esempio di meditazione alchemica
Dettaglio dal frontespizio di Mystère des cathédrales, illustrazione di Julien Champagne (1926)

Esempio di meditazione alchemica: il delitto come estasi spirituale

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Non di rado il nostro Franco Garofalo, scrittore e filosofo, ci dona testi sulle ritualità, i Misteri, le tradizioni spirituali. Oggi proponiamo ai cari lettori e lettrici un testo sull’Alchimia, antica Tradizione, ricchissima di simboli e significati; arte trasformativa della coscienza; disciplina complessa, serissima quando la si comprende. Per poterne parlare con la sua consueta precisione filosofica e dimestichezza del simbolico, avendo sempre a cuore l’invito per il lettore a collegare tradizioni e Contemporaneo, Garofalo si smarca dall’aproccio storiografico, dalle formule ermetiche, dal citazionismo ad ogni costo, dallo specialismo dottrinale, per andare invece lì dove la conoscenza dovrebbe portarci, nel cuore delle nostre vite, ben al di fuori dell’autoreferenzialità disciplinare. Ci fornisce allora un esempio di meditazione alchemica quanto mai imprevisto. Qui l’alchimia, che diamo per assimilata, è ben diversa da quella che si potrebbe trovare nelle copie anastatiche di antichi manuali. Qui è espressa nella sua essenza, nell’estasi estatica ed estetica, tenebrosa, criminale nel momento in cui soverchia il costume quieto delle abitudini. Parliamo di magia, di spavento, di stati della coscienza, di immedesimazione nei delitti e immersione nell’anima nera con la teologia di Swedenborg, di prove da superare nell’interiorità tanto dal carnefice quanto dalla vittima. Buona lettura.


Mettere al mondo un corvo, ovvero l’Opera al nero

La condizione che l’animo dell’alchimista (spirituale, non spagirico) deve raggiungere, ovvero attraversare, con l’immaginazione del proprio “essere nella mente” per giungere al punto più infimo, è l’Opera al nero. Deve mettere al mondo un corvo nero, simbolo a sua volta di ciò che in questa fase dell’Opera si può raggiungere, ma che di certo non è motivo di gioia per l’operatore.

Il corvo è il prodotto del precipitato alchemico, ma anche il punto più tenebroso dell’anima del mago. Lui, che aveva cominciato fissando lo sguardo sugli astri e fantasticando di una provenienza, che era anche la promessa di un ritorno, deve ora fare i conti con la propria sporcizia. L’uomo che intraprende l’opera sa di dover attraversare questa terra desolata, nella quale nessuno spavento gli sarà risparmiato. In questo momento, io posso anche guardare la realtà di un delitto dall’interno; di qualunque delitto, indipendentemente dalle circostanze.

I delitti si ripetono perché si replicano gli stati infernali dei loro autori. I preposti alla nostra sicurezza, gli investigatori, sono in qualche modo il pubblico di questo macabro teatro, dove gli applausi sono i lampi del flash del medico legale. Quando la vittima viene rinchiusa nel sacco mortuario, inizia una ricerca di segni e tracce che può protrarsi anche per giorni, settimane o addirittura anni. Le tracce col tempo tendono a cancellarsi, contaminarsi; vengono sommerse dai flutti di una costante azione livellatrice del tempo: la realtà esterna sembra indifferente verso la rottura dell’equilibrio; la giustizia e la ricerca del colpevole sembra esistere soltanto per l’uomo.

Un esempio di meditazione alchemica. I delitti dall’interno: psicologia alchemica degli assassini

Esiste un altro cammino, secondo il quale il delitto può essere ricostruito dall’interno, lasciandosi cadere poco a poco in una meditazione che deve toccare il punto più profondo di noi stessi, che ci appare così in contatto con gli stati infernali di tutti gli altri, molto più lascivamente comparabili ad analoghe nequizie presenti in noi, anche se si è innocenti di atti di violenza verso simili ed altri viventi.

Allora, immagino l’ uomo ferino che tira le reti del suo sviluppo interiore insufficiente e della deformità del suo rancore verso la vita e si ritrova – forse anche in maniera imprevista – riempito di un ardore sconosciuto, o conosciuto prima solo in rapidi sprazzi rapsodici, mai bene organizzati in un progetto malvagio. Costui ha davanti a sé un uomo, una donna o un ragazzo speciali, il cui nome è Abele: inutile dargliene un altro, il nome della vittima è sempre Abele.

Forse ha un appuntamento con essa; la vittima appare sempre consenziente agli occhi della belva che sta per nutrirsi del suo sangue. Cos’è stata, fino a quel momento, la vita per l’assassino? Una sequenza di occasioni non ben riconosciute, un mancato appuntamento con l’amore, una freddezza nell’accesso agli affetti, una famiglia devastata o crudele verso il piccolo. Uno spettacolo d’infamie mandato a memoria e vissuto come ordinaria amministrazione. L’infinito deliquio di un mondo che sprofonda, i mostri della coscienza che prendono forma, nell’ indifferenza ed impotenza degli “altri”.

Per un breve attimo, l’alchimista intuisce e comprende profondamente quanto la sua mente sia simile a quella del criminale. Differente solo per una cosa: la sua innocenza da colpe tanto esecrabili. Ma lo sconforto, il disincanto, la muta richiesta di aiuto strozzata in gola è la medesima. Il criminale avverte dunque che quella è una sera speciale. Che niente dopo di essa sarà uguale. Il solo senso della vita è di non avere alcun senso. Loop di istanti tutti uguali, finzione di un lusso irraggiungibile o, e se raggiunto, comunque contaminato ed imputridito dalla volgarità del criminale. Il criminale che ha soppresso una vita per il suo gusto, per meschino interesse o per libidine era questo anche prima di uccidere. Era già criminale per sempre, anche quando la sua ferocia non era ancora giunta a maturazione.

Abele non deve fare molto, per scatenare l’assalto letale. È sufficiente che esista, che si metta per candore o svagatezza nelle mani del suo carnefice. Una ragazza che rivela una gravidanza indesiderata e viene assassinata dal futuro padre della creatura che porta in seno; magari sperando che questo possa cambiare l’uomo che ha di fronte, gli rivela il suo stato: le viene chiesto di abortire, lei rifiuta.

Delirio del delitto come estasi spirituale. Quando, per un momento, la vita della vittima diventa elisir di lunga vita per l’assassino

L’assassino prova per un istante effimero l’esaltazione di onnipotenza dell’arcangelo ribelle. Non importa quanto vile sia il suo delitto; il primo colpo che vibra, i successivi con cui si assicura di perfezionare l’opera… Egli prova per un attimo di essere sulla cima dell’universo, di aver sorpreso il corso naturale delle forze benefattrici e regolatrici che lo tengono insieme. Si è fatto nemico, rivale, rivolta; ed ora vengano pure tutte le polizie, i giudici, i giornalisti a giudicarlo. Ciò che ha fatto lo iscriverà di diritto nel pandaemonium (da John Milton: πανδαιμόνιον) sotterraneo, nell’aristocrazia nera, nel contropotere di una anti-cultura.

Il cranio di Abele, fra l’altro, è molle; i colpi affondano ora con facilità, ha smesso di muoversi. Forse quel povero corpo già morto sussulta, in preda ad impulsi elettrici e spasmi involontari. Sono gli ultimi segni di vita di quella carne frolla, di quelle braccia flaccide e di quelle gambe scomposte in una posa innaturale… Il tempo si è fermato: l’estasi permette di volare al di sopra e al di sotto della superficie del tempo: un fluido molto particolare, la prigione liquida della nostra lenta corsa verso la dissoluzione e la morte.

L’Opera al Nero è compiuta. Si può tornare alla superficie della Terra, anche se è faticoso ripercorrere a ritroso tutti i precipizi che ha disceso, per così dire, con le ali ai piedi.

La questione del Male secondo Swedenborg “il visionario”

Il più noto dei convertiti del XVIII secolo, l’ingegnere minerario Emanuel Swedenborg, fu convertito nella direzione opposta a quella del Secolo dei Lumi: dalle scienze applicate alla metafisica più pura e visionaria. Nel suo Cielo e inferno a proposito del quasi irresolubile problema del male, della sua presenza e della sua compatibilità con la grazia del creato e la bontà divina, preferisce parlare del malvagio in quanto uomo: il male è atto impuro, al contrario di Dio che è Atto Puro; è quindi sempre un’attività, non uno stato ontologico da cui promani attività.

Se il male fosse primordiale, sarebbe un essere contro l’Essere in quanto Atto puro e Creatore, cioè un doppio del Bene del Mondo e dell’Essere, cosa che ci riporterebbe alla teologia del dualismo manicheo. Su questo punto teologico sappiamo che il protestantesimo ha molto sfumato la decisa condanna cattolica, e nell’ambito delle confessioni riformate il “male” ha ripreso forma e spessore. Ma Swedenborg non è un teologo astratto e propone le sue visioni, certo sospettabili di derivare da determinate meditazioni, che intendono presentarsi con la forza icastica di un racconto filmico. Nel paragrafo 547 scrive:

Tutta la volontà e tutto l’amore dell’uomo restano con lui dopo la sua morte. Colui che vive e ama un male nel mondo, vuole e ama lo stesso male nell’altra vita e non vuole esserne separato. Così un uomo che è nel male è legato all’inferno, e già vi è col suo spirito, e dopo la morte non desidera altro che essere là dove è il suo male. È dunque l’uomo che dopo la morte si precipita da solo all’inferno, non il Signore che ve lo precipita.

Ciò dipende dalla natura dell’Essere, che può volere solo il bene. Odiare chi ha fatto il male e precipitarlo verso la sua punizione convertirebbe il bene in male, e mettendosi sotto il suo dominio l’odiatore del male si converte nel male, ne viene catturato all’interno della sua stessa vischiosa sostanza. Il gioco dell’apparenza, di un nulla che simula la sostanzialità mentre solo il bene e la Carità sono vera sostanza, rappresenta una magnifica sequenza cinematografica, che rende ragione dell’enorme fama di veggente e profeta di Swedenborg; talmente vasta da meritargli il ruolo principale in un pamphlet polemico del grande Kant (di nome Immanuel anche lui), intitolato I sogni di un visionario.

Nel § 495 l’autore svedese si sofferma sulla continuità fra vita terrena e ultraterrena. Per quanto grande possa essere il timore che ci accompagna, nell’immaginare il salto che riteniamo esserci fra l’una e l’altra, in realtà, sostiene, questi timori provengono dalla potenza dell’immaginazione, dal suo attaccamento alla Terra in quanto crediamo che nessun alimento all’immaginazione possa essere mai provenuto da altro che dall’esperienza materiale e sensibile. La visione di Swedenborg dunque ritiene di poter colmare questo apparente vuoto, rappresentando l’oltremondano sempre nella forma dell’esperienza (o suggerendo esser stata questo, per lui).

È stato detto che la vita degli spiriti novizi non è diversa da quella che conducevano nel mondo naturale, quando sullo stato della loro vita dopo la morte e sul Cielo e l’inferno non sapevano altro che quello che avevano appreso in base al senso letterale (il corsivo è mio, ndr.) della Scrittura e alle predicazioni relative. Ne consegue che dopo essersi meravigliati di ritrovarsi in un corpo, di possedere ancora tutti i sensi che avevano nel mondo e di vedere cose simili a quelle del mondo, essi provano il desiderio di sapere come è il Cielo e come è l’inferno, e dove sono situati l’uno e l’altro.

L’immersione nell’anima nera e il compito dell’alchimia spirituale

Nel ritmo del testo swedenborghiano colpisce la calma serenità con cui vengono illustrate le esperienze sovrannaturali, di cui il veggente svedese intende sottolineare il carattere di naturalezza. Le visioni come tali rivelano la continuità fra due lati del mondo che solo impropriamente, e per difetto d’analisi, immaginiamo di solito come separate da un abisso, da un salto. Ora, prescindiamo per un momento dal giudizio intorno all’attendibilità di tali visioni, e pensiamo a questo: in larga parte i dialoghi “angelici” in cui Swedenborg s’intrattiene, con una sorta di assemblea spiritica, contengono delle anticipazioni. È così più semplice comprendere l’esperimento di “immersione nell’anima nera”, meglio sarebbe dire nell’animicità nera, proposta in capo a questo articolo. Solo a chi si colloca dal punto di vista superiore sarebbe possibile spingere lo sguardo in ciò che sta in basso o perfino nell’infimo; mentre, come ricaviamo dalla dottrina dantesca, la contemplazione del Cielo e di Dio è interdetta ai dannati.

L’esercizio dell’alchimia spirituale consiste, dunque, nell’anticipazione del mondo invisibile – o se vogliamo, della parte invisibile di questo mondo – e di dislocamento in una personalità diversa o, forse, diametralmente opposta alla nostra. Finché il ricercatore resta confinato nella propria sfera, nel recinto esistenziale che gli è stato assegnato, il volo gli è interdetto e le anticipazioni di altre personalità e avvenimenti gli saranno impossibili.

Proprio Kant riferì a Charlotte Knobloch un esempio, da lui ritenuto probante sul piano dimostrativo, delle facoltà anticipatrici e dislocative di Swedenborg.

Kant perturbato dal veggente Swedenborg

Durante una riunione fra amici a Göteborg, presso i quali era stato invitato, verso le sei di sera del 10 agosto 1768 Swedenborg uscì in giardino pallido e spaventato. A chi lo interrogava in merito, disse che in quello stesso momento un incendio stava divampando a Stoccolma, nel Südermalm, e che le fiamme rischiavano di raggiungere casa sua. Verso le otto riuscì a calmarsi, e dichiarò con sollievo che l’incendio si era fermato a tre porte da casa sua (cit. da Paola Giovetti). L’episodio avvenne di sabato; il lunedì giunsero delle staffette da Stoccolma le quali riferirono dell’incendio con dovizia di particolari, e tutti corrispondevano al racconto fatto due giorni prima dal veggente.

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