È facile a posteriori guardare il Sacre du Printemps di Vaslav Nižinskij con distacco. Siamo ormai abituati alla danza contemporanea, alle sue movenze fluide interrotte da improvvisi scatti articolari; e siamo altrettanto consci di tanta riflessione a supporto di ciò che poi viene esposto al pubblico. Le avanguardie, nei primi del Novecento, hanno iniziato gli artisti ad una pratica di sottile e profonda riflessione riguardo il proprio lavoro. Se prima, ad esempio, la pittura poteva considerarsi un’arte nel senso medievale del termine, con l’inizio del nuovo secolo – dai cui traumi e spaccature non siamo ancora riusciti a cavare più di un senso di spaesamento e frammentazione – prima di prendere in mano il pennello, l’artista rifletteva ampiamente riguardo ciò che voleva tirare fuori, e come voleva tirarlo fuori. Non intendo dilungarmi in una divagazione sull’importanza delle rivoluzioni artistiche e culturali di quegli anni; d’altronde, penne ben più autorevoli della mia hanno versato abbastanza parole riguardo quel clima di sperimentazione, sete e desiderio di spostare sopra il sotto – tanti saluti, Gertrude Stein.
Dicevo, dunque, che è facile guardare quelle opere al giorno d’oggi. Ma quando venne messo in scena il Sacre il 29 maggio 1913, il pubblico era abituato ad andare a vedere balletti di perfezione formale ed estetica senza paragoni. Ballerine eteree e solide si alzavano sulle punte come divinità minori, la muscolatura tesa all’inverosimile sforzo di sembrare leggere come una piuma. Raccontavano una storia, erano protagoniste di amori, tradimenti e passioni perfettamente intelligibili, e anche quando si lasciavano andare agli istinti più sfrenati (si pensi a come Giselle si lasci morire danzando fino allo sfinimento), lo facevano sempre secondo una grazia supportata da uno studio accademico plurisecolare.
Quando i Ballets Russes misero in scena il Sacre, la gente urlò dalla sala “Chiamate un dentista!”, per via della posizione della mano dei danzatori che sorreggeva il capo piegato. La musica di Stravinskij faceva ribollire il sangue nelle vene, e addirittura lo stesso compositore dovette trattenere il coreografo Vaslav Nižinskij per la giacca per evitare che si lanciasse sul palcoscenico insieme ai ballerini.
Basta provare ad ascoltarla una volta per capire che quella è musica che prende la bocca dello stomaco.
Nikolaj Konstantinovič Reric voleva riportare alla luce le radici folkloriche della Russia pagana. Tra le luci e le vetrate istoriate della belle époque si sentiva la necessità di portare indietro l’orologio, di moltissimo, prima ancora della concezione stessa di tempo. Questo gruppo di artisti rivoluzionari volle cercare di tracciare i contorni di quel sentimento atavico e primordiale che spesso pensiamo di aver dimenticato, o peggio, annichilito. Quanti danni ha fatto l’Illuminismo, quanti danni ha fatto questo sforzo razionalizzatore di portare tutto a uno schema ben preciso e riproducibile.
Sacre du Printemps di Vaslav Nižinskij: non un semplice scandalo ma energia pura
La sera della prima il pubblico reagì con schiamazzi disgustati e colmi d’ingiuria, credo, perché fu toccato nel vivo. Non penso si possa sempre ricondurre tutto alla disabitudine a certi nuovi schemi, alla novità, all’antitesi con le estetiche tradizionali; in alcuni casi la reazione è tutta di pancia perché di pancia è il sentimento che viene plasmato dall’artista. D’altronde, non possiamo pensare che lo spettacolo si faccia per il pubblico, o che si faccia solo per l’artista. No, ci vuole un rapporto biunivoco: come una rete d’Indra, è necessario che lo spettacolo sia positivamente carico perché il pubblico assorba quell’energia, quel mana, e lo rifletta di nuovo al mandante. Così si splende di vera luce. E allo stesso modo, siccome il Sacre porta in scena il cuore del sentimento selvaggio di celebrazione della natura, del ritorno del Sole e della primavera, un sacrificio che però in quanto sacro non è possibile connotarlo moralmente, così il pubblico rispose, di getto, dai nervi, dalla profondità delle proprie cellule, da quello spazio di vuoto in cui si muovono le particelle che in seguito i fisici dichiareranno essere l’essenza della materia stessa. Se è vero che siamo tutti fatti di vuoto, è chiaro che ci sono persone che più di altre hanno bisogno di trovare nuovi modi per riempirsi.
Energia, dunque. Energia pura e impossibile da quantificare, misurare o persino solo concepire completamente. Va solo sentita.
La sacra incomunicabilità come accesso alla mistica, all’estasi, al vero più vero. Il gesto oltre le parole
Nižinskij aveva perfettamente chiaro che il sentire fosse la cosa più importante, ma come i grandi saggi, i folli in Cristo, i pazzi shakespeariani, non aveva le parole giuste per esprimerlo agli altri.
Fritjof Capra scrive che alla base del misticismo orientale sta proprio l’impossibilità di trovare le parole per spiegare l’esperienza spirituale; infatti, i mistici buddhisti, zen e induisti stanno molto meglio di noialtri occidentali.
C’è un filo rosso lungo come tante vite giustapposte le une alle altre che unisce le grandi rivelazioni artistiche con quell’energia di cui sopra. Potete chiamarlo come vi pare. Ed è collegato a quella stessa necessità di trovare le parole per mostrarlo agli altri, e quando le parole non bastano si passa al gesto, alla voce, alla pittura.
La fisica stessa ci insegna che la vita è una serie di paradossi. Se conosciamo la posizione di un elettrone non possiamo conoscere la velocità a cui si muove. Il gatto è sia vivo che morto nella scatola. L’artista fa arte per sé stesso, come se nessuno lo guardasse, ma ha bisogno di un pubblico perché ciò che fa compia il proprio ciclo. Dobbiamo imparare a stare bene da soli per imparare a star bene con gli altri. L’acqua inizia a bollire quando smetti di fissarla.
Forse Nižinskij tutto questo, insieme a tanti altri, lo aveva già capito. Ma il suo epilogo è drammatico e spezza il cuore.
Vaslav Nižinskij e la presunta malattia mentale: nella scatola del manicomio siamo sia vivi che morti
Venne chiuso in un istituto di igiene mentale, e la voglia di ballare si ritirò dentro di lui come la bassa marea. Serhij Mychajlovyč Lyfar, suo indiscusso ammiratore, volle tentare a tutti i costi di riaccendere quella miccia che da giovane aveva fatto saltare il giovane Vaslav in alto, sempre più in alto, fino a guadagnarsi il titolo di nuovo Vestris: un giorno si presentò da lui e si accordò con il direttore dell’ospedale per provare a fargli una lezione di danza. Si sistemò alla sbarra, davanti a Nižinskij, che se ne stava seduto immobile, apparentemente spento. Iniziò i suoi esercizi.
Era lì lì per arrendersi, ma ecco che Nižinskij scattò in alto, sul punto di saltare di nuovo, tutti i suoi muscoli tesi allo sforzo di raggiungere l’irraggiungibile. Ma poi, come scrive Sergio Trombetta, fu come se una mano si fosse posata sulla sua spalla e lo avesse forzatamente rimesso a sedere.
Scrisse tanto, Nižinskij, scrisse parole scomode e a tratti incomprensibili, incatenate le une alle altre e refrattarie a qualsiasi regola sintattica. Fu censurato e additato come pazzo dalla sua stessa moglie.
Ma la sua figura è saltata fuori dai libri, dalle lezioni di storia della danza e dalle coreografie, anche se il suo corpo aveva smesso di muoversi da un po’.
Cosa ci resta degli artisti quando anche loro abbandonano sé stessi?
Immagino sia solo uno dei tanti casi in cui dobbiamo semplicemente testimoniare certi picchi di grandezza senza sapere cosa farci. Freud, Jung, medici illustri cercarono di diagnosticare Nižinskij o di assolverlo dalle accuse di infermità mentale; ma a che pro? Avrebbe cambiato la percezione che la storia ha avuto di lui, se fosse stato ritenuto sano di mente? Avremmo una diversa percezione delle sue opere? La sua sessualità spiccata e al contempo introversa avrebbe avuto una valenza diversa, migliore, peggiore?
Anche questa volta, ha vinto l’Illuminismo.
In ultima istanza, chiedo scusa a Peter Ostwald per aver preso in prestito il titolo della sua notevole biografia: Vaslav Nižinskij, A Leap into Madness.
Spero voglia perdonarmi.