché dea dell’amore. Venere, simbolo di fecondità e presenza panteistica, richiama all’idea della rinascita, della rigenerazione e del risveglio della vita. Il corpo, quasi privato di peso specifico e allungato a fiamma, non è tuttavia privo di una fisicità che permea la figura, conferendo alle forme sinuose e alle membra elegantemente affusolate, un sensualismo composto e al tempo stesso eloquente. L’atteggiamento stesso di Venere, nella posa della “Venus Pudica” esprime la duplice natura dell’amore, sensuale e casto, di cui i ministri della dea rappresentano, separatamente, aspetti diversi e complementari.
Venere nasce, come accennato, dal soffio della passione, rappresentato dalla coppia di amanti costituita dagli Zefiri. Il gruppo composto da Zefiro e Clori si pone, sullo sfondo, in posizione sospesa, ovvero in volo. Zefiro è colto, nel volto e nel corpo di tre quarti: il busto, in lieve torsione, è percepibile nella sua bellezza virile e in parte occulta il corpo di Clori, di cui si scorge il volto, ritratto di tre quarti, il busto, la spalla e il seno, rappresentati anch’essi in lieve torsione opposta alla direzione dello sguardo della Ninfa che è rivolto verso il centro della composizione. La posizione assunta da Clori è complessa, il braccio sinistro avvolge il busto di Zefiro e la mano si lega con quella del braccio destro, non leggibile poiché retrostante il dorso del Dio. Scivolando con le mani lungo i contorni delle braccia di Clori si incontra, sporgente rispetto al ventre di Zefiro, la gamba destra della dea, sollevata e aderente alle gambe del Dio, questa postura è elemento sensuale, non lascivo, con cui Botticelli esprime l’idea neoplatonica dell’amore umano e divino, della conoscenza terrena e celeste, della vita naturale e ideale. Scendendo ancora lungo la diagonale formata dalla posizione della gamba destra di Clori, e di seguito della gamba sinistra, arretrata e sospesa nell’aria insieme alle membra di Zefiro, si può capire come il gruppo, nel suo insieme, costituisca una diagonale che gli amanti tracciano dall’alto, in prossimità del centro della composizione, al basso, in direzione del margine sinistro, rispetto all’osservatore, della composizione stessa.
Tornando sui corpi delle due figure, è possibile cogliere la presenza di due manti, l’uno avvolgente il corpo di Clori, di colore verde bruno, allacciato sulla spalla; l’altro, che avvolge parte del corpo di Zefiro ed è di colore azzurro, allacciato sul collo e gonfiato dal vento costituisce un viluppo il cui esito formale conduce all’individuazione di tre forme rotondeggianti e circolari allusive ad archi. Un primo arco formato dal manto si legge sopra la spalla di Zefiro, e a questo, appena sotto, segue la sua continuazione con avvolgimento della veste sul braccio destro, sospinta verso l’alto; un terzo andamento mosso del manto è costituito dalla continuità del mantello che copre pube e fianchi di Zefiro, proseguendo nella lunghezza fino a oltrepassare la mano aperta e vista di profilo della deità.
Risalendo la struttura, e toccando le ali, si percepisce la forma ad arco delle stesse, la giuntura con il corpo non è visibile sulla schiena ma è intuibile. Le ali, quasi membranacee, hanno una consistenza solida, il loro colore vira dal bruno al verde, con tracce di luce sul piumaggio. I capelli bruni di Zefiro e biondi di Clori, diventano un’unica cosa con le ali. L’incarnato di Clori è eburneo, quello di Zefiro ambrato; il gruppo sembra nuotare nell’aria, poiché il movimento delle gambe e dei piedi rimanda sia alla sospensione nell’atmosfera, sia al galleggiamento.
Spostandoci alla sinistra di Venere, troviamo la ninfa Ora, divinità preposta all’ordine della natura nell’alternanza delle stagioni, il cui volto, ritratto di profilo, ha un’espressione composta e una fisionomia aristocratica. Fronte alta, archi sopraccigliari allungati, naso sottile e regolare, labbra minute e delicate, tutto riconduce all’idea di una bellezza rinascimentale che si avvale dei modelli classici di armonia tra ideale e naturale. Il corpo di Ora è rappresentato di tre quarti, il braccio destro teso e sollevato, nella mano destra un lembo del manto fiorato destinato a coprire la nudità di Venere, il braccio sinistro abbassato, nell’atto di formare un angolo a novanta gradi, nella mano sinistra un altro lembo di manto.
Ora si accinge a proteggere la nudità di Venere e sembra poggiare con i piedi, lievemente, sulla riva del mare, in quella lingua di terra le cui insenature inducono alla percezione dello spazio prospettico, fino a raggiungere la linea d’orizzonte. Uno spazio la cui profondità non sarebbe immediatamente avvertibile, se non fosse appunto, per quel lembo di terra che, a sinistra della dea, ospita il bosco, e l’infittirsi delle insenature di cui è costituita la riva alla quale l’acqua marina giunge, per lambire delicatamente le sponde, con piccole onde e lievi increspature della superficie.
Nell’aria tersa volteggiano i fiori, colti in sospensione, prima che si depositino sulla superficie dell’acqua. Ora si staglia sullo sfondo del bosco con profili netti: il volto rivela una linea armoniosa che procede lungo la traccia che definisce i profili del mento e del collo, il corpo è tipicamente rinascimentale, addolcito dalle rotondità femminili e longilineo secondo i principi estetici di ascendenza tardogotica. Ora, nel porgere il manto a Venere, coniuga la dimensione naturale e celeste della dea, insieme al duplice volto carnale e casto, dell’amore.
Tutto riconduce al principio neoplatonico per cui la nudità di Venere, non è tanto pagana esaltazione della bellezza muliebre, quanto affermazione della beltà disadorna, della semplicità e purezza dell’anima. Tra i significati impliciti di Venere compare anche la corrispondenza tra mito pagano della nascita della dea dall’acqua del mare e quello cristiano della nascita dell’anima dall’acqua del battesimo. Vita insufflata dagli Zefiri e vestizione offerta da Ora, altro non sono che personificazioni dei principi di fisicità e spiritualità, poli al centro dei quali Venere si pone quale emblema dell’equilibrio tra opposti. Nell’unione dei contrari rappresentato dalla dea, si celebra pertanto l’essenziale complementarità, nella vita e nell’amore, di esperienza e trascendenza del mondano[2].
[1] Ogni opera viene proposta con un livello d’analisi adeguato all’utente: basso, medio, alto. Questa presentata qui è l’analisi a livello alto ed è il testo che si può leggere in braille. www.cavazza.it [2] L’interpretazione del dipinto è, ancora oggi, fonte di studi. La lettura qui proposta segue gli studi classici di studiosi, tra cui Warburg, Gombrich, Argan.
per le immagini: © Paola Maccioni | L'Altro