la casa nel muro della casa

La casa nel muro della casa. Nel Giorno della memoria: un racconto allegorico sulle cose che vorrebbero restare nascoste ma si rivelano

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Se in un tempo molto precoce avevo, come credo, intuito e forse scoperto le virtù dell’uscita dal corpo, da più grandicello questo si traduceva in una dolorosa coscienza del margine prima dell’oltrechissàcosa. La sospensione del fluire della coscienza mi consentiva di visitare spazi non dati ed allo stesso modo, interiormente, di sperimentare altri stati dell’essere. Come sempre e a chiunque accade, da bambini, la percezione del proprio, del mio, è qualcosa che si costruisce a strappi, per successive precisazioni. Nella nostra casa familiare non c’ erano spazi fissi, e lo spazio vitale ha finito per irrigidirsi e formalizzarsi solo molto tardi. Tutti finivamo per trasferirci di stanza, ci si abituava a portare le proprie cose altrove. Finché fu vivo nostro padre, la coppia genitoriale rimase unita ed occupò la camera da letto principale: questo peraltro toglieva importanza alle altre stanze le quali, aprendosi tutte su uno spazio centrale, sprecato nella mera funzione del transito, non erano mai in modo definito camera di qualcuno. La conseguenza era che i genitori erano stabili, ma i figli cambiavano posto.

Fino a un certo punto io fui ospite della camera maggiore – ma questo fu possibile solo provvisoriamente, finché durò la mia prima infanzia. Per tutto quel tempo i miei fratelli occuparono insieme la stanza accanto, collegata alla più grande da una porta interna. Poi mio fratello maggiore finì ad abitare lo “studio”, la stanza di lavoro di nostro padre che questi, per la malattia, aveva abbandonato. Il mediano restò nella camera accanto ed io ebbi – come prima assegnazione in cui mi era riconosciuta un’ individualità – una cameretta cieca, con un’unica finestra come presa di luce in alto, collegata al vano oblungo della cucina. La cameretta sarebbe stata una vera camera per metratura, se non fosse stata ingombra di armadi nei quali si conservava di tutto ma in particolare coperte, cuscini, lenzuola e federe. Al di là della parete cui si poggiava il mio lettino c’era un salone doppio, nell’ allestimento del quale nostra madre spendeva enormi energie e vaste ambizioni.

Era la sua piazza d’ armi, il Foro. Lei riteneva che coltivando riunioni sociali si creasse in questo modo un ambiente favorevole, senza altri scopi determinati che non fossero il gioco delle carte. Mamma investiva notevoli risorse in queste riunioni e in questi tavoli da gioco, che noi scherzosamente chiamavamo “la bisca”, con tenerezza. Centuplicò i suoi sforzi di organizzazione di tali riunioni di gioco, soprattutto dopo la vedovanza.

Io la capivo perfettamente, ma purtroppo il mio amore non aveva molta presa su di lei. Furono quegli anni in cui raggiunsi il mio più inverosimile peso corporeo (un periodo di forte ingrassamento lo ebbi anche durante il mio lavoro in Argentina, unica volta in cui toccai l’apice di oltre cento chili, ma per ragioni eminentemente artificiose, come il cibarsi di carni gonfiate di steroidi, e per nulla vi influì la mancanza di affetto).

Tutto mi sembrava finito troppo presto. Ero certo di avere ancora diritto all’amore di mamma, la quale però mi sfuggiva, forse a causa della mia sgradevolezza fisica o perché distratta da altro – dal suo disperato bisogno di restare aggrappata alla “buona società”, per esempio. Ma non è di me che dobbiamo qui parlare.

Tutta questa topografia che ho descritto significava l’ambiguo aspetto sotto cui si presentava il mio Angelo di Verità, posto alla testa del letto, un profilo di ceramica bianca su fondo turchino, con le mani affusolate congiunte in preghiera. La mia vita sarebbe stata una specie di caccia al tesoro svolta fra innumerevoli pericoli, ma soprattutto due: una ardente passione spirituale, una anticipazione della luce sovrannaturale e degli abitanti “appena” corporei di quelle rarefatte regioni; e una sensualità sfrenata, panica, terrificante, che mi premeva per darmi in pasto a qualsiasi avventura: eccitazione carnale insaziabile e ubriacante; alcaloide endogeno di tale rara potenza, che l’ ebbrezza del vino da adulto mi avrebbe lasciato poco più che indifferente.

Questo scenario mi era stato, dunque, dato, per poter cercare il segreto della mia natura universale senza morirne, come era purtroppo accaduto al mio caro fratello Dado. Potevo offrirmi, in cambio di qualche indizio di rivelazione, ma non fino al punto di venire, come lui, sacrificato. Con me, e in mio nome, i sacrifici umani in famiglia dovevano cessare per sempre.

Ripensando ai miei più stretti consanguinei, scomparsi troppo precocemente, mi sono spesso chiesto se il loro sacrificio abbia lasciato, sulla Terra e presso di noi, uno strascico di riparazione da compiersi. In altre parole, mi chiedevo se le loro morti (mio fratello Dado, mio padre) fossero da considerare senza consolazione, e dovessero dunque allungare qualche ombra funesta sulle nostre vite… Ultimamente mi sono risposto che questo è, per fortuna, da escludere: il loro passaggio in un’altra dimensione, per quanto drammatico sia stato, è avvenuto in conciliazione con noi, con piena consapevolezza della nostra innocenza e del danno che avremmo avuto dal cessare delle loro vite fisiche. Ne ho concluso che essi erano per sempre i nostri kami e hiai.*

Nella topografia domestica si fece lentamente riconoscere un punto del tutto particolare. La sua esistenza cominciò mostrandosi in sogno. Mi è realmente impossibile dare a questo sogno, composto di numerosi successivi episodi onirici, una datazione certa: dovette però apparirmi molto precocemente (come le fate, che faranno però parte di una [1]diversa descrizione). Provo a spiegare di cosa si tratta.

Come ho detto, in realtà vi erano in quell’ appartamento due sale per ricevere gli ospiti; una era detta camera da pranzo, l’altra era il vero e proprio salotto. Fra le due vi era una breve parete, poi un ampio arco dal quale ricadeva un pesante tendaggio in broccato, o forse shantung, lo dico per via di un certo cupo bagliore che sprigionava quando il sole colpiva il corto pelo cremisi; quindi altra parete, e la porta. Per inciso le porte interne della mia casa avita erano assurdamente vetrate, tutte: cosa pericolosissima quando in quegli ambienti cresce un bambino. Ma la mamma doveva considerarmi inoffensivo, dato che non c’erano altri bambini, intorno, con cui architettare prodezze …

Ebbene nella breve parete divisoria più vicina al muro perimetrale della casa, ad un’altezza di pochi palmi da terra, più o meno nel punto in cui si trova una presa elettrica, in vari sogni successivi io avevo individuato uno spazio murato incongruamente ampio; posso assicurare che nessuna lettura fiabesca né racconto può aver ispirato quella vividissima immagine.

Io pensavo che nello spessore di quella corta parete fosse murato un appartamentino ulteriore, in un unico modulo, anche con un certo spazio esterno a circondarlo, non meno di due stanze e accessori. Girandoci intorno (cosa che era in mio potere di fare) avevo esatta cognizione di due cose: quella era la casa di qualcuno (non poteva essere diversamente), e quella era la casa del peccato. Là dentro dimorava qualcosa di scabroso e inconfessabile.

Logico pensare che si tratti di un qualche molto singolare simbolismo psichico: ma sono convinto che fosse ben altro. L’attrazione di quell’ interspazio era irresistibile. Ricordo di essere entrato in quella casetta, di averla percorsa in lungo e in largo ma di non avervi incontrato nessuno. Restava comunque da spiegare perché quella modesta abitazione fosse murata – e dunque nascosta – dentro un’altra casa. E nell’ interesse di chi ciò era stato fatto.

L’impresa di nascondere un’abitazione in un muro era un’idea folle e destinata a sicuro oblio. Anche se l’accesso per raggiungerla era estremamente impervio, un simile spazio di una cinquantina di metri quadri non poteva che essere raggiunto spiritualmente. Un ulteriore segno di un mio particolare tipo di carattere, che mi avrebbe per sempre destinato al segreto e al timore della popolarità. Questa coscienza di predestinazione rese la mia tarda infanzia di una tristezza indescrivibile. Pian piano imparai ad uscirne, grazie all’ attitudine per il racconto e alla possibilità di entrare e uscire, di salire e discendere, a volte – quando fui più grande – di discendere troppo, con gravi cedimenti che fortunatamente non si materializzarono in caduta. I due (forse tre) vani con piccolo giardino sono ancora in quella parete, che alcuni anni fa è stata completato in muro e chiusa, separando definitivamente le due sale del soggiorno.

Credo sia impossibile non domandarsi: vi abitava qualcuno? Chi vi abitava? E vi abita forse tuttora? Se ha qualche importanza, posso dire di essere stato convinto, da subito, che qualcuno o qualcosa risiedesse lì. Quando percorrevo estaticamente l’interno, sentivo molto intensamente il calore di partecipazione del suo abitatore. Ero molto dispiaciuto che non si mostrasse, certo. Ma avevo anche la pelle d’ oca: mi terrorizzava l’idea di conoscere questo inaspettato inquilino di una parete trascurata del mio spazio esistenziale. Molti anni dopo, mi venne in mente la difficoltà di mostrarsi che sembra avere il divino nei nostri confronti.

L’ unica, autentica domanda della teologia – se e nella misura in cui fosse una vera scienza – dovrebbe essere: perché Dio non si mostra? Questo estremo pudore non è forse una forma di presunzione, di noncuranza verso di noi? Se anche fossimo suoi figli – cosa che mi deve dimostrare oltre ogni dubbio – è questo il modo di trattare i propri figli? E se invece fosse un demone, ad abitare là dentro? ©RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Questo racconto è tratto da Diamanti nel letame

* si tratta di potenze ancestrali divine o divinizzate che incutono timore reverenziale, buone o cattive all’occorrenza, derivanti dal culto Shintu giapponese.

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