la cecità tra arte e sinestesia

La cecità. La parola una porta comune, da aprire però con i propri sensi. Arte e sinestesia #3.

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Continua il viaggio nell’arte e nell’esperienza sensoriale con la guida di Paola Maccioni. Dopo il primo e il secondo appuntamento, oggi affrontiamo la cecità tra arte e sinestesia, a cui si aggiunge l’uso della parola, del racconto sapiente, come porta comune tra vedenti e ciechi, ma che bisogna attraversare facendone propria l’esperienza.

L’essenziale è invisibile agli occhi.

Antoine de Saint-Exupéry

La cecità è stata sempre considerata una delle più grandi disgrazie che possano colpire un essere umano. Disgrazia mitigata appena dall’attribuzione di un quasi magico sesto senso, una sorta di tramite tra presente e futuro, tra umanità e divinità, prerogativa di anime superiori.

Il grande aedo Omero era cieco e questo attributo ha sempre accompagnato il suo nome come garanzia della eccezionalità delle sue opere. Attribuendole a un cieco, probabilmente, si è voluta attribuire loro una purezza sensoriale assoluta. Una narrazione non viziata dalla fallacia della vista che si lascia incantare da ciò che appare, non potendosi rendere conto della verità di ciò che vede: il “toccare con mano” di Tommaso[1].

La cecità nella civiltà delle immagini

Oggi, in questa che è stata definita civiltà delle immagini, si è creata una sorta di cecità psicologica per cui il senso del piacere edonistico e di quello estetico hanno perso qualsiasi valore, così come sembra perso ogni senso metafisico e religioso della rappresentazione della realtà.

Non interessa più dubitare di ciò che si vede, la velocità di fruizione rende ogni immagine “usa e getta”, un vuoto simulacro virtuale. Nonostante questa situazione, contro cui non sembra più esserci difesa se non rifugiandosi, appunto, nei musei o nei libri, è cresciuta l’attenzione al diritto all’immagine verso chi non può vedere o ha altre disabilità.

In Italia sono circa un milione le persone con disabilità visiva, di cui circa duecentocinquantamila con cecità assoluta o assimilabile[2] e le altre ipovedenti. Il sessanta per cento di questi ultimi è costituito da ultrasessantenni.

Fino a qualche decennio fa, e non solo in Italia, tutte le associazioni dei ciechi hanno avuto problemi più urgenti e vitali da affrontare che non la fruizione dell’arte. O meglio l’unica arte che veniva considerata accessibile era la musica e la signorina de Salignac, di cui parla Diderot, non era, e non è, un’eccezione nel panorama artistico musicale dei non vedenti[3]. Già dal 1921, quando l’educazione dei ciechi divenne obbligatoria, le scuole speciali dedicarono la massima attenzione nei loro programmi all’educazione sensoriale e alla lettura delle immagini. Oggi le condizioni socioeconomiche dei non vedenti e la sensibilità comune sono notevolmente migliorate, permettendo una maggior cura della qualità della vita e del ben-essere della persona.

È importante precisare che i disabili della vista non appartengono tutti a una stessa categoria omogenea, ma si dividono in 3 grandi gruppi a seconda della patologia: non vedenti congeniti, acquisiti e ipovedenti. All’interno di queste macrocategorie è importante e significativo tenere presente l’insorgenza della minorazione, la sua causa e gravità, la qualità e la quantità delle esperienze personali, il livello culturale e la sensibilità del soggetto, l’atteggiamento dei familiari nei confronti della disabilità, le reazioni del contesto sociale di appartenenza e altro ancora. Per quello che riguarda i rapporti tra vedenti e ciechi è importantissimo cercare di non negare le differenze e le difficoltà che esistono nella quotidianità a tutti i livelli e non voler a tutti i costi imporre una rappresentazione del mondo legata alla visione come unica rappresentazione possibile, solo perché non si è capaci di uscire da una realtà che ruota intorno alla vista.

Il dialogo tra i filosofi Magee e Milligan

È interessante il dialogo epistolare tra due filosofi contemporanei, Bryan Magee e Martin Milligan cui la cecità congenita non ha impedito di dirigere il dipartimento di filosofia all’università di Leeds. Scrive Magee, per sostenere la tesi delle diverse opportunità e delle grandi differenze esistenti tra ciechi e vedenti:

Che idea ti puoi fare di un dipinto e, ancor più importante, della bellezza nelle arti figurative? E che concezione puoi avere della bellezza naturale?[4]

Prosegue con la descrizione del lago Nakaru, visto in Kenya e quindi continua:

Era talmente bello che mi è venuta la pelle d’oca su tutto il corpo, e me ne ricorderò finché vivo. Mi chiedo, che idea ti puoi fare tu di questa esperienza?[5]

Milligan risponde che sono certamente innumerevoli le cose che i ciechi perdono nei confronti dei vedenti. Non solo molte abilità pratiche per far fronte al mondo delle cose e un’enorme quantità d’informazioni interessanti e utili, ma anche un’intera gamma di esperienze ritenute intensamente piacevoli e che possono essere apprese solo tramite la descrizione verbale e continua:

La tua lettera, specialmente nella descrizione del lago Nakaru, dà un’idea molto più viva del tipo d’esperienza che si perde […] Per chi ha esperienze di questo tipo non ci sono parole capaci di esprimere adeguatamente il contenuto, l’impatto e il valore. Posso con tutta sincerità condividere tale affermazione (anche se non ho mai avuto queste esperienze visive) perché ho avuto [in corsivo nel testo] esperienze non visive il cui contenuto, il cui impatto, il cui valore sento che non possono essere adeguatamente espressi dalle parole. …] Sono d’accordo con te, quindi, che sebbene i ciechi possano comprendere le descrizioni di esperienze visive ritenute di gran valore, quelle descrizioni, pur essendo qualche volta meglio di niente, non possono mai arrivare a compensare l’assenza dell’esperienza stessa.[6]

Cecità tra arte e sinestesia. La parola è una porta d’accesso comune a ciechi e vedenti da attraversare con i propri sensi

Il mondo dei non vedenti e quello dei vedenti, dunque, non sono diversi a livello emozionale e la comune porta d’accesso è la parola. Se non usata correttamente, però, può essere molto pericolosa e influenzare la percezione del non vedente. Se l’oratore non riesce a usare una terminologia il più possibile chiara e precisa, vuoi per ignoranza, malafede o eccesso di partecipazione emotiva, il messaggio descrittivo sarà improduttivo. La stessa cosa avverrebbe se il cieco si lasciasse prendere completamente dalla narrazione, trasformandola in surrogato della realtà, dimenticandosi della possibilità di verificarla utilizzando le sue capacità sensoriali vicarie della vista. In questi casi ci sarebbe un’assimilazione del più debole e non un’integrazione che diventa scambio arricchente per entrambi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

 

[1] Mi riferisco all’episodio dei vangeli sull’apparizione del Risorto agli apostoli e all’incredulità di Tommaso che affermò di essere disposto a credere solo se avesse potuto mettere la mano nella ferita del costato di Gesù. Gv 20,25

[2] Sono considerati ciechi assoluti anche coloro che, pur percependo luci ed ombre, non sono autonomi nella gestione della quotidianità.

[3] Diderot Denis (1999), Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono, La Nuova Italia, pp. 97-115

[4] Magee Bryan, Milligan Martin, (1997), Sulla cecità, Casa editrice Astrolabio, Roma, p. 37

[5] Ivi, p. 38

[6] Ivi, p. 45

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