La Golden Age del Sindacato

La “Golden Age” del sindacato. Intervista a Giorgio Benvenuto #1

//
599 Visite

Caro Giorgio Benvenuto, è un piacere e un onore questo dialogo con uno dei protagonisti indiscussi del sindacalismo italiano con Carniti, Trentin e Lama; Segretario generale della UIL, Segretario del Partito socialista Italiano per 100 giorni, Vicepresidente della Federazione Europea dei Metalmeccanici (1971-1976), Vicepresidente della Confederazione Europea dei Sindacati (1978-1981; 1987-1990), Deputato nella XII e XIV legislatura poi Senatore, dal 1990 Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica, fra i fondatori di Alleanza Democratica con Bordon, Adornato e Bogi, e ancora molto altro. Partiamo da questo: sei stato fautore dell’ unità sindacale nel 1972 con Carniti e Trentin fondando la FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici). Cosa è rimasto oggi di quel vasto disegno?

Il mondo è cambiato… E’ rimasto un esempio di come, in una situazione completamente diversa da quella di oggi, il sindacato diventò un soggetto politico autonomo e realizzò degli importanti cambiamenti. Quella è stata per il sindacato la Golden Age, il periodo di maggiore forza, sia perché la situazione politica non era definita, sia perché il paese stava cambiando. Aveva le grandi fabbriche e una fortissima presenza di giovani che chiedevano cambiamento; l’unità fu l’arma segreta che permise una nuova strategia contrattuale. I contratti allora venivano fatti di solito con la mediazione delle confederazioni (sindacali, ndr.); vennero fatti direttamente dalle categorie. Esisteva una visione oggi in parte dimenticata; oggi prevale la strategia del “giorno per giorno”, e la “visione” fa i conti con molte realtà diverse… Allora la “visione” dei metalmeccanici era di conquistare diritti e realizzare una eguaglianza fra i lavoratori. Penso al contratto del ’73. Se tu hai dei diritti devi essere capace di esercitarli! In quel momento il sindacato pose il problema della conoscenza, della cultura. Le 150 ore, l’inquadramento unico: non basta resistere un minuto in più del padrone; bisogna conoscere un libro in più del padrone.
Un sindacato non corporativo, anche questa era la “visione”. Che si ponesse i problemi della società e del paese. La prima cosa importante fatta dopo l’unità sindacale fu la manifestazione di Reggio Calabria, con l’obiettivo che l’Italia fosse meno diseguale. Che invece di avere i lavoratori che andavano al nord, fossero le fabbriche ad andare al sud. Emerse allora una grande solidarietà. Ricordo due episodi. Si andò a Reggio Calabria, vennero da tutta Italia; misero le bombe sui treni, e ci fu un atto di solidarietà incredibile: i ferrovieri guidarono delle locomotive-civetta per aprire la strada ai convogli dei manifestanti. C’era tensione, c’erano state le bombe. Il sindacato riflette se è il caso di andare avanti, per il timore di ulteriori attentati. I lavoratori di una piccola fabbrica reggina, l’OMECA, prendono il loro striscione e dicono: voi non volete fare il corteo perché avete paura? Siamo noi che lo facciamo. E invece delle pietre, arrivarono i fiori.
Tutto questo era possibile per il prevalere della solidarietà, non c’era individualismo. Tu non parlavi ai lavoratori, parlavi con i lavoratori.

Nel 1976, quindi, ci dicemmo: abbiamo la conoscenza, abbiamo le 150 ore. Ora dobbiamo discutere con l’azienda sulle scelte di carattere strategico. Il nostro compito non si ferma a una più equa divisione dei profitti, ma coinvolge anche la strategia politica! Un’intuizione che già aveva avuto Turati. Turati diceva: non possiamo accontentarci della carità pelosa delle aziende, di dare delle azioni agli operai; la fabbrica deve essere come un condominio, gli operai sono condomini e devono sapere quello che avverrà. I lavoratori devono partecipare alla strategia, alle scelte, anche in ordine alla salute, di un’azienda che abbia i conti in ordine; perché se non ti preoccupi della competitività di un’azienda, corri il rischio di dover poi negoziare sui licenziamenti. Sulla cassa integrazione. Ci si impegnava, allora, a portare avanti la capacità di pensare e di fare degli operai. Così, nel ’79, si pose la questione di affrontare la ristrutturazione produttiva del nostro paese. Insomma, quella degli anni settanta è stata una stagione importante, si sono dovuti contrastare tanti problemi come la contestazione, per trasformare la protesta in proposta. E il terrorismo, che non di rado ha preso di mira quadri sindacali. Di tutta questa fase il sindacato fu protagonista. Ecco quella che chiamo la Golden Age della rappresentanza. Su un piano personale quella con Carniti, con Trentin e dopo con Lama quando andai in Confederazione, non era solo collaborazione, ma un’amicizia fraterna. Provenivamo da tradizioni diverse, certo: ma i valori dell’amicizia, della sincerità, della… chiarezza nel dissenso, rafforzavano il nostro rapporto. Non c’erano le furbizie, le astuzie che spesso prevalgono nella politica. In quegli anni abbiamo sconfitto il terrorismo e conquistato i diritti civili (divorzio, legalizzazione dell’interruzione di gravidanza, abolizione dei manicomi, ecc. ndr.) in un paese che è poi entrato a
testa alta nell’ Unione monetaria… Quello che conta è ricordare l’energia positiva di quel tempo; non c’era il pianto e il rimpianto: c’erano questi giovani uomini e donne che non volevano più fare la vita dei loro genitori: volevano cambiare, nell’ottica di una crescita complessiva del nostro paese. È stato allora che il sindacato ha avuto la sua massima crescita numerica, che si è ramificato. E ancora oggi è una realtà importante, che raduna milioni di iscritti. Poi, negli anni ottanta, le cose si sono complicate. La fine del compromesso storico, della collaborazione “esterna” del Partito Comunista alla direzione del paese… Con le divisioni nella sinistra italiana, il sindacato si è poi trovato in una situazione di debolezza. Anche a fronte della ristrutturazione delle aziende, dell’innovazione tecnologica. Il sindacato non può rimanere fermo di
fronte a processi di tale portata.

Si può parlare, per il sindacato, di un’imperfetta comprensione, o sottovalutazione, della celebre “marcia dei quarantamila” colletti bianchi alla Fiat del 14 ottobre 1980?

In quella vicenda il sindacato fu sconfitto. E lo fu per una scossa originata dalla crisi politica, perché il PCI era andato all’opposizione. Pochi ricordano, di Berlinguer, un discorso fatto al Festival dell’Unità, nel quale affermava: voi (sindacalisti) non dovete fare le trattative a Roma, ma fare come Walesa (Lech Walesa, leader del sindacato Solidarnosc; con un lungo sciopero sancì in pratica la fine del regime comunista, ndr.) in Polonia; dovete parlare con i lavoratori che sono in fabbrica. Fu in quel momento che iniziò ad una fase difensiva del sindacato.

Parliamo del decreto “di San Valentino” del 14 febbraio 1984, governo Craxi, che aboliva la scala mobile, sganciando per sempre i salari dall’inflazione. Come lo giudichi oggi?

Una ferita che non si è rimarginata. Ci fu il referendum (abrogativo del decreto; Benvenuto e la UIL si schierarono per il no all’abrogazione e i “no” prevalsero, ndr.), lo vincemmo e io dissi: dobbiamo pensare a quelli che hanno votato contro il decreto; il paese si era spaccato in due. I dirigenti sindacali non avevano voluto questa spaccatura, al proposito ricordo Lama… In quegli anni crebbe la divisione nel sindacato. Sia la marcia dei Quarantamila che l’abolizione della scala mobile sono state vittorie di Pirro. Perché negli anni ottanta il sindacato è rimasto inchiodato ad una posizione essenzialmente difensiva. Mentre facevamo questa specie di guerra santa il mondo è cambiato: la nuova centralità del mercato, la globalizzazione, l’Europa… Siamo arrivati alla caduta del muro di Berlino, e la sinistra non ha colto quell’opportunità per una revisione profonda e una nuova possibile unità. Voglio dire che la sinistra non ha colto l’opportunità, offerta dalla caduta del muro con la conseguente fine del “socialismo reale” (i paesi dell’est Europa), di inaugurare in tutto il continente una sinistra sociale e socialdemocratica. Delors (Jacques Delors, dal 1985 al 1994 presidente della Commissione delle comunità europee, divenuta nel 1993 Commissione europea, ndr.) rappresentava molto bene queste istanze. Invece negli ultimi decenni in Europa ha prevalso l’ideologia del mercato, la competitività, il mercatismo.

Oggi l’Unione Europea è percepita da molti come antagonista degli interessi “nazionali” o, nel migliore dei casi, come un’istituzione pletorica che scontenta tutti, facendo solo gl’interessi dei paesi più potenti.

Cosa è avvenuto, in questi anni? Con l’allargamento ad est è cominciato il “dumping” sociale. Molte aziende si fanno concorrenza con questo strumento, delocalizzando non in India o in Cina, ma in altri paesi europei in cui non sono garantiti i diritti dei lavoratori. Oppure, la competizione fiscale: alcuni paesi sono paradisi fiscali mentre altri, fra i quali l’Italia, sono inferni. In questi nuovi scenari il sindacato certo, è rimasto in piedi, ha conservato buona parte della sua forza; ma restando in una posizione difensiva e rinunciando a governare le trasformazioni in atto mentre, durante la
“Golden Age”, era stato fortemente propositivo.
Oggi la situazione nel mondo del lavoro costringe il sindacato a chiedere dei miglioramenti, mentre prima era un interlocutore fondamentale, cioè partecipava alla progettazione strategica, alla “visione” dell’Italia dell’avvenire. Lo stesso Draghi, lo abbiamo visto, in fondo è stato cortese perché informava la parte sindacale… Ma qui non si tratta di informare come mero atto di cortesia… In altre parole, è saltata l’intermediazione sociale. Quando sono “saltati” i corpi
intermedi, la concertazione, la progettazione, inevitabilmente è prevalso l’individualismo e il mercatismo (la guerra di tutti contro tutti, ndr.). E le diseguaglianze sono aumentate, tutto avviene ad una velocità inaudita e nessuno – neanche le imprese – riesce a guidare questi cambiamenti! Noi oggi abbiamo l’esigenza di accelerare il passo, senza inutili rimpianti di ciò che è stato; intanto il sindacato deve ritrovare l’unità – perché un sindacato diviso è solo più debole e facilmente “scalato” dai politici – poi deve rivolgersi ai giovani e ai lavoratori, in breve deve tornare a dialogare. Non puoi limitarti a dare direttive, a registrare i “like”, a dare ordini su cui poi chiedere un assenso, dato controvoglia, ai lavoratori… Deve tornare ad essere centrale la dignità della persona. Questo ci riporta al concetto di solidarietà che faceva parte, anzi era fondamentale, nell’umanesimo socialista. Oggi, pur con tutti i suoi problemi, di dignità della persona ne parla solo la Chiesa, il Papa. E’ il Papa che ricorda San Francesco, quando va dal sultano e dice: io non vengo
qui per convertirti o per essere convertito, ma per dialogare.

Insomma, il sindacato deve riconquistare le menti e i cuori di iscritti e simpatizzanti e abbattere il muro che lo separa dai giovani, molto spesso un muro linguistico.

Infatti il sindacato non è in crisi, come molti sostengono. E’ una realtà importante, con tanti iscritti e ha una presenza diffusa sul territorio. Ha il problema non di esibirli, ma di unirli, di proporre, insomma di avere una strategia non difensiva. L’Italia, sono dati dell’OCSE e della Banca d’Italia, negli ultimi vent’anni è solo andata indietro: il lavoro è diventato precario, il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni è diminuito. Allora è aumentata la produttività? No, anche quella è peggiorata! Come fai a rivolgerti a dei giovani dicendo: non si trovano i camerieri, non si trovano quelli che potano gli alberi… quando questi giovani hanno studiato, proprio per raggiungere posizioni migliori! Quel che m’impressiona è che il mondo politico ignori questa realtà evidente: che i nostri giovani vanno all’estero perché lì trovano una rispondenza, perché trovano chi investe sul loro sapere. Un tempo gli “emigranti” erano poveri disperati; erano i contadini del sud che andavano nelle miniere in Belgio, o a Torino con la valigia di cartone. Oggi vanno in giro con il
computer e fior di lauree.
E come potrebbe essere diversamente l’attuale crollo demografico, senza la doverosa valorizzazione di queste competenze infinitamente più sofisticate di quelle che mai abbiano avuto, in passato, i lavoratori? La messa in valore deve avvenire prima di tutto dentro il nostro paese, perché si fermi questa duplice emorragia: fuga all’estero e bassa natalità.

Ritieni che ci siano energie sufficienti per convertire in positivo questa de-crescita?

Le energie ci sono, e sono molto robuste. Penso a tutto il terzo settore, il no-profit (gli enti economici di solidarietà e di utilità sociale, ndr.). Si deve ritrovare confidenza nella capacità di progettare la società, facendo appello alle forze racchiuse nella società stessa.

Non credi che anche la compagine degl’industriali, negli ultimi anni, si sia ingaglioffita, che cerchi di approfittare di incentivi e politiche compiacenti, investendo soprattutto nell’azione di lobbying?

Dipende dal fatto che Confindustria ha perso le grandi aziende. Puoi immaginare un’associazione degli industriali che perde la Fiat? Per fortuna che in Italia ci sono tante piccole aziende che vanno avanti; e chissà quando si accorgeranno di essere manipolate dalle medie, che oggi comandano. Un’altra riflessione seria, dev’essere fatta su come in Italia sono state distrutte le aziende a partecipazione statale. Nel giro di poche settimane. Lo si è fatto per fare cassa. Senza che fosse stato preparato un ceto imprenditoriale che prendesse a proprio carico settori strategici. Invece si è venduto a scatole vuote, che non vedevano l’ora di cambiare settore d’impresa o di togliere le fabbriche dall’Italia, come nel caso dell’acciaio. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

[finisce qui la prima parte dell’intervista, ndr]

I post più recenti nella categoria Art.18