teologia della mafia

Teologia della mafia. Avremo mai la forza di liberarci dal male?

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Tutti possono e devono occuparsi di mafia

Parlare del fenomeno mafioso da non specialisti può sembrare irriverente nei confronti di coloro i quali, magistrati, investigatori o giornalisti, spesso hanno dedicato la vita allo studio della criminalità organizzata; ma proprio in quanto non specialista penso di poter affermare che così non è. Lo specialista, la variegata galassia dell’antimafia composta tanto dai tradizionali organi inquirenti quanto da associazioni di cittadini come il Movimento delle Agende Rosse, studia il fenomeno per contrastarlo, agendo sia sul piano cognitivo che su quello repressivo; il non specialista, come nel mio caso, si interroga soprattutto in chiave storica, intorno ad una o più possibili ricostruzioni delle origini e dell’ampia latitudine della mafia e, se vi riesce, può arrivare a proporre una chiave interpretativa diversa, forse sfuggita agli specialisti proprio per la loro profonda immedesimazione negli atti e nei fatti di questa organizzazione polimorfa.

Alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, la rivista Micromega pubblicò un numero dedicato a “Chiesa e mafia”, e lo pubblicizzò con un dibattito tenutosi ai Cantieri Culturali alla Zisa a Palermo, cui parteciparono il direttore P. Flores D’Arcais, il magistrato Gian Carlo Caselli, il sacerdote Ennio Pintacuda, il leader politico e sindaco di Palermo per vari mandati Leoluca Orlando, il giornalista Rino Cascio, l’avvocato Chiovari e altri ospiti. Questo focus su una possibile lettura religiosa della mafia o, per meglio dire, sulla religiosità (fondamentalista) cattolica dei mafiosi mi attrasse immediatamente, e oggi posso tornarci sopra in occasione di questo discorso.

teologia della mafiaLa tematica, che evidentemente non può venir esaurita con un solo esame sia pure a molte voci, sarà nuovamente affrontata in un libro di Augusto Cavadi, Il Dio dei mafiosi, edito da San Paolo nel 2009. Ma prima di parlare di questo, facciamo un passo indietro nella storia della mafia.

Storia della mafia

Le origini di questo fenomeno criminale sono state rese artatamente nebulose; sono portato a credere che, per esempio, far derivare la moderna mafia dalla leggenda medievale dei Beati Paoli, concepita in realtà come romanzo d’appendice da Luigi Natoli e pubblicato sul Giornale di Sicilia fra il 1909 e il 1910, e quindi il tentativo di autenticare un mero prodotto di fantasia, ritengo sia anche questa un’operazione di tipo mafioso; di una mafiosità secondaria possiamo dire, volta semplicemente ad “abbellire” l’indigeribile mafia stragista ed eversiva con un riferimento di sapore “eroico” il quale, tuttavia, cade fuori del baricentro, essendo i misteriosi Beati Paoli più il prodromo di una setta indipendentista che i precursori di Riina e dei Corleonesi. Possiamo definirla una “operazione simpatia”? Ebbene, chi suggerisce simpatia per la mafia può essere solo chi – in modo immancabilmente anonimo – prova egli stesso tale simpatia e intende, se non riabilitare (cosa abbastanza ardua date le imbarazzanti evidenze dei delitti mafiosi) quantomeno nobilitare Cosa Nostra. Ma andiamo con ordine.

La mafia ha origine in Sicilia. Nei primi dell’Ottocento i gabellotti, o fittavoli, erano coloro che possedevano i mezzi, i semi e la forza-lavoro per coltivare le terre ma non le possedevano, perché tutte le terre coltive confluivano nei latifondi nobiliari e questi, va ricordato, erano delle concessioni perlopiù regie. Dal 1812 viene abolita la feudalità in Sicilia, ma con la preziosa clausola strappata dagli aristocratici, secondo cui alla data di entrata in vigore dell’abolizione le concessioni di origine feudale sarebbero state trasformate in proprietà allodiale, cioè a pieno titolo. Si trattò, com’è facile osservare, di una modernizzazione solo apparente, il cui vero significato era di perpetuare indefinitamente i rapporti di forze fra aristocrazia e popolo, dato che nessun governo, vicereale o reale che fosse, sarebbe potuto sopravvivere senza il consenso dei principi.

A questa grande truffa legalizzata i gabellotti, questo embrione di middle class siciliana, reagì tesaurizzando la propria posizione: se ancora non possedevano le terre, i fittavoli avevano tutti i mezzi di produzione ed i rapporti di produzione con i braccianti agricoli; di conseguenza, senza di loro le terre erano destinate a produrre solo cardi e spini. Chiarisce molto bene la situazione questo brano di Calà Ulloa (tratto dal Rapporto giudiziario del procuratore generale Pietro Calà Ulloa, 1838):

Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di fare esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, orfatto moltiplicare il numero dei reati. […] Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito

La mafia non nasce dalle classi disagiate

Calà Ulloa pone l’attenzione sulla capacità di questa classe di fondere elementi dinamici e volatili come i rapporti personali con il consolidamento di stabili rapporti di potere. Il ricorso all’abigeato, al sequestro di persona, al furto e all’omicidio diventa abituale per l’obiettiva difficoltà di scalzare i principi da castelli costruiti, fin dall’epoca normanna, come fortezze che in posizione elevata dominano il contado.

Questa ricognizione ci permette di confutare un errato ma tenace pregiudizio, secondo cui la mafia sia nata come espressione delle classi più disagiate della società siciliana; essa fu piuttosto espressione di una classe media agraria tenuta inizialmente lontana dal pieno possesso delle terre, sulle quali però poteva esercitare diritti imprenditoriali: erano i gabellotti coloro che possedevano il denaro e, secondo un’immagine fedele del tempo, erano i soli ad andare a cavallo, armati, nell’isola.

È soltanto a partire dagli anni Venti e Trenta del XX secolo, e negli Stati Uniti a seguito dell’emigrazione transoceanica, che la mafia intreccia le proprie sorti col mondo degli affari, in buona parte illegali, come il commercio di alcolici, illegale durante il proibizionismo. In quegli anni emerge il patto fra capi che porterà ai vertici di Cosa Nostra il famigerato Lucky Luciano. Da una recente ricostruzione dello sbarco degli Alleati in Sicilia del 10 luglio 1943, realizzata dai giornalisti Andrea Purgatori e Saverio Lodato e dall’ex magistrato e senatore Roberto Scarpinato per La7, non vi è più dubbio relativamente al ruolo centrale di Luciano nel coordinamento delle operazioni, e successivo presidio del territorio conquistato: di fatto un anticipo della questione della trattativa Stato-mafia, in collaborazione con la mafia. Afferma Lodato:

Lucky Luciano è dunque il primo rappresentante della prima trattativa della mafia non con uno ma con due Stati, quello americano e quello italiano che si stava disfacendo dopo la guerra e dopo il passaggio a nord degli americani. La prima grande trattativa passò attraverso Lucky Luciano. Il quale, poi, quando venne scarcerato nel ’46, andò a Napoli con l’indicazione che non dovrà mai più mettere piede in America e venne accolto proprio da Vito Genovese che era suo compagno d’armi in America.

Teologia della mafia. Caratteristiche del Dio criminale

Mi è sembrata essenziale, questa scarna e certo manchevole ricostruzione, per giungere con qualche conoscenza in più ad una possibile risposta all’interrogativo su religione e mafia; se e perché, nel nostro tempo, la criminalità mafiosa abbia messo in evidenza un legame pressoché indissolubile con una religiosità di tipo cattolico caratterizzata da intenso tradizionalismo, neofobia nel campo dei costumi – e conseguentemente sviluppando forte ostilità nei confronti di una società civile laica e secolarizzata – e, cosa più interessante, arrivando ad una metafisica utilitaristica, quale neanche le più spregiudicate visioni filosofiche avevano osato concepire.

Augusto Cavadi individua cinque tratti essenziali del Dio dei mafiosi: 1) Un Dio spietatamente onnipotente; 2) garante delle gerarchie sociali; 3) un Dio accessibile solo attraverso i mediatori; 4) che esige sangue riparatore; 5) Un Dio “tribale”.

Riconoscendo la notevole raffinatezza di questa analisi comparativa fra teologia ontico-cosmica della Chiesa e teologia della mafia, mi è sembrato di speciale interesse il secondo punto, in quanto fornisce una possibile chiave interpretativa di alcuni degli “orrori” recentemente portati in luce da inchieste giudiziarie come, appunto, quella sulla “trattativa Stato-mafia”.  Settori deviati dello Stato, o della Massoneria siciliana deviata – detto per inciso, non si capisce per quale ragione se ammettiamo la categoria di “Stato deviato” o “Stato ombra” sussistente all’interno di un corpo statuale sano, è per i media così difficile ammettere l’esistenza di una “massoneria deviata” all’interno del corpo sano della Massoneria – condividono con i mafiosi un’ostilità di principio per tutte le novità sociali e politiche che possano, anche solo potenzialmente, minacciare le gerarchie sociali; di conseguenza trovano ragionevole e utile allearvisi, anche in vista di un potenziamento reciproco della strategia criminale. L’idea della impunità assicurata sembra, secondo quanto afferma in un passaggio della citata intervista il senatore Scarpinato, aver convinto Riina a rinunciare ad assassinare Giovanni Falcone a Roma, predisponendo un’esecuzione assai più spettacolare a Capaci con tritolo ad alto potenziale, disintegrando un’intera porzione dell’autostrada.

Leggiamo nel testo di Cavadi:

Riprendendo alcune asserzioni che si trovano nel corpus delle lettere attribuite a Paolo, la teologia ufficiale cattolica ha insegnato che al comune fedele spetta obbedire alle autorità civili e religiose: queste – e queste soltanto – risponderanno a Dio, eventualmente, di aver male interpretato la Sua volontà e di aver impartito ordini sbagliati. In questa prospettiva de – responsabilizzante non è strano che molti mafiosi confessino di aver obbedito a quella che ritenevano la legittima autorità del loro gruppo senza travagli di coscienza e di aver pregato, anche al ritorno da imprese omicide, come ogni sera prima di addormentarsi.

Nella teologia della mafia piace immaginare che anche scegliendo una carriera criminale, dal lato “sbagliato” della vita, praticando usura, ricatto, traffico di droga, uccidendo magistrati, poliziotti, donne e bambini dei collaboratori di giustizia, e perfino ricorrendo a stragi di cittadini inermi e senza nessun contatto con la sfera d’ influenza della mafia, risulti ugualmente rispettato il precetto paolino dell’obbedienza alle autorità. Di fatto, il principio di autorità sembra particolarmente caro ai mafiosi: essi perseguono i propri affari non in ossequio ad una morale inversa, o anti-morale; non hanno alcuna aspirazione diabolica o nichilistica, ma – come dimostrato negli sviluppi degli ultimi decenni – aspirano all’integrazione con la società legale, a continuare ad esistere come imprenditori legittimati dai capitali che sono in grado di mettere in circolo.

Oltre la religione. La mafia nelle associazioni lecite

La mafia, o sarebbe più giusto dire “le” mafie, si intrecciano a tutti i corpi intermedi della società civile permeabili alla loro penetrazione. E così appaiono particolarmente appetibili, nell’ottica mafiosa, le associazioni massoniche o paramassoniche. L’attrattore della “segretezza” ne è il motivo forse principale. Certamente agli inquirenti, cioè a coloro che vivono l’esperienza dell’antimafia in prima linea, gioverebbe una maggiore conoscenza di associazioni di questo tipo, prima di emettere sentenze anticipate e giudizi categorici sul loro potenziale di mafiosità.

Forse la distinzione fra “segretezza” e “riservatezza” potrà apparir loro troppo sottile; ma è la chiave, invece, per comprendere il fatto che una Massoneria “buona” esercita già un controllo capillare sui propri affiliati, mentre quella “cattiva” no. Che si definisce “massonica” qualsiasi associazione si fregi di questo nome anche se priva di patenti e riconoscimenti internazionali e perfino a posteriori, ossia dopo un’inchiesta che ne svela il carattere di segretezza dolosa, come sono stati nel 2011 i casi della P3 e della P4 di Bisignani, Carboni e Dell’Utri, mere conventicole di operosi “quadri intermedi” che agivano nell’esclusivo interesse del berlusconismo e delle sue eventuali correlazioni con la malavita organizzata.

Gli inchini del clero (e dei santi) di fronte ai mafiosi

Specialmente interessate dalla penetrazione di elementi mafiosi sono state, però, le confraternite religiose – ricordiamo qui solo di passaggio i numerosi inchini di statue di santi e di madonne sotto i balconi di notissimi e riconosciuti boss – i partiti e le elezioni. Degno di nota da questo punto di vista è l’iniziativa di Wikimafia una piattaforma antimafia creata da una rete di cittadini aderente a “Siciliani giovani”, che ha valutato i contenuti antimafiosi dei candidati alle Regionali di febbraio scorso in Lazio e Lombardia. Il rapporto (qui: https://www.wikimafia.it/mafia-normalizzata/) ha messo in luce la scarsa attenzione al problema mafioso da parte dei candidati riconducibili agli attuali partiti di governo.

Il Dio dei mafiosi è anche un formidabile punitore, un inflessibile “Dio degli Eserciti” che sembra estratto dall’Antico Testamento e ricorre a vendette terribili come il Diluvio, la distruzione di Sodoma e Gomorra, che invia sciagura per capriccio e pretende fedeltà assoluta da Giobbe e Abramo ed è lontanissimo dal Dio d’Amore che manda suo Figlio nel mondo, preconoscendo il suo esser destinato al sacrificio. Riassumendo con le parole di Scarpinato, un Dio ‘masculiddu’ (maschio), che s’identifichi con i boss e con il quale i boss possano identificarsi.

Oltre ad un teologia “interessata”, una metafisica utile e curiosamente separata da ogni conseguenza morale, la mafia ha l’esigenza di propagare una dimensione sovrannaturale che rispecchi il codice mafioso, la misoginia e il narcisismo dei capi che vivono “nascosti” controllando attentamente la sfera di pubblicità delle loro gesta criminali, finché lo Stato non decide di prenderli, mettendo fine alla loro latitanza spesso vissuta, come nel caso di Matteo Messina Denaro, a pochi metri dalla residenza anagrafica. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

(dedicato a Pino Garofalo, Siracusa 1908 – Bari 1967)

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