Scopriamo le forme liturgiche cristiane dietro la coltre della Modernità

La grande varietà delle Chiese cristiane ad oggi riconosciute e organizzate deriva soprattutto dalla riforma protestante luterana del principio del XVI secolo; la percezione che noi moderni abbiamo della pluralità delle forme del cristianesimo è dunque a sua volta tutta moderna, provenendo da uno dei fatti di fondazione del concetto stesso di modernità: oltre alla riforma, si citano convenzionalmente la rivoluzione scientifica del Seicento, e sul piano politico le tre rivoluzioni del tardo Settecento: industriale, americana e francese.
Tutto questo eclissa, o limita fortemente, la conoscenza delle varietà più antiche di liturgia cristiana e cattolica: va assolutamente ricordato lo scisma d’Oriente del 1054 – o Grande Scisma – ad opera del patriarca Michele I Cerulario, origine del cristianesimo “ortodosso” orientale il quale avrà a sua volta più “centri” ecumenici, o con velleità ecumeniche: i patriarcati di Costantinopoli e Mosca, oltre alla cd. Chiesa ortodossa autocefala di Kiev.
Sono 20 le varietà liturgiche all’interno della Chiesa cattolica
Meno note sono le varietà rituali e liturgiche ammesse all’interno della Chiesa cattolica e non considerate scismatiche: ve ne sono ben venti; le più note delle quali sono i riti cattolici orientali come il maronita, il rito di Antiochia, il rito alessandrino egiziano, quello bizantino e altri. Anche nella Chiesa occidentale – e pure nell’italiana – vi sono alcune distinzioni: il rito ambrosiano (milanese) è distinto da quello romano, mentre la Chiesa francese fedele a Roma, pur avendo dato origine nel XVII secolo ad un orientamento nazionale (la Chiesa “gallicana”) non è mai arrivata a distinguersene. La liturgia lefevbriana della Congregazione S. Pio X, che rifiuta le risultanze del Concilio Vaticano II e segue il messale tridentino, se non ha portato ad uno scisma vero e proprio va comunque considerato un’eterodossia.
Il Rito cattolico Mozarabico e la Chiesa Hispànica: la storia

Su questo sfondo va collocato il rito mozarabico o “hispànico” che ha origini molto antiche, risalendo alla Chiesa visigotica iberica e, ancor prima, alla più remota presenza cristiana conseguente all’azione e predicazione di San Giacomo Maggiore – per intenderci, quello della magnifica cattedrale di Santiago di Compostela, terminale del celebre “camino” tornato di attualità da alcuni anni per i numerosi pellegrini che lo percorrono, armati del bastone sormontato dalla conchiglia.
In epoca imperiale romana, la penisola iberica fu fra le prime province ad assimilare il messaggio del Cristo e ad avere già in epoca apostolica (cioè mentre gli apostoli diretti di Gesù erano ancora vivi e attivi) una forma organizzata. È necessario ora richiamare alcuni aspetti caratteristici di quei tempi, per meglio comprendere la primogenitura della Chiesa iberica e poi, in pieno alto medioevo, visigotica.
Nel primo e secondo secolo dell’evo moderno una disputa dottrinaria occupò in modo prevalente il dibattito sulla nascente organizzazione ecclesiale: quello sull’incorporazione del cristianesimo alla tradizione ebraica. In un primo periodo nella quasi totalità i cristiani erano nati ebrei ed erano, dunque, circoncisi. Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 D.C. ad opera delle truppe dell’imperatore Tito della dinastia dei Flavi, un gran numero di ebrei si convertì alla nuova religione, e fra essi molti farisei. I farisei erano cultori e studiosi della Legge e portavano nella Chiesa nascente il loro caratteristico rigorismo dottrinale. Queste conversioni fecero sorgere quindi due fazioni, generalmente rappresentate da Pietro e da Paolo. Essendo Paolo d’origine pagana, fu anche instancabile propagatore della dottrina secondo cui il battesimo comportasse una rinascita completa dell’individuo; e che allora la distinzione fra circoncisi (seguaci della legge mosaica) e gentili dovesse cadere completamente. L’altra fazione sosteneva la continuità fra ebraismo e cristianesimo; che il cristiano fosse per prima cosa tenuto a tutti gli obblighi rituali del mosaismo e che in più riconoscesse l’avvento del Messia – atteso anche dagli ebrei – nel corpo e nella carne di Cristo. Perciò, secondo questi ultimi, tutti i gentili che volessero convertirsi dovevano aver ricevuto in precedenza la circoncisione. Pur non sostenendola apertamente, Pietro non esercitò alcun contrasto a questa posizione.
Il Concilio di Gerusalemme, svoltosi intorno alla metà del I secolo, vide dunque contrapporsi i due apostoli, e vi ebbe parte anche Giacomo, il quale esercitò una sorta di arbitrato per scongiurare ogni precoce divisione in una fase molto delicata per la Chiesa protocristiana. Si concluse allora che la legge mosaica non dovesse costituire in alcun modo un limite o un freno al dono della Grazia che proviene in modo esclusivo da Dio, e che il sacrificio sulla Croce aveva reso caratteristico e definitivo il dono della Grazia nella professione di fede cristiana; quindi nessuno doveva circoncidersi per essere cristiano, e i catecumeni di qualsiasi origine dovevano venire accolti su un piano di parità.
Non vi è dubbio che questo passaggio dottrinale e precettistico fosse necessario per ribadire il carattere del cristianesimo come nuova religione, non mero frutto della pianta ebraica originaria. Nelle province come l’iberica, il forte afflusso migratorio a seguito della distruzione del Tempio portò molti più fedeli di origine ebraica che non cristiani ellenizzati seguaci di Paolo di Tarso. Pure, questo non fu motivi di diatribe ulteriori e divisioni all’interno della nuova patria, poiché questa regola del tutto nuova dell’uguaglianza fu accolta senza riserve da tutti, nonostante fosse da tempo presente, in quei territori, una solida organizzazione sinagogale.
Dopo la caduta dell’Impero d’Occidente ad opera del capo erulo Odoacre, e durante la sua controversia decennale con Giulio Nepote su chi avesse titolo legale a dominare in Occidente, la penisola iberica fu conquistata dai Visigoti; in quel tempo liturgia e canto mozarabico – in realtà, non essendo ancora nata la definizione in lingua araba, allora si poteva a rigore solo parlare di liturgia e canto hispànico – erano già consolidati. Una vasta opera di apostolato e conversione andava tuttavia ancora svolta, essendo gli occupanti visigoti prevalentemente cristiani ariani, e in parte pagani. In questo senso e con queste preoccupazioni, la chiesa spagnola del tempo consolidò la sua stretta osservanza romana, abbandonando quindi anche le suggestioni di rito ambrosiano (milanese, ovvero fatto risalire a S. Ambrogio) che pure erano presenti. È quindi a partire dal 476 che inizia un incessante lavorio di organizzazione di concili nazionali e provinciali, imperniati sulla città e sul regno di Toledo, culminante nel Concilio III di Toledo durante il quale il re visigoto Recaredo I si converte, con tutta l’aristocrazia, al cattolicesimo.
Il Rito cattolico Mozarabico: storia del nome di una Chiesa che si è conservata intatta dalla dominazione araba a oggi
Il nome di Mozàrabe o Mostàrabe, derivando appunto dall’arabo, apparirà soltanto dopo il 711, cioè dalla conquista araba di gran parte della penisola; si tratta di un etimo non diverso da quello della località di Mazara in Sicilia. “Musta’rab” significherebbe infatti “arabizzato non-arabo”.
La definizione riveste dunque ai nostri occhi un fascino particolare, poiché designa una Chiesa che si è mantenuta, intatta, nel corso dei lunghi secoli della dominazione araba musulmana.
È appena il caso di ricordare che la Reconquista, l’operazione militare che aveva lo scopo di riportare tutta la penisola iberica alla religione cristiana e cattolica, si completerà soltanto nel 1492 ad opera della diarchia composta da Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona. Se questi sono gli argini temporali in questione dunque, la storia, oltre a parlare bene dello spirito di tolleranza dei regni islamici occidentali, rivela soprattutto un vero prodigio di resistenza e resilienza dell’ortodossia cattolica in condizioni avverse. I musulmani di Spagna, per quanto tolleranti e propensi ai traffici e ai commerci con i regni cristiani – durante i secoli della dominazione araba ne erano rimasti alcuni nel nord: la Castiglia di Burgos, Leòn, Asturie – non potevano ignorare la Shahadat o professione di fede, e lo Jihad come dovere assoluto del credente di propagarla. In tal senso, nell’arco come abbiamo visto di parecchi secoli, accadeva che il tollerato finisse per diventare intollerabile; furono quindi esercitate numerose pressioni per la conversione all’Islam, alle quali la popolazione cattolica mozaraba rispose con l’emigrazione verso Nord, andando a rafforzare numericamente i regni settentrionali, che più di qualunque altro regno europeo dovevano reggere l’attrito dell’espansionismo islamico. Quello mozarabico è un esempio di chiesa “in cattività” che riecheggia – come un racconto mitico – la cattività degli ebrei sotto il Faraone; e chissà quante comunità, oggi, sarebbero altrettanto granitiche nel mantenere viva e integra la propria identità religiosa in un ambiente (più o meno apertamente) ostile.
Natura pneumatica del Rito mozarabico
Venendo un po’ più dappresso al rito mozarabico – pur non discostandosi molto dal messale romano, più specificamente da quello tridentino – è potentemente pneumatico.
Di norma la liturgia si articola in due parti principali: liturgia della parola e liturgia eucaristica. La rievocazione della vicenda sacra e liturgica dell’Ultima Cena rappresenta il culmine della Missa e deve regolarmente replicare il miracolo della transustanziazione del corpo e del sangue di Cristo. La liturgia della parola, invece, riprende aspetti già presenti nella cerimonia sinagogale, e quindi in comune con gli ebrei: salmodia e lectio. Le letture sono, nell’ordine, dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Questa parte della funzione – che potremmo definire come lo spazio dell’amore intellettuale di Dio – nella versione mozarabica ha (lo portiamo a titolo di esempio) un passaggio che non è presente nel messale romano, e precede la lettura: si tratta della processione del Vangelo. L’aspetto “intellettuale” della liturgia della parola si conclude con l’omelia e l’alleluja.
Il carattere fortemente pneumatico cui ho fatto cenno è riscontrabile nel fatto che nel rito mozarabico tutti i momenti di espressione e partecipazione comunitaria: orazione, benedizioni, salmi o threni, laudi, devono essere cantate. Essendo immutato dalle sue origini, il rito non ha ricevuto la semplificazione e la sostanziale traduzione che ha riformato il messale romano dopo il concilio Vaticano II: la messa mozarabica è tuttora in latino e le parti cantate sono nello stesso numero del rito del VI o VII secolo. Più in generale, il rito mozarabico può far pensare ad un vissuto monastico dell’ officium sacrum. La solennità è l’elemento prevalente. Qui la Missa rappresenta una totale immersione nel sacro: in chiave monastica è l’ officium perpetuum, che dovrebbe occupare tutto l’arco della giornata. Solo le successive revisioni, a partire da quella benedettina, hanno reso più umanamente praticabile il culto, cadenzando la giornata con l’officio sacro: ad vesperum (tramonto), ad nocturnos (mezzanotte), ad matutinum (alba), ad tertiam (le nove), ad sextam (mezzogiorno) ad nonam (tre pomeridiane). L’universa laus dunque, è stata saggiamente temperata.

Il rito mozarabico permane, tuttavia, di genere rigoristico. Fu il cardinale di Toledo Francisco Jimenez de Cisneros, potente al punto di essere definito il terzo re di Spagna (con Isabella e Ferdinando), a ristabilire il rito mozarabico, fortemente contrastato durante i secoli XIII e XIV e quasi estinto, dedicandogli all’interno della maestosa e vastissima cattedrale la cappella dedicata al Corpus Christi. Che poi, definirla cappella è francamente riduttivo: date le gigantesche dimensioni della cattedra di Toledo, lo spazio del Corpus Christi è quello di una piccola chiesa.
Lungimirante e colto, il Cisneros non trovò alcuna macchia nel rito mozarabico ma ravvide piuttosto il suo storico eroismo, per aver mantenuto intatto e senza compromessi il culto cattolico durante i lunghi secoli di dominazione musulmana. Ciò rende ragione anche del forte carattere identitario e “nazionale” del rito mozarabico, a tutt’ oggi seguito e praticato da tanti fedeli in Toledo e Madrid. Anche Giovanni Paolo II mostrò evidente simpatia per l’antichissima liturgia, e dopo una nuova edizione filologica del messale mozarabico che espungeva gli elementi estranei aggiunti nel corso del medioevo, il 28 maggio 1992 celebrò messa secondo la liturgia mozarabica a Roma. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Bibliografia essenziale:
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Conferenza Episcopale Spagnola: El misal hispano-mozàrabe, Centro de Pastoral Litùrgica, Barcelona 1997. ISBN 84-7467-852-8
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FONTAINE Jacques, El Mozàrabe, Encuentro Ediciones S.A., Madrid, 1984 ISBN 84-7490-061-1.