Nella sua accezione più classica la disinformazione – a volte citata con il lemma russo dezinformatsiya – dovrebbe essere il contrario dell’informazione. Ma questa accezione comporta alcuni rischi e va disambiguata. A “informazione” è sottinteso, infatti, informazione vera e attendibile. In questo caso si parla più propriamente di “notizia”. Nell’accezione informatica con “informazione” si intende un’unità di istruzione, un comando, una codifica. Invece è ovvio che, nel grande teatro dei mezzi d’informazione quest’ultima è la notizia, cioè la notizia vera, perché le nostre emozioni non sono in grado di distinguere il vero dal falso in una notizia, ma solo di reagire a ciò che la notizia afferma.
Questo scorcio di nuovo secolo ha profondamente trasformato il nostro stile di vita e le abitudini: nato sotto gli auspici del Nuovo secolo americano o PNAC (Project for the New American Century), una organizzazione no-profit nata nel 1997 con Dick Cheney e Donald Rumsfeld, oligarchi repubblicani e membri di spicco dell’amministrazione presidenziale di G. W. Bush, il XXI dell’era moderna avrebbe dovuto vedere la definitiva affermazione dell’ impero capitalistico, il primo dopo l’impero romano, quello mongolo e quello nazista ad avere l’ambizione di estendere il proprio dominio sull’intero mondo conosciuto; ma l’ 11 settembre del 2001 lo spaventoso attacco terroristico simultaneo al World Trade Center e al Pentagono sembrò segnare una battuta d’arresto al nascente progetto, mettendo allo scoperto inconcepibili lacune nella difesa aerea e nella protezione del territorio nazionale degli Stati Uniti.
L’attacco alle Torri Gemelle diventò rapidamente trauma mondiale – anche grazie ad una martellante opera memorialistica di giornali e network televisivi – e rivelò un nuovo nemico asimmetrico dell’ordine capitalistico: il terrorismo islamista.
Alcuni anni dopo nuovi mezzi di comunicazione, i social network, si imposero all’attenzione del pubblico, con nomi di piattaforme che da tempo sono parte della nostra quotidianità: 2003-2008 Facebook; 2005 YouTube, 2006 Twitter, 2010 Instagram, sono quelli di cui ormai nessuno può fare a meno, se non scontando un’ arretratezza digitale che lo relega immediatamente o fra i reietti o fra gli estremamente snob: ma questi ultimi, pur astenendosi dall’agire in proprio, si dotano in genere di un social media manager personale.
La disinformazione non nasce certo nel Duemila: ma è col Duemila che diventa virale, vorace, pericolosa, anzi letale. Su questo sfondo, inizialmente di “caos organizzato” aperto a tutti i venti, comprese non poche cellule della terza ondata islamista sorta già ben dentro l’era dei social, l’ISIS o Islamic State; più tardi oggetto di un piano di addomesticamento messo a punto, dopo un disorientamento iniziale, dal Deep State; sullo scenario di questa terra promessa, in cui si azzuffano holderliniani uragani di parole, post, commenti e “threads”, emergono figure – o meglio sarebbe dire: icone – un po’ inquietanti di persone che affermano di occuparsi, anzi di essere esperti, dell’indicibile, dell’abissale, di quel fondo oscuro del web, il dark-web ad esempio, di cui tutti sappiamo qualcosa nel momento stesso in cui ce ne distogliamo inorriditi: ecco H. Michael Sweeney e il suo The Professional Paranoid.
Il mondo dell’informazione? Secondo Michael Sweeney è un mondo criminale di professione per proteggersi dal quale occorrono accortezze altrettanto professionali
The Professional Paranoid è in primo luogo un libro edito da Paranoia Publishing, la cui prima edizione risale al 1998; è anche un sito curato personalmente da Sweeney, Proparanoid, che si propone di essere una piattaforma editoriale per tutti coloro che sono stati, per le ragioni più varie che comunque Sweeney ritiene, di default, “oscure” e “persecutorie”, messi ai margini e silenziati dal mercato editoriale o giornalistico. E ciò coerentemente con una delle venticinque regole della disinformazione da lui individuate, fin dagli albori di questo nuovo secolo:
Indipendentemente da quello che sai, non parlarne – specialmente se sei un personaggio pubblico, un conduttore televisivo ecc. Se non viene riportato non è accaduto, e tu non devi mai affrontare il problema. (Prima regola della manovra di Elusione)
Per Sweeney nulla è casuale. Tutto ricade invariabilmente nella fattispecie di crimini dei servizi segreti. E fra l’altro, proprio in questa veste fornisce un suo servizio di consulenza. Per l’autore i Servizi sono sempre, invariabilmente e da tempo, corrotti e totalmente organici allo Stato-ombra, del quale condividono le istanze ultra-reazionarie, e la propensione alla violenza in tutte le sue forme. In una intervista radiofonica risalente al 2011, Sweeney cita una operazione coperta della Cia di svariati anni prima in cui, per eliminare un presunto terrorista, l’Agenzia non avrebbe esitato a far precipitare un aereo con più di sessanta passeggeri. La facilità nel ricorso all’omicidio (e se necessario, alla strage) dipenderebbe dalla struttura ad “albero” delle missioni: la Cia farebbe sempre più frequente ricorso ai cosiddetti “contractors” e “subcontractors”, ossia società private gestite da ex militari ed ex agenti, molto più disponibili per soluzioni “sporche” di quanto non siano i dipendenti in servizio attivo ed i federali. L’assoluta assenza di sentimenti e scrupoli morali, quindi, dipenderebbero dalla percezione di operare in una “terra di mezzo” sciolta da ogni vincolo legale, ma ugualmente protetti dall’ Amministrazione, o da cellule di questa con totale libertà di agire.
Secondo Sweeney nessuno più della triade Cheney-Rumsfeld-Wolfowitz (che ha dato il nome alla dottrina Wolfowitz, teorizzante il nuovo mondo unipolare e il diritto degli Stati Uniti di intervenire in ogni area del mondo in nome della Libertà con la maiuscola), inquadrata nella presidenza di George W. Bush, ha fatto di più per disarticolare CIA, NSA, FBI e Pentagono trasformandoli da monoliti in organismi mutanti, grazie alla tendenza sempre più estesa ad appaltare aree della sicurezza nazionale a società private.
Tuttavia il ricorso alla violenza, afferma Sweeney, non sarebbe oggi così frequente come si potrebbe ritenere. Sono in pieno sviluppo le tecniche di controllo mentale e la violenza psicologica proprio in seguito ad una generale revisione delle strategie, conseguente all’apparire di un “nemico” a sua volta invertebrato e diffuso come il terrorismo, in uno stato di guerra asimmetrica permanente nella quale molto spesso l’avversario – l’Altro – è inafferrabile e sfuggente come un fantasma.
Maestro indiscusso del complottismo mondiale, Sweeney ha prima di tutto inglobato se stesso nel complotto, nella paranoia, e risulta credibilissimo. Attenti a snobarlo, il confine tra follia e sapienza è assai labile
Devo confessare di essere stato da subito affascinato dal mondo dedalico e favoloso di Sweeney, quando vi entrai in contatto alcuni anni fa. Forse H. Michael Sweeney è davvero un paranoico: la cosa non lo stupirebbe di certo dato che rivendica con orgoglio, fin dalla definizione del suo ambito di ricerca, l’aver fatto della paranoia una professione. Allo stesso tempo le sue considerazioni investono l’intero ambito della vita del cittadino occidentale: nessuno di noi, sostiene, si può ritenere al riparo dalla violenza delle istituzioni deviate. Detto per inciso, non poco del fascino dell’argomentazione risiede nel fatto di convergere sotto numerosi aspetti con le rivelazioni dei whistleblower o “gole profonde” di Wikileaks con il conseguente e strano accanimento giudiziario nei confronti del suo fondatore Julian Assange.
La questione della paranoia, dice Sweeney, può essere letta esattamente al contrario e non perdere nulla in verosimiglianza, anzi: dato che la rivelazione delle operazioni coperte e delle iniziative fatte per danneggiare o distruggere la reputazione di singoli individui, assume l’aspetto di un delirio paranoide, ecco che la cellula operativa raggiunge con facilità lo scopo di screditare colui che l’ha scoperta e svelata, minando la sua credibilità pubblica. Ma anche nel caso in cui prove ancora più forti impedissero agli agenti (o subagenti) di sgusciare nell’ombra; anche se fossero tracciati e qualche legale si mostrasse disponibile a perseguirli in un pubblico processo, l’Agenzia erogatrice della missione non ne sarebbe sfiorata, e potrebbe dimostrare facilmente che gli agenti stavano agendo di testa propria.
Il web come bacino di informazioni autoalimentato per scovare, schedare e perseguire gli ultimi liberi pensatori
Le operazioni di guerra mentale sono, in conclusione, atti ostili condotti subdolamente con lo scopo di minare la reputazione pubblica di qualsiasi individuo e queste, secondo l’autore, possono anche assumere un carattere preventivo, in quanto applicazione pratica di un disegno di inclusione/esclusione dialettico: insomma, di una selezione in ordine ad una ricostruzione, essa sì di tipo paranoide, della realtà di un’intera società civile. Da questo punto di vista antichi pregiudizi possono fungere da operatori booleani, come quelli che forniscono l’ intelaiatura delle nostre ricerche sui motori: neri, stranieri, sette, minoranze, omosessuali, donne, o i cittadini di una particolare nazionalità possono fornire un plafond automatico di indesiderabili; ma col progredire delle tecnologie di riconoscimento e tracciamento, si può scendere assai più nel dettaglio: ad esempio cittadini con idee libertarie o stravaganti, renitenti all’obbedienza e poco docili posso essere monitorati, seguiti nel tempo e infine emarginati: oppure contenuti e medicalizzati in strutture psichiatriche, nell’aspettativa che arrivino loro stessi a cooperare alla propria distruzione.
Il mondo di H. Michael Sweeney, infine, appare come un incubo distopico, una derivazione tutta contemporanea e abnorme dei governanti della Repubblica di Platone, una incombente Era Glaciale delle libertà individuali. In fondo Sweeney ci dimostra che anche oggi, come in passato, il folle sovente confina con il sapiente, la sapienza con la follia.