guerra e pace nell'Antico Testamento
Giosuè Condottiero | Fonte: Wikipedia | ©Collection Motais de Narbonne - Josué arrète la course du soleil - Carlo Maratta

Guerra e pace nell’Antico Testamento. Prima parte

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Pubblichiamo oggi il saggio “Guerra e pace nell’Antico Testamento”. È la prima di tre parti di un discorso che inquadra questo tema nell’ottica del primo Cristianesimo. I Lettori avranno modo di leggere la seconda nel prossimo numero.

Gianfranco Rucco continua a donarci spunti di riflessione sulle Scritture con approccio scientifico, senza per questo sminuirne la portata spirituale. Anzi, questa trova nuovi campi di indagine tra le pieghe della docetica cattolica e apre a nuovi paesaggi di comprensione e di interpretazione. I lettori più attenti avranno ormai notato come, in maniera sempre più intellegibile, ogni suo testo ci stia conducendo verso una meta concettuale e filosofica ben più ampia dei singoli temi trattati, verso un nuovo paradigma mentale, un nuovo approccio ai Testi delle Tradizioni e a un nuovo Metodo per ricollegare la profondità storica e filosofica della nostra civiltà alla necessità di migliorare il presente. Ne parleremo più approfonditamente quando pubblicheremo un suo scritto sulla fraternità.


Pace e guerra nell’Antico Testamento: non opposte ma complementari

Nonostante il suo linguaggio militare, centrale nell’Antico Testamento è l’idea di pace, ma non la pace che, secondo l’accezione moderna, costituisce il contrario della guerra e solo in questa accezione negativa risulta definibile: uno dei paradossi del pensiero moderno, infatti, è proprio quello di non avere una definizione positiva della pace con il risultato che, in alcune concezioni, lo stato originario ed ordinario delle relazioni tra gli uomini è considerato il bellum omnium contra omnes (1).

La pace dell’Antico Testamento

non è la pace immanente, ‘orizzontale’, tra gli uomini, bensì la pace tra gli uomini e Dio (e, quindi, l’ordine pacifico all’interno del popolo eletto, che su tale pace modella la sua vita sociale); Non caso i concetti di berit e di shalom, di “alleanza” e di “pace”, emergono strettamente allacciati nella tradizione ebraica, collegati entrambi a una dimensione vuoi giuridica vuoi rituale precisa. È l’alleanza tra Dio e l’uomo e tra uomo e uomo nel nome della Legge divina a garantire: di più, ad essere essa stessa pace. E in tal senso quella ebraica è confrontabile con altre civiltà tradizionali: si pensi al rapporto semantico tra i termini pax e pactum, così qualificante la primitiva esperienza religiosa romana(2).

Questa idea della pace-alleanza tra Dio ed il Suo popolo consente di non considerare la pace e la guerra come valori necessariamente opposti, ma di poterli ritenere congiunti e complementari nella sostanza dell’antico patto; infatti, la Scrittura è una costante descrizione di Dio e del Suo popolo in guerra permanente contro le nationes (3) ed i loro déi ed il profondo misticismo guerriero che la caratterizza è ben più impressionante dello stesso eroismo guerriero dei popoli germanici, il quale, pure, era connesso ad un sistema di valori tribali comitativi e fondato su archetipi mitici (4).

Il carattere militarista nel linguaggio biblico: la vita come militia

Occorre anche soffermarsi sul carattere prettamente militarista del linguaggio biblico e sulla duplicità del suo significato; esso, infatti, per un verso, costituisce l’esaltazione della guerra del Deus Sabaoth (5) e delle virtù guerriere del Suo popolo e, per altro verso, manifesta una concezione della vita come militia (6) al servizio di Dio contro le forze del male: “militia est vita hominis super terram” (Gb. 7, 1), questa affermazione sintetizza inequivocabilmente una concezione del senso della vita umana proprio di tutte le tradizioni religiose caratterizzate da una dimensione, comunque rappresentata, dualistica, conflittuale, sia a livello cosmogonico ed antropologico, che a livello escatologico (7).

Ma quale origine ed evoluzione ha avuto la concezione giudaica della alleanza-pace, centro della intera vita religiosa e sociale di Israele?

Al riguardo, occorre anzitutto tener presente che solo all’origine della sua storia il popolo di Israele corrispondeva con un preciso gruppo etnico: la discendenza di Abramo sulla linea di Giacobbe; infatti, anche se tale gruppo etnico ha continuato a rappresentarne certamente la componente largamente prevalente, col tempo

insieme al legame di sangue, un altro legame assicura l’unità dei figli di Israele: è la circoncisione. Questo rito è prescritto dapprima da Jahvè come un semplice segno dell’alleanza suggellata tra Lui ed il suo popolo e come simbolo della promessa fecondità; ma si vede subito che questo segno da cui si riconosce la razza eletta può sostituirsi al legame di sangue e dispensarne. In questo senso il popolo ebraico era un popolo e non una semplice razza; lo è diventato dal giorno in cui è stato possibile aggregarvisi sottomettendosi a dei riti e partecipando ad un culto pur non essendo discendente di Abramo(8).

In realtà la società religiosa costituita da Israele non era basata sul dato etnico perché il suo vero elemento fondativo era rappresentato dall’alleanza che Jahvè aveva voluto con il popolo che Lui si era scelto e dell’appartenenza al quale Lui solo aveva stabilito le condizioni.

Le condizioni poste da Jahvè per la pace-Alleanza e il diritto di guerra contro le nationes

Una prima volta, Jahvè rivela la Sua scelta a Mosé quando ancora Israele era sottoposto alla schiavitù in Egitto:

Io sono il Signore! Sono apparso ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe come Dio onnipotente, ma con il mio nome di Signore non mi sono manifestato a loro. Ho anche stabilito la mia alleanza con loro, per dar loro il paese di Canaan, quel paese dove loro soggiornarono come forestieri. Sono ancora io che ho udito il lamento degli Israeliti asserviti dagli Egiziani e mi sono ricordato della mia alleanza. Per questo di agli Israeliti: Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi. Io vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Voi saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrarrà dai gravami degli Egiziani. Vi farò entrare nel paese che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo, ad Isacco ed a Giacobbe e ve lo darò in possesso: Io sono il Signore! Mosè parlò così agli Israeliti, ma essi non lo ascoltarono, perché erano all’estremo della sopportazione per la dura schiavitù(9).

Il carattere unilaterale della scelta e l’irrevocabilità della parola del Signore, sono evidenti nel passo in cui una seconda volta, Jahvé manifesta a Mosé la Sua volontà di stipulare un Patto con Israele allorché esso, uscito dall’Egitto e passato il Mar Rosso, giunge nella penisola del Sinai.

Tutto il passato di Israele converge verso l’evento del Sinai. La chiamata di Abramo, la liberazione dal giogo egiziano manifestano la volontà di Dio di formarsi un popolo. Il momento è venuto. Evidentemente, l’Alleanza non è un contratto tra eguali, dove offerta e risposta sono sullo stesso piano: l’iniziativa è totalmente del Signore. Resta nondimeno a Israele l’obbligo di acconsentire alla “salvezza” che gli è offerta, di pronunciarsi desideroso di impegnarsi ad essere fedele alla legge del Signore. Il testo dell’Alleanza sarà la costituzione religioso-sociale di Isaraele…Sottomettendosi al Signore, diventano un popolo consacrato. Così, veramente, l’Alleanza del Sinai segna la nascita del popolo di Dio(10).

 Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che ho fatto all’Egitto e come ho sollevato su di voi ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti ed una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti”. Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore. Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!” Mosè tornò dal Signore e riferì le parole del popolo(11).

Le condizioni dell’appartenenza al popolo di Jahvè sono, dunque, ascoltarne la parole e conservare l’alleanza osservandone i precetti, ma queste sono anche le condizioni per conservare il favore di Jahvè ed il fondamento del diritto-dovere di Israele di annientare i suoi nemici, che sono tali non per sua scelta, ma per comando divino, perché le nationes non riconoscono Jahvè come il vero ed unico Dio.

Il carattere pattizio dell’alleanza tra Jahvè ed il Suo popolo e le conseguenze della fedeltà di Israele all’impegno sono chiaramente evincibili dal seguente passo del Duteronomio:

Oggi il Signore tuo Dio ti comanda di mettere in pratica queste leggi e queste norme; osservale dunque, mettile in pratica con tutto il cuore, con tutta l’anima. Tu hai sentito oggi il Signore dichiarare che egli sarà il tuo Dio, ma solo se tu camminerai per le sue vie e osserverai le sue leggi, i suoi comandi, le sue norme e obbedirai alla sua voce. Il Signore ti ha fatto oggi dichiarare che tu sarai per lui un popolo particolare, come egli ti ha detto, ma solo se osserverai tutti i suoi comandi; egli, quanto a gloria, rinomanza e splendore, ti porrà sopra tutte le nazioni che ha fatto e tu sarai un popolo consacrato al Signore tuo Dio com’egli ha promesso(12).

Il nazionalismo religioso di Israele come conseguenza del patto con Jahvè e i successivi tentativi di universalismo

La conseguenza di questa concezione è stata, sino al profetismo, un forte nazionalismo religioso ed un atteggiamento assolutamente non integrante di Israele nei confronti degli altri popoli, perché con essi, in quanto esclusi dall’alleanza, non era possibile concepire la costituzione di una comunità religiosa, presupposto indispensabile per la costituzione di una comunità politica.

Con i grandi Profeti e l’evoluzione messianica dello Jahvismo comincia a profilarsi in Israele la possibilità di una concezione di universalismo religioso, anche se questa idea stentò molto ad essere chiaramente percepita e definita per la difficoltà di immaginare una società religiosa tenuta assieme esclusivamente dal culto comune del vero Dio, aperta perciò a tutti i fedeli di Jahvé a prescindere dalla loro appartenenza etnica o nazionale.

Il problema più rilevante consisteva nel conciliare il tradizionale carattere nazionalistico dello Jahvismo con le coerenti conseguenze della concezione della comune origine umana, problema reso più complesso dal carattere spiccatamente antisincretistico dello Jahvismo profetico; infatti, in considerazione della unicità di Jahvè quale vero Dio, il suo culto non poteva essere conciliato con nessun altro e, pertanto, l’estensione della religione ebraica non poteva avvenire in una dinamica di contatto-compromissione con altre religioni, ma solo in quella di una progressiva maggiore definizione di se stessa.

Certamente, tuttavia, la concezione della comune origine umana non consentiva di poter ritenere lo Jahvismo prerogativa di una sola nazione: ancorché Israele fosse depositario della Rivelazione e destinatario dell’alleanza, non poteva essere il solo legittimato a riconoscere Jahvè come l’unico vero Dio  .

Emblematica, a questo riguardo, è la visione dell’universalismo Jahvista di Isaia:

Radunatevi e venite, avvicinatevi tutti insieme, superstiti delle nazioni! Non hanno intelligenza coloro che portano un idolo da loro scolpito e pregano un Dio che non può salvare. Manifestate e portate le prove, consigliatevi pure insieme! Chi ha fatto sentire ciò da molto tempo e chi l’ha predetto fin da allora? Non sono forse io, il Signore? Fuori di me non c’è altro Dio, Dio giusto e salvatore non c’è fuori di me. Volgetevi a me e sarete salvi, paesi tutti della terra, perché io sono Dio, non ce n’è un altro. Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua(14).

Ma Isaia aveva già profetato in modo ancora più chiaro il carattere universalistico della Promessa di Jahvè:

Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande per tutti i popoli, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti: Eliminerà la morte per sempre: il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto(15).

In Isaia si ritrova evidente la percezione che

le guerre e le lotte non possono essere il fine ultimo di tutta la storia degli uomini. Già un profeta vede la vasta convocazione di tutti gli uomini al convito divino. Quale rottura delle concezioni nazionalistiche in questa concezione ‘cattolica’ universale!(16).

Guerra e pace nell’Antico Testamento e il nazionalismo trasceso in religione: ottenere l’universalismo, che implica la pace, per mezzo della vittoria di Israele sul mondo, che implica la guerra

La novità rappresentata dall’intuizione universalista del profetismo e il Servo di Jahvè, certamente significativa e foriera dei successivi sviluppi datale dalla predicazione di Gesù, deve tuttavia essere correttamente intesa e contenuta nei suoi effettivi limiti, infatti,

vi sono senza dubbio da lunga data nella letteratura ebraica tracce di una tendenza a trascendere il principio nazionale in religione. Tanto nella prima che nella seconda parte del libro di Isaia, in relazione all’attesa del Salvatore e Restauratore, è espresso seppur vagamente il senso che quest’opera trascenderà i limiti del popolo d’Israele, instaurando giustizia uguale per tutta l’umanità e facendo conoscere Dio a tutto il mondo. In che misura queste idee si siano sviluppate ed abbiano progredito in quel periodo assai oscuro che seguì il ritorno dalla grande cattività, in qual misura il nazionalismo ebraico sia rifiorito sotto la spinta della resistenza all’ellenismo all’epoca dei Maccabei, e inoltre in qual misura il contatto con l’ellenismo, anche quando gli Ebrei gli si opposero, abbia di fatto cercato di abbattere l’isolazionismo ebraico: tutti questi problemi sono ancora oscuri ed insoluti (17).

In realtà, l’ideale universalistico dei Profeti non si trasformò, in concreto, in un superamento del nazionalismo religioso di Israele perché lo stesso Isaia, uno dei più convinti assertori di una società religiosa universale, non poteva che concepirla come costruita attorno al popolo ebraico; del resto tutta la Scrittura induceva ad una visione gerosolimocentrica della storia nella quale le nationes si sarebbero radunate, assieme ai resti di Israele, attorno all’altare di Javhé, costituendo la comunità dei fedeli dell’unico vero Dio.

Questa concezione di Israele come incaricato da Dio di estendere a tutto l’universo la Salvezza appare molto chiaramente nella profezia di Isaia sul Servo di Jahvé:

È poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Io ti renderò luce della nazioni perché porti la mia salvezza sino all’estremità della terra(18).

Il Servo di Javhé, lo sconosciuto misterioso che

verrà chiamato da Dio, per rilanciare la speranza dei rimpatriati delusi; si presenta come un profeta la cui parola porta una forza divina (Geremia 1, 9); per mezzo suo Dio rinnova l’alleanza con il suo popolo. Servo fedele senza difetto, prende su di sé lo smacco e l’umiliazione della sua stirpe; obbediente a Dio e solidale con i suoi fratelli, egli può aprire l’era della conversione e della salvezza, segna oramai il destino di Israele e già annuncia il tempo della salvezza per tutti i popoli(19).

Certamente, “il “Servo di Jahvé” parla incessantemente della salvezza di Israele, ma l’immagine sotto la quale egli se la rappresenta è quella di una Gerusalemme ricostruita, le cui mura riparano e proteggono un popolo libero, mentre sulla loro eredità riconquistata le tribù d’Israele pascolano senza timore prospere greggi lungo le strade che le loro cure hanno riconquistato. I figli di Israele sono allora senza numero e Jahvè sottomette a questo immenso popolo la folla dei suoi nemici (Isaia, XLVI 8-25). Questa nuova Gerusalemme, che Sant’Agostino identificherà più tardi nella Città di Dio, non ha ancora perduto, quindi, i suoi legami temporali nelle profezie dell’Antico Testamento.

Quando il “Servo di Javhé” parla del trionfo futuro di Gerusalemme, egli pensa ancora proprio alla capitale temporale di una Giudea temporale”(20); una Giudea cui, comunque, compete un ruolo di supremazia “Perché il popolo e il regno che non vorranno servirti periranno e le nazioni saranno tutte sterminate”(21).

In breve, anche nel secondo ciclo di Isaia, l’universalismo del profeta resta essenzialmente un giudaismo. Allargandosi in un imperialismo religioso, il nazionalismo religioso del popolo ebraico si esasperava, assai più che non cambiasse natura.

Su invito dei suoi Profeti, Israele intraprende la conquista temporale del mondo sotto la protezione del solo Dio, l’Onnipotente Jahvé(22),

perché solo la vittoria finale del popolo ebraico avrebbe consentito di instaurare in tutto il mondo la vera pace.

Appare evidente il

conflitto tra l’universalismo del fine cui si tendeva e il particolarismo dei mezzi impiegati per conseguirlo, perché nel testo biblico si parla sempre dell’invasione del mondo da parte del popolo di Dio, o della sottomissione del mondo intero al popolo di Dio. Certo, la visione suprema dei Profeti è quella di un  mondo in cui regna la pace; siamo quindi posti immediatamente dinanzi ad un ideale sociale ben diversamente ampio che quello delle città greche; ma la pace in questione resta legata al trionfo temporale di una città sulle altre città, come se l’unificazione del mondo potesse essere l’opera di una sola delle sue parti. Per questo il messaggio d’Israele non poteva farsi capire dal mondo se non degiudaizzandosi e mettendo al servizio della società universale che annunciava un mezzo tanto universale quanto il suo fine. Si può dire che Israele abbia presentito questo mezzo fin dall’origine della sua storia e che lo ha quasi posseduto. In ogni modo, non è certo per caso che una voce d’Israele ne abbia recato più tardi al mondo la rivelazione chiara, completa, definitiva(23),

ponendo l’ideale di una società non costruita attorno al dato etnico od a quello del popolo di elezione, ma realmente universale e fondata sul consenso libero delle volontà e delle intelligenze. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Note bibliografiche e di lettura.

(1)   Trad. Guerra di tutti contro tutti. Emblematico di questa concezione dello stato di natura dell’uomo è il pensiero di T. Hobbes.

(2)   F. Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, La Nuova Italia Editrice, 1977, p. 175.

(3)   Trad. Nazioni; intese come nazioni straniere, pagane e quindi ostili al vero Dio ed al Suo popolo.

(4)   F. Cardini. Op. cit., p.175.

(5)   Trad. Dio degli Eserciti.

(6)   Trad.  Servizio militare; spedizione, campagna di guerra, in; Georges, Calonghi,   Badellino. Dizionario della lingua latina. Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, col. 1702.

(7)    F. Cardini. Op. cit., p. 179

(8)    E. Gilson, La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia Editrice, 2000, p. 185.

(9)    Es. 26, 2-8 in: La Bibbia. A cura dei Gesuiti di “La Civiltà Cattolica”, Piemme, p. 139.

(10)   La Bibbia. Cit., p. 163.

(11)   Es. 19, 3-8 in: La Bibbia. Cit., p. 163.

(12)   Deut. 26, 16-19 in: La Bibbia. Cit., p. 333.

(13)   E. Gilson. Op. cit. p. 188-189.

(14)   Is.  45, 20-23 in: La Bibbia. Cit., p. 1443-1444.

(15)   Is. 25, 6-8 in: La Bibbia. Cit., p. 1400.

(16)    La Bibbia. Cit., p. 1400.

(17)   R.W. e A.J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, Laterza., 1956, p. 101.

 (18)  Is. 49, 6 in: La Bibbia. Cit., p. 1449.

(19)    La Bibbia. Cit., p. 1448.

(20)    E. Gilson. Op. cit., p. 191.

(21)    Is. 60, 12 in: La Bibbia. Op. cit., p. 1468.

(22)    E. Gilson. Op. cit., p. 192.

(23)    E. Gilson. Op. cit., p 192.

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