Giuliano Vasilicò inedito. La settimana scorsa abbiamo pubblicato la prima parte di questa intervista al grande regista teatrale. Oggi pubblichiamo la seconda. Buona lettura.
Giuliano aveva superato un’accentuata forma di balbuzie grazie al teatro, mettendo in scena e mettendosi in scena, offrendosi come corpo. Ho sempre avuto ammirazione per chi prova ad andare oltre sé stesso, a sconfiggere i propri limiti fisici e, non di rado, psicologici e mentali. Il teatro è anche, e forse soprattutto, una terapia dell’ombra: materializzando i propri fantasmi si tenta di uscire dall’internamento nell’ossessione e nella nevrosi; li si esteriorizza come personaggi e gli si assegna un ruolo, si mette al lavoro il demone che pretenderebbe di parlare solo a noi; presentandolo ad un pubblico esso viene depotenziato, la sua carica disturbante viene offerta e condivisa con molti, diventa cibo scenico. È noto che una fonte d’ispirazione per la drammaturgia di Pirandello fu la follia della moglie e la vergogna che lo scrittore provava, sentendosi abbandonato dalla società durante quel quotidiano duello con la malattia mentale. Ma non è stata solo l’elaborazione del negativo, la ragione della grandezza del teatro di Giuliano Vasilicò. Il suo dirompente successo, che ne fece nel volgere di meno di un decennio un Maestro riconosciuto a livello internazionale, fu il suo incontrare un’epoca ad un vero appuntamento d’amore. Il riuscire a darsi, e ad accreditarsi, come colui che molti attendevano. Il regista in scena, la scena che invade la platea – ma vale anche il contrario.
F.G.
…È molto interessante questa cosa che mi stai dicendo… Oggi dunque ci sarebbe il rischio di un nichilismo?
Appunto. Il nichilismo come segno d’arte negatore dell’arte. È inevitabile, secondo te, che l’arte contemporanea abbia un carattere nichilistico?
Se l’arte non fosse nient’altro che estetica, questa cosa sarebbe inevitabile… Invece l’arte è anche un’istituzione morale, direbbe Schiller, ma forse attraversare l’ inorganico è inevitabile… Quando tu parli di estetica comprendi solo i fenomeni artistici?
Direi di no.
Ecco. In questi anni la mia ricerca teatrale è tesa a dare una risposta alla domanda: che cos’ è il teatro? Cos’è l’arte? Desiderio di cambiare il mondo dal punto di vista spirituale… diciamo fino ad arrivare ad un mondo dove ci si esprima eticamente in modo automatico. Anche le motivazioni dell’estetica sono etiche, derivano da essa. L’ arte, il teatro possono essere uno strumento per sperimentare nella finzione nuovi modi di essere. Tramite l’immedesimazione vivere la vicenda scenica quasi fosse vera, così da trarne indicazioni utili anche per la vita.
La tua è una posizione filosofica.
È filosofia dell’arte, ma non può non attraversare l’ essere e modificarlo, questo calvario che percorre l’ essere, perché una certa idea dell’arte è entrata dentro e provoca una trasformazione… Ho visto un Amleto dei Raffaello Sanzio [Romeo Castellucci, ndr.]; è la mia compagnia preferita, o perlomeno lo era. Hanno fatto degli spettacoli straordinari, hai visto quello che si chiamava “Teatro Khmer”?
Sì, l’ho visto: “Santa Sofia”; più recentemente ho visto l’Orestea, molto bello. Usavano un apparato impressionante per rifare una tragedia in grado di colpire, ma l’intreccio in pratica era abolito…
Esattamente come in Amleto, che mi è piaciuto meno dei precedenti: Shakespeare era troppo lontano da questo loro Amleto tecnologico che, insomma, non mi ha convinto.
Quindi, tornando alla domanda: l’arte è un passaggio necessario? Rispondo che a mio avviso è inevitabile, per coloro che sentono la necessità di un salto nel vuoto e non hanno il coraggio di farlo. In teatro si può simulare questo salto, di conseguenza nel teatro si può delineare una dimensione armonica impossibile nella vita.
Senti, nelle riflessioni intorno all’arte ci si accorge, a un certo punto, che gli autori di una certa epoca si possono raggruppare; c’è qualcosa di definibile come “moderno” in un certo uso dei termini, o delle immagini. Si possono notare espressioni e tensioni comuni.
Certamente.
Così tu fai “teatro di scultura”, ma in definitiva non è la fruizione che mantiene in vita l’arte? Secondo te, ci sono ancora le masse umane del pubblico, che fanno da eco e da risonanza, che rendono possibile l’aver corpo dell’arte?
L’arte ha bisogno del pubblico. Ma ci sono lunghi periodi nei quali l’artista deve avere il coraggio di farne a meno, ed andare avanti da solo. Ma se tu dovessi esprimere l’idea di fondo del tuo saggio, cosa diresti?
Essenzialmente che non si può parlare del cattivo gusto senza parlare del gusto; e chi ritiene di sapere cos’ è il cattivo gusto è solo un ipocrita… Alla fine, registriamo un intreccio fra cose di cattivo gusto e cose di gusto, sotto il segno del sorprendente.
Ma questo ritrovarsi del gusto e del cattivo gusto sotto il segno del sorprendente, lo intendi in senso negativo?
Lo dico in senso relativistico. Per una necessità in qualche modo scientifica.
Parlando però di questo, è inevitabile pensare che l’estetica sia il punto di vista della bellezza e dell’armonia… Quindi il vero pilastro di un’estetica che miri all’ etico, non è, non può essere il concetto di gusto. Non occorre avere presente la vera bellezza, per considerare qualcosa di “buon gusto”.
Hai ragione. Ho fatto un esame del gusto che è condannato a restare superficiale, come riflessione puramente estetica!
Non credo questo; ma per cogliere l’armonia, si trascende dal gusto… Tu cosa hai visto di veramente bello, in questi ultimi anni?
Diciamo, negli anni Novanta?
No, voglio dire… quando parli di gusto e di cattivo gusto?
Ho cercato di partire proprio dal cattivo gusto più ordinario possibile. Dai mobili stile Luigi XVI fatti nella Brianza di oggi all’ intrattenimento televisivo, con la concezione della famiglia che ne scaturisce. Insomma, tutto ciò che è veramente privo di trascendenza.
Infatti; non solo oggetti, arredamento, architettura, ma tutto: atteggiamenti, comportamenti, le inverosimiglianze che ci circondano.
Certo, però siccome non ho questo spirito dantesco di attraversare le malebolge, alla fine… mi impressiono, quindi ho bisogno di pensare al bello, alle cose belle! Ho fatto ricerca teatrale più o meno nella generazione dei Raffaello Sanzio, anche se probabilmente ad un livello diverso. Devo dire, di loro, che li ho trovati notevoli dal punto di vista della bellezza, anche però avvertendo il loro nichilismo; questa bellezza si risolveva in negazione.
Era inevitabile. Certo la bellezza non può svilupparsi all’infinito. C’ è un momento in cui si sente che la bellezza non può bastare.
Nell’ultimo Bob Wilson, al Teatro Olimpico…
Ah, ti è piaciuto?
Ci sono queste immagini tridimensionali, nell’insieme molte belle certo, ma con il rischio di fare un’opera di gusto, su un livello puro e semplice di gusto.
Ho visto le prime opere di Bob Wilson, quelle in cui lavorava con attori disabili; erano veri e propri colpi allo stomaco… Molto interessanti per me, che cercavo di capire qual era il rapporto esatto fra arte e vita.
E a livello di film, che cosa ti viene in mente? Di veramente bello?
Ci devo pensare. E a te?
Pulp fiction di Tarantino; Occhi di serpente di Abel Ferrara e, ah sì, soprattutto, Il cattivo tenente, dove non si capisce la ragione di questo strazio del poliziotto. Uno corrottissimo – con un sottofondo cattolico – che finisce strozzato in un giro di scommesse, ed ogni tanto si mette a gemere come un animale, come uno che vive in uno stato di insonnia permanente. Credo che tu abbia ragione, quando dici che tutto deve risolversi su un piano superiore alla mera bellezza. La sensazione estetica di trovarsi di fronte ad opere veramente importanti è rara, oggi…
Ecco, vedi, quel che mi ha veramente interessato sono le tipologie conflittuali della protagonista di quel film, Le onde del destino di Von Trier. Splendido!
Proprio splendido.
Sono contento che ti sia piaciuto. Peccato per il modo in cui l’hanno tradotto, perché il titolo inglese è “Controcorrente”, “Spezzando le onde”, invece “Le onde del destino” risulta… vago, fa pensare un po’ a…
Al fatalismo, ad un essere passivo.
No…? Invece lei è meravigliosa, così folle, così intimamente coraggiosa!
Questa specie di cherubino scemo… In fondo, forse la nostra è davvero un’epoca di fusione di linguaggi: teatro, testo, cinema. Di fusione anche di nuovi generi spirituali… Non riesco a vedere nella protagonista delle Onde del destino un personaggio interamente benefico.
Non lo è; è molto interessante il modo in cui fa le sue scelte nella vicenda, ma soprattutto il fatto che si lasci guidare dall’alto, da dio… Ogni tanto si volta verso la macchina da presa come se chiedesse il sostegno del regista. Il finale, l’ultimo viaggio verso la nave, è grandioso.
In ultima analisi, l’arte è sempre lo spazio sperimentale delle esistenze possibili. Comunque la mia linea, dai primi anni ottanta, è stata di scegliere dai testi solo ciò che è assolutamente attuale. L’uomo senza qualità di Musil l’ho messo in scena l’unica volta nell’ottantaquattro al Valle, e sono state le uniche repliche: lo spettacolo è incompiuto. Poi ci furono problemi con i finanziamenti, e nell’ ottantasette feci due spettacoli: Il ritratto di Dorian Gray e Il mago di Oz, tutt’e due al Politecnico. Sono andati molto bene come presenza di pubblico, ma non è bastato. Il mercato era ormai in mano a poche persone.
Il Musil. Fin dai primi tentativi, prove generali ecc., è stato molto difficile. L’elaborazione scenica è rimasta al livello dell’ottantaquattro, perché poi ho lavorato su Wilde, però è quello lo spettacolo che spero sempre di completare. Il lavoro sul racconto Il compimento dell’amore, che Musil scrisse alla vigilia della prima guerra mondiale, è la prova generale di questo completamento… Insomma, fu il ritorno alla classicità, in termini di linguaggio estetico. Faceva parte di una serie di grandi tentativi proprio sul linguaggio, che poi abbandonava.
Musil prediligeva la realtà grigia tutto sommato, quella dominata dai grandi mezzi d’informazione…
Ma in questa omologazione vedeva, paradossalmente, il modo per tornare all’unità perduta, pensava ad una nuova classicità, e le trasgressioni che si consentiva non erano che mezzi per arrivarci. Questi tentativi lo fecero soffrire. Però queste grandi prove che ha fatto sono state utili a definire la grandissima scrittura di Musil, cioè il massimo equilibrio fra pensiero filosofico e narrativa.
Che si realizza nell’Uomo senza qualità…
Lui è morto nel Quarantadue a sessantadue anni, e pensava di andare avanti a lavorare altri venti. La moglie racconta che fino a poco prima di morire stava progettando una nuova parte del romanzo.
Senti, se dovessi dire, in una formula, perché è così grande questo testo, perché è fondativo, come l’Ulisse di Joyce, come Proust?
Posso dire più dell’Ulisse… Il fatto è che Musil si proietta verso il Duemila, è il più… Non voglio fare delle classifiche, però mi pare che più degli altri lui è proiettato verso il futuro. In un certo senso, Alla ricerca del tempo perduto è il monumento del passaggio fra XIX e XX secolo, certo molto bello… L’Ulisse ha questa grande ricchezza di linguaggio…
Obliquo, oscuramente combinatorio, come una partitura moderna.
Sì, ma Musil ha qualcosa di più, nel senso che pur attraversando questa fase di sperimentazione corrispondente alla rottura con i tópoi letterari, in quel periodo delle prove di cui dicevo facevo in realtà le prove generali dell’Uomo senza qualità. Secondo me Musil è importante perché, lo dico fra mille virgolette, è un “costruttivista”. Alla fine dei conti, uso una parola pericolosa, Musil tende alla realizzazione dell’utopia. Perché, lui dice, “utopia è qualcosa di impossibile fino a quando non la si realizza”, caro mio.
Pochi sono disposti ad azzerare quanto c’è prima!
È vero che, letteralmente, l’idea di utopia coincide con l’idea di una cosa che non si realizza. Ma quando vai oltre questa semplice contraddizione, ti accorgi che l’utopista ha il dono dell’anticipazione… È nell’attualità che Musil è grande, di lui colpisce questa miscela particolarissima di matematica e spiritualità; è l’ ingegnere Musil… il razionalista più scettico che raggiunge il proprio lato mistico! E il suo testo è una miscela dove ci sono, da un lato, gli ideali della ragione contro la quale non si può andare perché non è possibile abolire il progresso; ma dall’altro lato, c’è questo buco, questo “vuoto insoddisfatto che si chiama anima”.
Musil cammina sul filo del rasoio. Da questo lato la ragione e al limite una spiritualità ma di tipo laico; dall’altro invece la religione, l’esperienza di fede – che lui non raggiunge, non credo, comunque non possiamo saperlo perché si definiva non credente – e questa spiritualità laica che viene quindi portata al limite, sfiora l’immedesimazione nell’esperienza di fede; è questo che si sente in lui, ma che non riesco a spiegarmi completamente. Di là la fede, di qua la ragione. In mezzo un laico che ha la vocazione, che viene “chiamato” a camminare lungo il filo di un rasoio.
Diciamo perché un dio è assente?
L’esistenza di dio per Musil non deve essere data per scontata, ma sperimentata. Ci sono solo le discipline che una persona si può infliggere, diciamo: di là un mistero, di qua ciò che introduce al mistero… dove è l’essere trascendentale. Penso che oggi molte persone, specialmente molti giovani stiano cercando una visione più chiara.
(fine seconda parte) ©RIPRODUZIONE RISERVATA