Maurizio di Tollo come Capitan Harlock

Maurizio di Tollo come Capitan Harlock: pirati dalla sconfinata umanità

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Nella carriera artistica di Maurizio di Tollo – batterista, compositore, autore, cantante, polistrumentista che, sono parole sue, «dal 2001 al 2014 ha infilato le bacchette in una trentina di dischi di rock progressivo italiano». E qui si fa riferimento a band come “Distillerie di Malto”, “Moongarden”, “La Maschera Di Cera”, “Finisterre”, “Hostsonaten”, “Rohmer”, “L’Ombra Della Sera” e “ADM”, oltre ad aver calcato «palchi italici, europeici e americhevoli, distribuendo prog come i vecchi che sono di mazzo distribuiscono le carte, nel giuoco della briscola» – incontriamo già una mappa, alcune coordinate per entrare in contatto con la sfera più intima di un musicista che ha fatto del suo percorso dignità e coerenza. Perché si arrivi a un’immersione più profonda nell’interiorità, fondamentali sono gli ultimi tre lavori: L’uomo trasparente del 2012 [ascolta il brano I topi saranno i vincitori], il debutto solista, seguito da Memorie di uno sparring partner del 2015 [ascolta il brano Il cielo è un uomo solo] e, infine, E pensa che mi meraviglio ancora [ascolta il brano Stop al televoto], disco realizzato nel 2021 insieme al talentuoso Cristiano Roversi, sotto il nome di “Il Porto di Venere”. Un ritorno dunque alla band, che vede coinvolti anche i musicisti Stefano Zeni, Marco Remondini, Elisa Minari ed Erik Montanari. Al momento tre atti nei quali di Tollo, oltre ad avere temporaneamente accantonato i panni del “batterista per altri”, senza risparmiarsi ha scavato a fondo in quel territorio umano di amori finiti, ideali maltrattati, lunghe attese e silenzi sconfinati. E questi tre momenti sono porte socchiuse per lasciare l’ascoltatore libero di affacciarsi sopra una vita dedicata alla musica in ogni sua declinazione (giornalismo compreso: in giovane età, inviato al Festival di Sanremo, ha avuto modo di intervistare celebrità internazionali – tra le quali i Depeche Mode).

In una delle tante telefonate fatte a Maurizio, ricordo un giorno quando mi disse di non essere un dopolavorista della musica, che non significava solo dire la musica è il mio unico reddito, ma anche l’assecondare una Natura contro la quale sarebbe stato impossibile andare. Forte di un background che arriva dall’infanzia da ascoltare attento e appassionato, Maurizio di Tollo attraversa la musica come Capitan Harlock attraversa l’Universo, in una perfetta formula di somiglianza e  resistenza. Qui abbiamo indignazione e ribellione sono verso le leggi ridicole di vendita e mercato imposte dai “signori della musica” e da una certa apatia dell’ascoltatore che dalle scelte degli altri si fanno guidare. Maurizio di Tollo è il Phil Collins italiano. Nel senso che, con il frontman dei Genesis, condivide cartelle cliniche e sfighe sentimentali, dice di se stesso nell’intelligenza auto ironica di una nota biografica che ho avuto il piacere di ricevere. Per poi proseguire la sua storia artistica in forma di racconto, che ha l’intenzione di essere un gioco molto serio: trascurabilmente, anche lui suona la batteria, canta e scrive canzoni prevalentemente tristi. Riconoscendo all’amicizia quel significato nobile che oggi si è perduto: ha avuto modo di spalleggiare cantautori tricolori di qualità oro, come Francesco Baccini, l’amico solare di mille scemate e il compianto Enrico Nascimbeni. E considerando premi e riconoscimenti per quello che realmente sono: non un punto di arrivo, ma una conferma a non ripetersi, nel 2008, vinse un premio legato a Fabrizio De Andrè. Ne guadagnò un bacio sulle guance da Dori Ghezzi e la consapevolezza di dover andare altrove, rispetto alla famigerata “direzione ostinata e contraria”, dove, pare, ci siano tutti e che, ormai, sembra il Raccordo Anulare, nell’ora di punta. La targa ricordo, la vide per qualche secondo e la cedette ad altri. Per dire quanto gli interessino i premi. Quanto al suo percorso solista, riconosce lucidamente un dato di fatto: si è messo a fare dischi da solo: due album, usciti nel 2012 e nel 2015. In tanti, ne hanno parlato bene. In pochi, li hanno acquistati.

Uno spazio di prestigio va alle collaborazioni con altri musicisti, tra i tanti David Rhodes, Ged Lynch, Vittorio Nocenzi, Roberto Gualdi, Faso, Christian Marras e Armando Corsi. Senza tralasciare un’altra parte fondamentale nel suo percorso, che è l’insegnamento: «ama insegnare musica. Letteralmente. Adora lavorare coi bambini, coi giovani, con gli adulti, l’importante è che conservino la meraviglia dei piccoli. Ritiene un privilegio trasferire la propria esperienza agli altri. Lo ha fatto ad Ortona, a Milano, a Genova, in varie località del Lazio e, ora, anche on line. E nel futuro prossimo? Nel futuro, c’è “Il Porto Di Venere” l’open band fondata con l’amico Cristiano Roversi, che rappresenta un amorevole ritorno al prog, e l’inizio delle registrazioni del fantomatico terzo disco da solo, che non assomiglierà a nulla di ciò che ha fatto prima. Ecco, questo è Maurizio di Tollo: un uomo che sa quando dover essere serio e quando no. Come adesso, ad esempio». Quindi l’arte di Maurizio di Tollo, di questo romantico e stoico pirata legato a ideali che nella società attuale hanno sempre meno spazio, è un patrimonio umano dal quale attingere e noi ascoltatori abbiamo questo preziosissimo dono e i tanti, forse troppi, addetti ai lavori la responsabilità di non lasciarselo sfuggire tra le dita o, peggio, nell’indifferenza.

Maurizio di Tollo come Capitan Harlock. L’intervista

Artisticamente dove e quando nasce Maurizio di Tollo?

Amico mio, talvolta credo di aver vissuto molte nascite e relative morti, con qualche, sporadica, epifania qua e là.

Da bambino, ero l’archetipo dell’emarginato e di colui che veniva bullizzato dai propri coetanei. A quanto pare, l’unica colpa che avevo era possedere una buona proprietà di linguaggio “adulto”, emessa senza cadenza dialettale alcuna.

Ho cercato qualcosa che fosse solo mia e la musica mi ha folgorato. Qualche tempo dopo, ho deciso che sarebbe diventato il mio mestiere, pur non avendo ancora compreso quale fosse il mio strumento.

Seguono una serie di “prime volte”, ma la mia vita la vivevo già attraverso gli occhi dell’arte.

Che è un filtro particolare, con una visione ben lontana dalla realtà di tutti i giorni.

Un diverso “sentire”, con le conseguenze che puoi immaginare.

L’uomo che sono, inscindibile dall’arte che tento di creare e vivere, quindi, nasce da quel bimbo ai margini.

Si fa sempre riferimento a un ambiente. Tu quanto appartieni, quanto fai riferimento all’attuale ambiente musicale italiano?

“L’ambiente musicale italiano” non esiste, è una immagine desueta.

Esistono singolari forme di vita: grandi, medie, piccole caste che, dopo essersi formate, ergono muri altissimi attorno a loro, vietando l’accesso a chi non è tra gli eletti. Branchi composti da un numero variabile di musicisti, solitamente legati a generi di nicchia, che si autoalimentano attraverso il proprio ego, depositari di verità assolute, enunciate da pulpiti autocostruiti, convinti della propria superiorità culturale rispetto alla massa ma che, segretamente, darebbero il pancreas a favore di un’intervista da Mara Venier o Fabio Fazio. In ordine sparso, alcuni cani sciolti, affamati di rifrazioni provenienti dai riflettori, nell’affannosa e cannibale ricerca di un minimo di consenso e di un posto nel mondo.

Un tempo, anch’io ho compreso di essere divenuto un nome da catalogo e ho avuto paura, allontanandomi il più possibile da cooperative artistiche tossiche.

Faccio le mie cose come fossero messaggi in bottiglia, senza usare gomiti, senza illusioni, senza inadeguati ottimismi.

Auspicandomi dignità, unica iperbole vitale, almeno per me.

Il tuo primo disco solista, L’uomo trasparente, è del 2012. Tanti anni dopo aver iniziato la carriera da musicista e tanti dischi dopo, dove hai suonati per altri. Perché un esordio così meditato?

Perché non avevo particolari velleità a riguardo. Scrivere, fare dischi a mio nome, addirittura cantare, erano cose alle quali non pensavo, accontentandomi di suonare la batteria nei dischi altrui.

Iniziai a comporre per esigenze di lavoro: dovevo occuparmi della produzione artistica di una interprete e le mancavano brani inediti. Evidentemente, avevo sommato tanta vita e tanta strada nella musica al punto da scoprire di possedere le giuste competenze per costruire canzoni. E non mi sono più fermato.

“L’Uomo Trasparente” l’ho scritto per togliermi dal cuore dei pesi enormi, è stato terapeutico, ho capito chi ero a quel punto della mia storia. Ed è arrivato nel momento giusto, dopo le giuste e formative esperienze, musicali e non.

Puoi parlarmi della fatica?

Nel cielo, c’è un sole che brilla per tutti, sia per chi vive in un attico, sia per coloro che stanno rintanati in una cantina. Ma è indubbio che, per questi ultimi, accedere ai suoi raggi è terribilmente complicato. E, pur riuscendovi, il benefico calore sarà comunque inferiore a quello che potrà investire chi vive in alto e non ha bisogno di nessun sacrificio particolare, per goderne.

Inutile dirti che, dalla cantina della mia esistenza, la fatica domina ogni singolo istante e gesto. Dall’alzarsi dal letto, per poi tornarci dopo aver collezionato un altro giorno, ogni cosa possiede un peso enorme, ogni passo si fa sempre più doloroso, ogni decisione riguarda solamente il sopravvivere.

Fare un disco, farlo bene, costa una fatica immane e devi combattere ogni secondo con l’ancestrale quesito, riguardante cosa ti spinge a farlo e a cosa mai potrà servire.

Insistere è da carbonari. Ma alla fine, se al posto della soddisfazione prevale il sollievo è perché ti era necessario realizzare quell’opera cosi come ce l’avevi in mente.

Affinché la collezione dei giorni abbia un senso.

La solitudine dell’artista è solo un mito letterario?

Bella domanda! Credo che l’immagine romantica dell’artista “in torre d’avorio”, che diventa isola per entrare in contatto con il suo io più profondo per creare qualcosa d’indimenticabile, più che una condanna, la percepisco come un lusso.

Maggiormente probabile, almeno oggi, è la consapevolezza di possedere una fragilità che va a cozzare contro una società di predatori, indietreggiando fino a nascondersi, per legittima difesa, facendo sì che le proprie creazioni stiano a rappresentare l’esclusivo e personale contributo al vivere comune.

Personalmente, mi reputo un oggetto rotto e ho poca dimestichezza con le meccaniche sociali in generale, figuriamoci quelle richieste dal sistema musicale. Ma non saprei dirti quanta di questa solitudine influisca su ciò che scrivo. Forse, hanno ragione i presenzialisti, coloro che hanno necessità di palesare il proprio status in ogni occasione, vai a saperlo. Certo, per scrivere e raccontare, bisogna vivere. È altrettanto vero che, nel luogo della mente dove si va per creare, ci si va da soli.

Del mondo della musica italiano, fatto di alti e bassi, ultimamente più di bassi che di alti, non riesco a dimenticare la triste e assurda vicenda accaduta a Mia Martini. Perché fatti così miserabili?

Perché, sul confine che separa l’artista puro dal mainstream, la presenza di persone miserabili è numerosa e insopportabile.

E le cose, dalle ignominie subite da Mia Martini, sono andate solo peggiorando.

Ti aspetteresti di trovare, nei piani alti dove viene deciso tutto, uno spessore umano e culturale statuario.

E invece, più si sale, più ci si sporca di merda.

Spezzare il gambo di una rosa, non la fa appassire subito. Ma, lentamente, muore.

Come è accaduto a Mia, troppo vera in un ambiente di pagliacci, troppo delicata per essere maneggiata da mani sporche.

E per una storia come quella della Martini, conosciuta da tutti, ci sono milioni di storie sommerse di sogni infranti e carriere drasticamente terminate, a causa di persone mediocri e senza scrupoli.

Queste cose accadono ancora, basti considerare la volgarità di certe strategie di mercato, atte a monetizzare il nulla.

Il tuo secondo disco solista, Memorie di uno sparring partner, è del 2015. Dal progressive alla canzone intima d’autore, che cosa ti ha spinto in quella direzione?

Nulla. Ho solo seguito l’istinto e l’evoluzione della mia scrittura. Non mi sono posto limiti, non mi sono imposto dei paletti. Come sempre, ho scritto quando sentivo di farlo e la natura dell’album si è creata da sola.

In effetti, anche L’Uomo Trasparente non è un disco totalmente prog, pur possedendone alcune caratteristiche, come il fatto che sia un concept album e abbia talune digressioni strumentali. In Pioggia Sulla Memoria, però, me ne andavo a zonzo in territori dark, Casomai, Milioni di Occhi Al Cielo e I Topi Saranno i Vincitori hanno la stessa attitudine dei brani presenti in Memorie di uno sparring partner. Il prossimo, poi, sarà diversissimo dai primi due.

Piuttosto che pensare a un target di riferimento, preferisco offrire ciò che sento davvero.

Mi sembra più onesto.

Mi piacerebbe sapere cosa è stato per te vincere nel 2009 il concorso Notturno per Faber con la canzone Notturno delle parole scomposte cantato da Chiara Jerì ed essere premiato da Dori Ghezzi.

Dieci secondi di esaltazione, perché non ho mai vinto nulla, nemmeno quando compravo boeri. Poi basta.

Non credo nei premi, non credo nelle classifiche. Credo che la musica non sia una scala a pioli ma un luogo pronto ad accogliere tutti.

Poter manomettere parole inedite di De André e trasformarle in canzone è stato l’unico motivo per cui partecipai.

Tutti i riconoscimenti fisici di quel risultato, li ho ceduti a Chiara.  Mi sono preso l’abbraccio e i baci di Dori Ghezzi e sono tornato a casa.

Con la convinzione di non volere usare quell’evento per determinare la mia carriera e ridurmi a scimmiottare l’inimitabile Faber solo per convenienza.

Preferendo, però, seguirne l’esempio e portare l’ascoltatore in territori sempre diversi, dettati da istinto e onestà intellettuale.

Dal 2015 silenzio sino al 2021 dove torni con un grande progetto, pensato e realizzato insieme allo strabiliante musicista Cristiano Roversi (che mi permetto di considerare, insieme a te, uno dei migliori della vostra generazione). Perché Il Porto di Venere?

Perché Cristiano e io ci vogliamo bene.

Perché siamo i due bambini che, al parco giochi, hanno gli stessi giocattoli strani, mantre gli altri hanno quelli soliti.

Perché, nei suoi dischi, ci trovo qualcosa di me e, nei miei, lui ci trova qualcosa di se.

Perché creare quel progetto è stata una situazione felice, dal primo all’ultimo atto.

Tutto il resto, viene dopo.

Quel disco siamo noi, seduti di fronte ai tavolini di un qualsiasi bar della piazza di una qualsiasi città italiana, mentre sorseggiamo un liquore d’altri tempi con i nostri amici e, contemporaneamente, ci raccontiamo un po’ di vita e guardiamo i nostri figli giocare.

I figli di tutti.

Presto, inizieremo a lavorare al secondo capitolo.

Oggi, passata la mezza età, con un’esperienza trentennale da musicista, di cosa sei deluso e di cosa soddisfatto?

Mi addolora assistere al mio mestiere, il mio amore più grande, che muore, nell’indifferenza di un pubblico rincoglionito, di vedere tanta gente di talento cambiare lavoro e arrendersi, l’assenza di punti di riferimento culturali per i nostri ragazzi.

Mi deludono quegli artisti invecchiati male, a cui dovrebbero vietare l’uso dei social, sui quali riescono a cancellare la magia che li contraddistingueva, sostituendola con un livore tipico degli uomini piccoli in cui si sono tramutati.

Mi hanno deluso coloro che da artisti si sono trasformati in mestieranti, per due lire.

Mi soddisfa, però, quando mi faccio la barba, riconoscere quel volto allo specchio.

Che non è la faccia di un genio o di un vincente.

Ma è la faccia di uno che non si è venduto, che, nel corso di una vita, ha perso soldi, amore, treni ma mai la dignità.

E la dignità è una buona compagna con cui invecchiare. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Per l’immagine in alto: ©Paolo Forti

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