Eutanasia come Umanesimo integrale. Cominciando con un estratto dal romanzo La casa della consolazione
Nessuna autonomia degli spostamenti e nel deambulare; la coppia dei massaggiatori, in piena onestà e contro i propri interessi, dichiarò che i muscoli non avevano più tono e che proseguire con i massaggi era inutile. Gli riusciva penoso anche venire a tavola e biascicava, perché gli si era ingrossata la lingua e occupava quasi tutto il palato. Giaceva continuamente a letto su un’incerata, presto ci sarebbe stato il problema delle piaghe da decubito. Mamma e il grande cominciarono a sentire possibili candidate come infermiere diurne e notturne: alla fine scelsero una robusta signora di un borgo del Salento.
Venne il dottor Cerulario per la sua visita settimanale. Mentre faceva le anamnesi di routine, papà gli fece cenno di avvicinarsi e gli parlò all’orecchio. Mamma, seduta nella stanza, tirò col naso, sfiorandolo appena col fazzoletto di cotone ben stirato. Il dottore ascoltò con attenzione, tutto ripiegato sul malato, e dopo qualche interminabile minuto fece un cenno di assenso con la grossa testa abbronzata. Curioso che nessuno avesse pensato a chiudere la porta affinché io non assistessi alla scena, come in tanti altri casi avevano fatto. Forse perché mio fratello in quel momento era assente.
Non ricordo quanto tempo dopo, non molto, mamma mi disse che avrei trascorso alcuni giorni da mia zia, sua sorella. La cosa mi suonò strana. Chiesi che avremmo fatto con la scuola. Lei rispose che sarei andato a scuola, mio cugino mi avrebbe ripreso e portato a casa sua. Fui portato dalla zia con libri e quaderni per fare i compiti. La zia, suo marito e mio cugino furono dolcissimi con me, in quei giorni. Basti dire che il giovane barone mi permise l’accesso alla collezione di fumetti Marvel di cui era gelosissimo, e conservava tutti in una grossa cassapanca. Ovviamente mi domandai la ragione di quella stranezza, ma non trovavo alcuna risposta. Forse papà era peggiorato, forse era necessario intervenire anche a notte alta e mamma temeva che non riposassi abbastanza. Mi tranquillizzavo dicendomi che, alla fine, anche quella crisi sarebbe passata come tutte quelle già attraversate.
Il terzo e quarto giorno non venni portato a scuola. Enigmaticamente, zia disse che sarebbero venuti i miei fratelli per parlarmi. Questo accadde verso le dieci. Arrivarono lui e nostra sorella (i loro nomi non li scriverò, inutile insistere), entrambi vestiti di nero dalla testa ai piedi. Il maggiore mi fece sedere sul lettino di fortuna in cui avevo dormito durante quelle notti e mi mise una mano sulla spalla, una mano calda che sembrava priva di forze. Ma io sapevo già cosa stava per dirmi. Tutto quell’apparato non si sarebbe messo in moto, se non fosse discesa su di noi l’indicibile potenza del fato.
Eutanasia tra provvedimenti di legge e presupposti filosofici. Un Umanesimo integrale possibile
I lettori perdoneranno l’ardire dell’autocitazione. Ma questa pagina mi sembra compendiare con sufficiente efficacia quanto abbiamo sentito dire, durante la presentazione (v. relativa recensione) dello scorso sabato, dall’archeologa Sandra Mazza in merito alla eutanasia e alla sua annosa e storica pratica: queste cose si sono sempre fatte. O per liberare un letto in ospedale, o un posto in un reparto di terapia intensiva, oppure in semplice risposta alla muta interrogazione del degente o al mormorio un po’ incoerente, a malapena comprensibile, di un suo parente con un lungo vissuto di assistenza alle spalle, la fatica e la resa di fronte ad una malattia che a volte sembra esitare ad avanzare, ma che di certo non arretra.
Da anni Marco Cappato con l’Associazione Luca Coscioni opera attivamente per mantenere vivo presso l’opinione pubblica italiana il tema di una legge sull’eutanasia. In coerenza con le storiche battaglie radicali per i diritti civili e con importanti successi come la Legge 898/1970 che introdusse il divorzio, e la 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza, conseguiti – importante ricordarlo – sempre da una posizione di forte minoranza, gli eredi del partito fondato dagli amici del Mondo e animato da Marco Pannella, Emma Bonino, Adele Faccio e Gianfranco Spadaccia hanno da tempo sposato la causa del fine-vita. Gutta cavat lapidem, la loro costante iniziativa minoritaria e dall’esterno del Parlamento ha già prodotto alcuni effetti: nell’encomiabile proposito di sollevare lo Stato dall’incombenza di far rispettare gli Artt. 579 e 580 del Codice penale, arrestando e rilasciando Cappato ogni volta che si autodenunciava per aver accompagnato vari aspiranti in Svizzera allo scopo di praticare il suicidio assistito, la sentenza 249/2019 della Corte Costituzionale ha stabilito che in Italia è possibile e non contrario alla legge il suicidio medicalmente assistito, ossia l’aiuto indiretto a morire da parte di un medico.
La l. n. 249/2019 (qui la Sentenza) benché non sia ancora una legge d’iniziativa parlamentare è pur sempre una fonte normativa. La moderatezza del giudice che ha il compito di salvaguardare la salute pubblica tempera l’impetuosità dell’iniziativa radicale, ma non ne spegne il fuoco animatore. La Corte, esaminando il contesto e rilevandone la estrema delicatezza, riconosce la congruità del quesito sollevato dal ricorrente e, in fatto e in diritto, che la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato (cit. comma 2 e segg.) e ritiene inoltre ingiustificata la punizione delle condotte di agevolazione dell’altrui suicidio (cit. comma 1.1) contro la tesi dell’Avvocatura dello Stato – parte avversa – che identifica l’aiuto al suicidio con l’istigazione al suicidio, per corroborare la ratio della punibilità di Cappato. A tale scopo viene richiamato un analogo pronunciamento della Corte Europea, la sentenza Pretty contro Regno Unito, del 29 aprile 2002.
Ridotta in termini più semplici la questione, si riconoscono come oggettivamente contrapposte due posizioni dai presupposti filosofici esattamente contrari: l’opinione comune ritratta nel Codice penale, e lo Stato che ne è il garante, considera su tutto preminente il diritto alla vita del cittadino anche prossimo alla fine; al contrario il ricorrente, e l’Associazione Luca Coscioni che rappresenta, afferma che preminente è il diritto alla scelta, qualora espressa con chiara consapevolezza e piena coscienza, da parte del morente. La Corte Costituzionale giudica fondata tale interpretazione e argomenta che, in prospettiva, anche la dottrina seguirà sul piano inclinato dei diritti individuali – irriducibili e universali dell’uomo in quanto tale – il percorso secondo cui avere piena libertà di decisione riguardo sé stessi sia più importante (e aggiungiamo noi, eticamente superiore) all’essere mantenuti in vita a qualunque costo, se necessario anche contro la propria volontà.
In questo fin troppo rapido esame del problema del fine-vita non devono sfuggire anche altri importanti risvolti della recente giurisprudenza costituzionale: se cioè la tesi che chiameremo pro life – espressione riferita in genere al capo opposto dell’esperienza individuale, ma del tutto simile nei presupposti, dal movimento anti-abortista che porta questo nome – e sostenuta dall’Avvocatura dello Stato in quanto parte avversa del ricorrente Cappato, non contenga un sottaciuto elemento etico-religioso essenzialmente estraneo al terreno giuridico, secondo il quale la vita ha valore intrinseco e indipendente dal vivente e dalla sua volontà; ossia la vita è un dono in cui è implicita la possibilità di soffrire, e in quanto dono divino e superiore non è in nessun caso lecito rifiutarla.
L’eutanasia tra dogmi e catechismi
Morale di derivazione religiosa indubbiamente, e cristiano-cattolica in particolare, dal momento che ricorda con evidenza l’antica proibizione di seppellire i suicidi in terra consacrata. È appena il caso di ricordare che anche l’applicazione di questo interdetto è stata storicamente molto variabile e contradditoria, dato che molti parroci hanno consentito il seppellimento dei suicidi, considerando il fatto di appartenere il terreno cimiteriale a zone remote, isolate o poco appariscenti delle diocesi.
È proprio questa interpretazione della casistica dell’accompagnamento al fine-vita, cioè il farlo in silenzio e al riparo da sguardi indiscreti come evocato dalle considerazioni di Sandra Mazza, che ha una più chiara matrice religiosa, e che in termini di diritti civili va contestato in radice in nome dei diritti civili, politici ed esistenziali della persona umana.
La proibizione della pratica dell’eutanasia è stata ribadita di recente (1988) dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (Istr. Donum vitae, Introductio, 5: AAS 80), e occupa non meno di cinque canoni del Catechismo della Chiesa Cattolica: il 2258 e dal 2276 al 2279. In particolare il 2277 recita:
Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile.
Allo stesso tempo, e perché il rigore dottrinale non finisca per costituire un limite al dovere teologale della Carità, il 2278 precisa:
L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’« accanimento terapeutico ». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire.
Come si può osservare, fatta salva la sacralità della vita che non è dogma ma discende da dogmi – essenzialmente da uno dei più recenti, cioè l’infallibilità papale proclamata nel 1870 – anche la Chiesa sembra esitare di fronte alla vastità delle questioni morali implicate dal fine-vita. Quel che però mi è impossibile accettare è la soluzione di comodo del girarsi dall’altra parte, il ricorso al “si fa ma non si dice”. Se la vita è sacra non può esserlo a intermittenza, o secondo convenienze del momento. Si nota tuttavia che la Chiesa, così come ogni cristiano, è al contempo limitata ed esaltata dall’infinitività della Misericordia; ed è questo a spingerla sul sentiero, sempre più stretto e irto di tranelli concettuali, di un nuovo disegno morale del fine-vita.
L’eutanasia come nuova forma di apostolato
Una strada per una futura revisione potrebbe essere il riconoscimento dell’inutilità delle sofferenze in presenza di una prognosi fatale e irreversibile: ampliando le possibilità di applicazione pratica di una risorsa teoricamente illimitata come la pietà divina, l’aiuto a morire potrebbe trasformarsi persino in una ulteriore forma di apostolato, una forma di predicazione del Vangelo rivolta in modo esclusivo a coloro che stanno per lasciare l’esistenza terrena e che sono da considerare privilegiati, dal punto di vista cristiano, poiché stanno per vedere “il Volto di Dio”. Non più quindi la prassi passivizzante dell’interruzione delle cure (ad eccezione della terapia del dolore), ma un intervento attivo per liberare il malato dalla schiavitù del dolore, che avvilisce l’anima non meno che il corpo, riportando fra l’altro nuove regioni dell’esperienza umana ad una manifestazione, la Carità, direttamente collegabile a quel Volto Sacro in quanto Virtù Teologale.
In subordine uno sviluppo in tal senso permetterebbe di chiudere il cerchio, ricongiungendo la visione religiosa della vita con quella laica, così appassionatamente propugnata dall’Associazione Luca Coscioni e da Marco Cappato.
Un criterio irrinunciabile affinché l’eutanasia sia scelta reale e non omicidio mascherato
In ultimo va sottolineato il requisito comune alle due visioni morali, ed essenziale perché l’accompagnamento al fine-vita sia pienamente una scelta e non un omicidio mascherato: l’adesione consapevole del malato alla procedura medica. In contingente assenza, o nell’impossibilità di questa a causa di un rapido deterioramento dello stato fisico generale, deve essere ammesso il testamento biologico e anche, vorrei aggiungere, l’espressione non-verbale della volontà del morente credibilmente riportata dal più prossimo dei suoi affetti intimi, di colui o colei che più lo abbia seguito e assistito nel decorso della malattia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA