Nel suo monumentale capolavoro Psyche, culto delle anime e credenza nell’immortalità dei Greci pubblicato nel 1890-1894, Erwin Rohde, amico di Nietzsche e appassionato difensore delle sue tesi sulla nascita della tragedia, asserisce che l’idea dell’immortalità dell’anima non solo non è connaturata alla cultura occidentale, ma non è venuta alla luce neppure tutta intera, così come la conosciamo o crediamo di conoscerla. A riprova di ciò, porta ad esempio i Misteri Eleusini.
Tali riti sono millenari, avendo una remota origine attestata da alcuni autori nel 1600 A.C., e prolungano la loro stabilità e fama durante tutta l’antichità, giungendo anche a Roma. Per gli addetti al culto di Eleusi (la cui pratica finì per spostarsi in Atene; ad essi fu dedicato un tempio sotto l’Acropoli detto Eleusinion), provenienti essenzialmente da due famiglie, quella degli Eumolpidi e quella dei Keryke, la celebrazione dei Misteri, la loro enorme risonanza pan-ellenica, non era un buon motivo per ritenersi delle star e progettare una luminosa carriera politica per qualcuno dei loro discendenti: le testimonianze antiche quasi si dimenticano di loro; quando ne parlano, affermano che fossero individui opachi, di assoluta discrezione e propensi a dissimularsi, quasi invisibili e come risucchiati nel potente magnetismo delle dee Demetra e Persefone (Kore), incuranti della propria personalità “umana”. Scrive Rohde nel sesto capitolo, I Misteri di Eleusi:
La cosciente sopravvivenza dell’anima dopo il suo distacco dal corpo non veniva quivi insegnata, era implicita; e doveva esserlo, ché questa fede stava a base del culto delle anime diffuso universalmente. Ciò che acquistavano gli iniziati ad Eleusi era una concezione più viva del contenuto di questa esistenza delle anime dei defunti, che nelle idee che stavano a fondamento del culto delle anime era lasciata vuota. Noi l’abbiamo già sentito: soltanto gli iniziati ad Eleusi godranno una “vita” reale nell’ al di là, agli “altri” andrà male.
Rohde ci conduce a vedere ciò che sappiamo per altri versanti: che arcaico e antico hanno molti più punti di contatto e somiglianze con il moderno del semplicemente vecchio. Il mondo che ci ha appena preceduto ci appare inesorabilmente superato e sepolto; al contrario le epoche più remote mettono in luce sorprendenti analogie con le nostre vite. Ci affacciamo così su una raffigurazione non del tutto prevedibile, e tutt’altro che ovvia, del nesso ontologico e psicologico fra ciascuno di noi e la dimensione ultraterrena. Il cristianesimo ha realizzato, nel sovrapporsi alla religione antica, una (perlomeno) duplice trasformazione: dai molti dèi all’unico dio; poi la rimozione della divinità femminile. Tutti i monoteismi insieme convengono nel detronizzare le dee, che nel mondo antico hanno avuto un particolare rilievo.
Nei riti eleusini, che si definiscono “Misteri” (μυστήριον) proprio perché riguardano le questioni che non possono essere spiegate su un piano unicamente umano e si celebrano mediante una narrazione sacra, appare la sorprendente rivelazione che l’anima non è immortale per il solo fatto di essere un certo tipo di anima esclusivamente umana; ma lo diventa in seguito all’iniziazione e alla pratica del culto misterico.
Per il cristianesimo, invece, l’anima è immortale in quanto anima; e dovendo avere comunque un destino ultraterreno, per essa diviene necessario immaginare dei luoghi di beatitudine o di punizione oppure, come accade dopo il Concilio di Lione del 1274, di pena temporanea a scopo di purificazione, definito dalla dottrina come purgatorio. Rohde, nello stesso capitolo su Eleusi, sottolinea come l’idea di una punizione ultraterrena dei reprobi in vita, sia pure presente nel disegno eleusino, abbia una elaborazione piuttosto debole, limitandosi alla punizione per pochi delitti specifici come lo spergiuro, l’uccisione del padre – il che basta a sollevare l’ira e la persecuzione da parte delle Erinni – e poco d’altro. D’altronde gli stessi citati Misteri negano la sopravvivenza delle anime dei non-iniziati, dunque anche immaginare una precisa topografia infernale, un luogo di pena o di espiazione, sotto questa luce appariva agli “adepti” e agli “epoptoi” cosa del tutto superflua. Infine Rohde assume anche un tono derisorio, quando scrive che i “benpensanti moderni” intendono moralizzare il mondo greco e vanno alla vana ricerca, tanto nella loro religione pubblica quanto il quella misterica, di una forte convinzione nel premio o nella punizione delle anime dopo la vita terrena che non appartiene a quella cultura.
Anche il mondo contemporaneo sembra essersi rassegnato all’ inconsistenza di queste metafisiche illusioni perdute. In occidente nel cammino ormai tricentenario della secolarizzazione, prima, a partire dal Settecento, le persone colte, quindi, in epoca più recente, la massa della popolazione, hanno relativizzato il ruolo della religione anche senza sentire sempre il bisogno di abbandonarla integralmente. Ma quale altro fenomeno collettivo si è affermato, a partire dal secolo dei Lumi? In generale, si ritiene il Settecento il secolo di nascita della stampa moderna, e quindi del giornalismo. Se è così, curiosamente le origini del moderno giornalismo si saldano a quelle di una nuova mentalità scettica “morbida” e diffusa: un costume collettivo, in sintesi, che senza soffrire della furia iconoclastica dell’ateismo vero e proprio, pure si fa permeare da una crescente “disattenzione” nei confronti della religione oppure – caso ancor più diffuso – sospinge l’individuo alla pratica di una doppia morale, consistente nell’osservanza esteriore e pubblica del culto unita ad una certa indifferenza etica, nella vita e negli affari privati.
Il giornalista, su questo retroterra in rapida evoluzione, ne deduce le leggi fondamentali del suo operare. Si fa araldo e cantore della vita ad una dimensione, quella che tutti – grandi e piccini, colti e analfabeti – condividono, e sulla quale relazionerà puntualmente.
Proviamo invece a immaginare un giornalista il quale, raccontando di un terremoto o di una qualche altra catastrofe naturale, la attribuisse con convinzione all’ira divina per i peccati della comunità. Non solo non verrebbe preso sul serio; probabilmente incapperebbe nella censura o peggio, verrebbe ridicolizzato. Eppure nessi di causalità sono rintracciabili anche nella concezione dell’anima e di una sua eventuale sopravvivenza ultraterrena, che ciascuno di noi ha ed è difficile che non abbia. Una simile convinzione (per chi la possiede) non siamo affatto disposti a considerarla ridicola o infantile. Eppure, da lettori, non riusciamo a tollerare racconti “di fantasia”, i quali diano anche solo la sensazione di rinviare la descrizione della realtà ad un orizzonte “altro”, cioè non strettamente mondano.
Fin qui, nulla di male. Il giornalismo è l’arte dell’immanenza, del comunicare il “qui e ora” ; la funzione che assolve è descrittiva e non prescrittiva, avendo in questo qualche somiglianza con le proposizioni delle scienze naturali. Non è dalle concezioni metafisiche del panettiere da cui mi servo che otterrò il pane, per parafrasare il celebre passo di Adam Smith.
Nonostante tutto ciò, già da diverso tempo l’opinione pubblica si è accorta della tendenza di certo giornalismo alla manipolazione dei fatti, quando non di ricorrere a vere e proprie falsificazioni. Mi riferisco alla ben nota questione delle fake news. Il boom del giornalismo on line sembra aver reso molto meno selettivo il percorso di accesso alla professione. Anche le maggiori testate giornalistiche, le più cariche di storia o le più vendute, hanno generato un doppio del giornale cartaceo dotandosi di una redazione esclusiva per il web. Molti praticanti giornalisti mantengono e coltivano un proprio blog sotto il cappello protettivo del giornale prestigioso. Oltre a questo fioriscono giornali indipendenti, agenzie di stampa, riviste on line completamente smaterializzate. Ed è così che torna a fare capolino questa remotissima tendenza della mente umana a ricollegare alto e basso, naturale e sovrannaturale, foss’anche solo per un modo di rappresentare gli eventi inedito, originale, inaspettato come un lampo nel buio.
In questo nuovo (o rinnovato) fenomeno il cronista non vuole esser più un passacarte, un compilatore di lanci di agenzia, o quando va bene, un recensore. Prova, insomma, a ridare voce alla propria anima negata, rimossa, soffocata dal pragmatismo occidentale. Farò solo due esempi estratti dalla cronaca: “Tel Aviv, coppia lascia il neonato senza biglietto al check-in dell’aeroporto” (Repubblica, 2 febbraio); “Virginia Sanjust: l’ex annunciatrice Rai accusata di estorsione nei confronti della nonna” (Open, 31 gennaio).
Nel primo caso viene adombrato, nella trama dell’incredibile evento, uno dei delitti che anche in epoca omerica veniva considerato meritevole di castigo ultraterreno: la violenza contro familiari sebbene – va detto per scrupolo di esattezza – l’episodio è privo dell’elemento anticamente ritenuto più grave, cioè lo spargimento di sangue. Ma il piccolo abbandonato per non pagare un sovrapprezzo al vettore del volo richiama echi di altri leggendari trovatelli: da Mosè abbandonato in una cesta sulla riva del Nilo, a Romolo e Remo, frutti della violenza fatta a Rea Silvia dal dio Marte, a Victor, il dodicenne “ragazzo selvaggio” scoperto a S. Sernin sur Rance nell’anno 1800. L’orrore inconscio di essere abbandonati che si converte in un segno di predestinazione, è un vero e potente archetipo della psiche.
Nel secondo caso il significato adombrato dal fatto è a mio avviso un archetipo identificato solo più recentemente, sulla inevitabile decadenza di una stirpe aristocratica. La discendente dei Sanjust di Teulada, nipote di Franco Interlenghi e Antonella Lualdi, figlia di Antonella Interlenghi, amata da Berlusconi, annunciatrice televisiva, che ha goduto di tutti i più fausti presagi e che ha avuto tutto per essere felice, perseguita un amante e ne viene denunciata, sfascia la casa della nonna dopo averle chiesto dei soldi senza venire soddisfatta, sprofonda infine nella psicosi dalla quale cerca di curarsi fra il 2019 e il 2022 e non riesce a guarirne. Qui sentiamo risuonare l’epica decadentistica de I Buddebrook di Thomas Mann o di Fosca di Iginio Ugo Tarchetti.
L’idea che propongo, in conclusione, è di considerare anche le fake news volta per volta come moneta buona o cattiva. La propaganda guerresca che, attraverso il falso, intende manipolare la nostra coscienza perseguendo finalità di guerra psicologica è senz’altro da respingere e denunciare; ma la notizia vera che appare falsa perché forza le condizioni di comprensibilità della realtà, dalla quale vediamo balenare il senso e il gusto per l’infinito e l’incomprensibile della coscienza umana che la racconta, va considerata a mio avviso con maggiore benevolenza.
Se poi è soggettivamente interessante proprio a causa di questo squarcio del velo della realtà con più di un rimando al mitico, al leggendario e al letterario beh, io mi dichiaro disposto persino a guardarla con un certo favore. Simpatia non comunicabile, me ne rendo conto: lo scrupolo del giornalista di raccontare sempre la realtà gli fa sicuramente onore. Ma come Charles Fort resterò, per quanto mi riguarda, sempre attratto dall’insolito. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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