Tarocchi disegnati da Salvador Dalì

I Tarocchi di Salvador Dalì: arcana sapienza

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L’edizione Taschen dei celebri Tarocchi disegnati da Salvador Dalì, o Tarot Universal Dalì, è stata condotta sullo schema della pubblicazione dell’antico stabilimento poligrafico catalano Naipes Comas del 1984. Questa azienda, con i titolari ormai in età avanzata, cedette i diritti nel 2010 a Cartamundi che è, ancora oggi, detentrice dei diritti. Trattandosi di un’opera capitale e veramente insolita, è stato forse inevitabile che la sua elaborazione e finale creazione si accompagnasse ad una tormentatissima vicenda di diritti, una di quelle purtroppo tipiche del Dalì in tarda età, nella quale la vastissima risonanza della sua opera – accompagnandosi a quotazioni letteralmente stratosferiche dei suoi lavori – richiamava l’attenzione di avventurieri e profittatori assai abili nel proporre e imporre al Maestro contratti insidiosi come tagliole.

Tarocchi disegnati da Salvador Dalì: storia dell’opera

Al principio degli anni Settanta, Dalì firmò un contratto per disegnare complessivamente 78 carte dei Tarocchi: 22 Arcani Maggiori e 56 Minori. Più in dettaglio, essendo abbastanza noti i simboli dei Maggiori di cui ci occuperemo più avanti, il restante mazzo dei Trionfi (l’altro nome con cui si designano i Tarocchi) è composto di 4 serie di 10 carte, dall’asso al dieci, rappresentanti i consueti segni di Bastoni, Coppe, Spade e Ori (o Denari), più 4 figure definite “Onori”, cioè Fante, Cavaliere, Regina e Re, per ogni seme.

Il contratto siglato da Dalì fu ceduto e ricomprato diverse volte, fino ad arrivare nelle mani di un equivoco editore newyorkese, il quale pretendeva dal pittore il compimento del lavoro commissionato. Dalì rallentò troppo la conclusione, e l’editore ebbe facile gioco nel querelarlo per inadempienza, ottenendo dal tribunale il congelamento di una forte somma sul suo conto bancario americano. Fra il 1976 e il ’77 si raggiunse un accordo stragiudiziale, in base al quale Dalì accettava di firmare ben 20.000 fogli di stampa, ossia 250 per ognuna delle carte del mazzo. Il segretario di Dalì, Enrique Sabater, prima che questo accordo si trasformasse in un massacro e in una dipendenza sine die del grande artista dal faccendiere, riuscì a strappare un addendum nel quale venivano riservati all’autore i diritti di sfruttamento dei disegni, una volta soddisfatta la pretesa dell’editore di pubblicare con firma originale il mazzo di Tarocchi, a tiratura limitata, per un ristretto pubblico di collezionisti di multipli.

L’immancabile autoritratto nella lama del Bagatto, ovvero il mago

La forma testuale è quella di un prezioso cofanetto foderato di raso, contenente le 78 carte disegnate da Dalì sigillate in un astuccio dorato, e un libro esplicativo bilingue, in italiano e spagnolo. Si tratta di un’opera destinata, di per sé, a suscitare ammirazione e meraviglia per l’incredibile dedizione con cui l’artista l’ha realizzata. Ciascuno degli Arcani Maggiori contiene, oltre alla progettazione grafica riconoscibilmente daliana, citazioni pittoriche tratte dalla storia dell’ arte. Dalì contaminava consapevolmente e non ne faceva mistero. Mistero che troviamo piuttosto nella innegabile forza delle rappresentazioni, dei simboli intensamente individualizzati, eppure aperti su significati universali che soltanto l’abilità e la sensibilità dell’interprete possono tradurre in oracoli.

Nell’Arcano I, ad esempio, tradizionalmente – ad esempio nei Tarocchi del Wirth – definito del Bagatto, sotto la voce Il Mago vediamo un autoritratto di Dalì. Nel numero V, Il Papa o Il Sommo Sacerdote, è citato un ritratto di Sant’Antonio Abate, dipinto fra il 1480 e il 1495 dal catalano Martìn Bernat. E’ appena da notare, mero sintomo delle inspiegabili capacità anticipatorie dell’artista di genio, che la cosiddetta corrente citazionista nella pittura contemporanea (Carlo Maria Mariani, Stefano di Stasio, Omar Galliani ecc.) ha iniziato ad affermarsi in ambito critico a partire dal 1984 dichiarando –  ad opera soprattutto dei critici di riferimento come Maurizio Calvesi ed Enrico Crispolti – il proprio debito neofigurativo nei confronti di Giorgio De Chirico, non a caso un pittore metafisico che era stato in gioventù, come d’altronde suo fratello Alberto Savinio,  a stretto contatto con il Surrealismo.

L’Imperatrice, ovvero ritratto di Gala, sua musa, amante, moglie

Uno degl’innumerevoli ritratti di Gala, amante prima poi moglie, dopo il divorzio da Paul Eluard, e sempre musa del pittore, è rintracciabile nell’ Arcano III, L’Imperatrice. Ha nella mano sinistra il globo crucigero, segno dell’universalità del potere imperiale. Ma l’”impero”, oltre che nozione storica, è anche segnalità metafisica, potere in atto che si esprime principalmente nella decisione e nell’amministrare giustizia, che nella società fra antichità e medioevo era esercitata esclusivamente dal re senza intermediari, senza una casta di giudici. La Papessa, o La Sacerdotessa, Arcano n. II, è un disegno d’invenzione dove tuttavia compaiono alcuni importanti simboli magici: lei appare coperta in ogni parte del corpo, ad eccezione delle mani e del volto; in questo senso è emblema di castità e continenza, compenetrata nel ruolo sacerdotale, inarrivabile e quasi dimentica della sua natura femminile.

Dalì pone ai suoi piedi la statua di un gatto, simbolo della dea egizia Bastet; la donna porta sul capo la falce di luna biforcuta, sotto il cui imperio sembra giacere: questo simbolo ricorre frequentemente nell’iconografia cristiana, come rappresentazione di Maria Vergine che poggia i piedi sulla falce di luna – a volte interpretata in chiave storica, come il trionfo cristiano sulla falce di luna musulmana, senza tenere conto che il simbolo lunare è stato attribuito dai cristiani all’Islam, il quale di per sé è iconoclasta e dunque rifugge dalle immagini, tanto naturalistiche quanto simboliche (Cardini).

Come mai Dalì si accinse ad un lavoro così vasto e impegnativo?

È necessario ribadirlo: l’opera in cui si impegnò il grande artista catalano, già oltre la sua maturità, era improba; lo fece, poi, sottoscrivendo un contratto che – considerando la vasta fama – venne ceduto e scambiato come fosse moneta sonante. Infine quel contratto fu usato contro di lui sostanzialmente come arma di ricatto. Non è facile comprendere come un pittore già enormemente famoso potesse sottomettersi a un simile giogo, se non per due ordini di ragioni: quella di un compenso stratosferico, cui certamente Dalì era e sempre fu sensibile – è noto l’anagramma che del suo nome fece il patriarca del surrealismo André Breton: “Avida Dollars”  (Salvador Dalì) – ma anche per una del tutto differente: l’attrazione dell’occultismo.

L’essenza del surrealismo come corrente (dal primo Manifesto surrealista del 1924 di pugno di Breton, al secondo del 1930) è l’irrazionale e il sogno, lo stesso serbatoio cui attinse Freud per fornire un campo sperimentale alla psicoanalisi, e al quale già dal secolo precedente aveva attinto la corrente dell’occultismo. Tuttavia il surrealismo mostra di avere finalità diverse: è, ad esempio, strettamente collegato alle pratiche artistiche e alla composizione, prevalentemente ma non esclusivamente, pittorica e letteraria. La differenza fondamentale fra surrealismo e psicoanalisi risiede nel fatto che mentre la psicoanalisi indaga sogni, umorismo, atti mancati e linguaggio per far emergere alla luce l’inconscio senza la mediazione della coscienza, i surrealisti danno all’inconscio la priorità assoluta. Gli atti “artistici” sono immediatamente tali se scavalcano e aboliscono la coscienza. A differenza del Dada, altra nota avanguardia di quegli anni, non si procede ad una distruzione e demistificazione dell’oggetto d’arte in chiave in ultima analisi nichilistica ma, al contrario, la tavolozza e in generale il materiale artistico viene conservato, esaltato e perfezionato come la “porta” attraverso cui l’oscuro, l’ambiguo e il folle potranno fare irruzione nella realtà ordinaria.

Da un lato, quindi, il surrealismo – a differenza di altre avanguardie storiche sempre a rischio di iconoclastia – poteva convenire e convenne anche a pittori di salda formazione accademica, e in fondo di vocazione classicistica e figurativa, come proprio il De Chirico. Quest’ultimo poi, volendosi distinguere dai surrealisti come Delvaux, Magritte o Max Ernst, escogitò la definizione di pittura metafisica, emendandola del tutto da contenuti ideologici e da un orientamento progressista o socialista, o addirittura filo-stalinista come nel caso dello scrittore Louis Aragon e del regista cinematografico Luis Buňuel. Possiamo dire – alla grossa – che De Chirico, in possesso com’era di grande padronanza della tecnica, si mostrò scettico verso le varie istanze di una pretesa missione “civile” dell’arte e preferì mettere in mostra tutte le qualità coloristiche e volumetriche della sua pittura, con un riferimento abbastanza indistinto al vuoto umano della scena rappresentata, che l’osservatore poteva ricondurre a qualcosa di surrealistico senza che il pittore se ne assumesse la responsabilità.

Pazzo furioso negli anni ’50, eccentrico un decennio dopo. Il Picasso di Destra tra mantica, profezie ed eccentricità

Dalì, invece, non conobbe nulla di simile alla quietudine per tutta la sua vita, combattendo formidabili battaglie contro i suoi fantasmi: primo e più importante dei quali l’idolatrata moglie Gala la quale fu, non per caso, assidua lettrice delle carte dei Tarocchi, quando nella Spagna già franchista erano stati proibiti. Il Dalì dell’epoca migliore, che probabilmente furono gli anni Quaranta e Cinquanta, non faceva mistero di essere, e non trovava sgradevole di essere considerato, un pazzo furioso: tutt’altro dalla rassicurante maschera di “eccentrico” che il bel mondo del decennio successivo ritenne di attribuirgli. È pur vero che non si ribellò a questo addomesticamento della sua personalità pubblica: l’ego smisurato, l’esibizionismo, la frenesia di ricchezze, non lo rendevano poi troppo diverso dai magnati del tempo, incarnati da Aristotile Onassis. Tutta personale fu, invece, l’aspirazione a rendere definitiva l’identificazione fra genio e follia, includendo nel suo concetto di follia la mantica, il dono profetico, l’indiscutibilità dell’operazione artistica e la regalità del genio come individuo assoluto. Finché furono in vita i due massimi artisti iberici, circolava la massima che Dalì fosse il Picasso di destra – intesa come destra politica, non come l’esoterica via della mano destra.

Era quindi fatale che Dalì si affacciasse sull’abisso dell’arte combinatoria dei Tarocchi. Taluni li hanno descritti come un mutus liber, assimilandolo senz’altro alla tradizione alchemica come, ad esempio, l’enigmatica Atalanta Fugiens di Michael Maier, specie per la sua parte figurale. Uno degli interpreti classici e più attenti dei Tarocchi, Oswald Wirth, li definisce così:

Nell’occultismo, si attribuisce un’importanza capitale ai ventidue Arcani o Chiavi o Trionfi dei Tarocchi, che costituiscono nel loro complesso un trattato di alta filosofia esposto per immagini.

Follia come norma di un mondo Altro

Dunque sono le immagini a fare da collegamento fra l’opera di Dalì, lo spirito del tempo e l’antico strumento oracolare. Dalì intendeva fare della propria follia la norma di un’ universo altro, sul quale era ed è appena permesso, ad alcuni pochi iniziati ed epopti, affacciarsi. C’è un episodio storico abbastanza significativo in questo senso, che merita di essere citato: nel luglio 1938, all’età di 34 anni, dopo averlo lungamente meditato il pittore poté far visita a Sigmund Freud, ormai ottantaduenne. Riferendo poi a Breton dell’incontro, scrisse di essere rimasto molto impressionato dal fondatore della psicoanalisi, il quale avrebbe detto che “nei quadri dei maestri del passato ci si interroga subito sull’inconscio, mentre osservando un quadro surrealista (al tempo Dalì era ancora pienamente interno al movimento, ndr.) si prova subito l’impulso di indagare su ciò che è conscio” (Archivio Breton, cit. da Ian Gibson).

Difatti la potenza dei Tarocchi – e ritengo che Dalì ne fosse perfettamente consapevole – sta nel fatto che ogni volta che vengono presi nelle mani di un interprete (vi è coinvolta quindi anche la medianità) essi riprendono vita, sono vivi. Per la loro struttura, anzi, i Tarocchi sono sempre stati vivi attraverso l’energia vitale di un interprete: la lettura, quindi, porta sul piano vitale ciò che è astratto e spirituale e consente una certa visione di ciò che chiamiamo futuro. Ogni consultazione dei Tarocchi non è allora una semplice lettura, ma avvolge e unisce l’interprete e i simboli in uno stato di superiore divinazione, estraneo allo scorrere del tempo. Dalì deve aver pensato che la fatica di ridisegnare integralmente i tarocchi meritasse di essere fatta, poiché lo avrebbe elevato al rango di autore di arte sacra. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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