Gianfranco Rucco ci dona una riflessione sul peccato originale, ma fa qualcosa di più che trattare un “tema”. I lettori non ricevono solo un testo critico, ma la sensazione di leggere sempre un principio, nuovo, di ciò a cui dovremmo tornare. Un principio di ragionamento, ora di scoperta, ora di deduzione, verso cui sentiamo una responsabilità ad andare. Non ha più senso leggere per assimilare nozioni e punti di vista, ma per agire. Qual è l’azione a cui siamo chiamati con questo testo specifico? Recuperare, a nostro avviso, quanto è vero da sempre e riposa sotto la coltre di usi, costumi, strumentalizzazioni ora del pensiero, ora del Credo, e impossessarci di nuovo, sul serio, del vero, primordiale e sempiterno nutrimento dell’essere, che è la consapevolezza. Buona lettura
Il Mito delle Origini: il peccato originale tra Oriente e Occidente cristiano
L’antropologia religiosa cristiana occidentale moderna ha fatto sorgere nell’uomo
un originario e terribile senso di colpa: nonostante la Rivelazione biblica chiaramente affermi che l’uomo sia stato creato ad Immagine di Dio e rechi in sé la Sua Somiglianza, l’uomo occidentale è convinto di essere geneticamente colpevole, di essere stato, per così dire, programmato con un virus mortale: il peccato originale.
In Occidente questa idea è derivata dal pensiero di Agostino di Ippona il quale ha teorizzato che l’uomo non possa non peccare; per lui Adamo è stato creato da Dio già difettoso, programmato in modo tale che dovesse necessariamente peccare e trasmettere lo stesso virus a tutti i suoi discendenti per via sessuale.
La cultura occidentale moderna, in modo consapevole o meno, è tutta fondata su questa teoria, angosciante e tetra, del peccato originale; l’iconografia della Resurrezione, in Occidente è il Cristo che esce trionfante dal sepolcro, in Oriente è Cristo che scende negli inferi per trovare ed abbracciare Adamo ed Eva.
Ma davvero Adamo non poteva non peccare? La trasmissione a tutti i discendenti di Adamo del peccato originale è veramente un dogma fondato sulla scrittura?
Queste domande ne generano una fondamentale: qual è la natura dell’uomo?
Dalla metà del XVI secolo l’Occidente cristiano risponde: l’uomo è presunto colpevole, è colpevole a prescindere, dal momento in cui è nato, anzi più esattamente, dal momento in cui è stato concepito.
L’Oriente cristiano ha invece sempre mantenuto chiara la consapevolezza che l’uomo è Icona di Dio e quindi non può essere stato creato difettoso.
Per l’Oriente, il destino dell’uomo è di essere alla fine integrato in Dio; la caduta non ha inciso sull’Immagine di Dio nell’uomo, essa l’ha soltanto ridotta al silenzio non consentendo il conseguimento della Somiglianza che era l’attuazione dell’Immagine.
Secondo quanto si legge nella “Vita di Sant’Antonio” scritta da Sant’Atanasio, il grande Padre del deserto era convinto che la natura umana fosse essenzialmente buona.
La concezione sulla natura e sul destino dell’uomo propria del Cristianesimo orientale è perfettamente scandita da Nicodimo Aghiorita nel suo Proemio alla Filocalia: per amore Dio ha stabilito di deificare l’uomo dall’eternità ed ha realizzato il Suo scopo nel tempo.
Secondo l’Aghiorita, Dio ha fatto l’uomo prendendo il corpo dalla materia ed infondendo in esso l’anima prendendola da Se stesso; pertanto, l’uomo è un’Icona fatta da Dio, ripiena di tutte le grazie e, secondo l’insegnamento di San Gregorio Nazianzeno il Teologo, costituito norma della Creazione sensibile ed iniziato a quella intelligibile.
Secondo i Santi Padri, Dio stabilì che, come premio per il combattimento che doveva sostenere per osservare il comandamento che doveva custodire, l’uomo ricevesse la grazia della deificazione già insita nella sostanza del suo essere; in tal modo, realizzatasi la Somiglianza, l’uomo sarebbe divenuto Dio, raggiante per i secoli nella luce pura da contaminazione.
Adamo non uscì vittorioso dal combattimento perché il Diavolo, invidioso che Dio avesse voluto per l’uomo un destino più radioso del suo, riuscì a farlo cadere, ma poiché il proposito di Dio sulla deificazione della natura umana rimane in eterno ed i pensieri del suo cuore di generazione in generazione, le parole che mirano a tale scopo, come insegna Massimo il Confessore, sono immutabilmente confermate sia per il secolo presente che per quello futuro.
Perciò Dio ha voluto che il Logos rendesse vani i pensieri del principe delle tenebre e realizzasse il Suo antico disegno.
Il Logos si è fatto uomo ed ha deificato la natura umana; con il Battesimo, mediante l’azione dello Spirito Santo, ha infuso nel cuore dell’uomo la Sua vita e ha dato, a coloro che la conservano senza lasciarla spegnere nuovamente, il potere di ottenere il frutto finale: divenire per mezzo di questa grazia figli di Dio ed essere deificati pervenendo, come afferma Paolo di Tarso, all’uomo perfetto, alla misura dell’età della pienezza del Cristo.
La vita umana, pertanto, è ricondotta al suo originario destino: la partecipazione in Dio, la theosis (deificazione), mediante la comunione nello Spirito Santo con l’umanità deificata di Cristo.
Essendo questo il Mito delle Origini da cui deriva la concezione cristiana della natura e del destino dell’uomo, in che modo è potuta nascere la teoria di un peccato originale inteso come errore personale, cioè come errore personalmente compiuto -od ereditato- nello stesso istante del concepimento?
Essa nasce con Tertulliano; egli, convertito dal paganesimo e segnato dall’esperienza Montanista, era convinto che l’anima fosse materiale, benché di una materia più sottile e leggera di quella del corpo, una specie di gas materiale, soggetto alla morte, che pervade il corpo e deriva dal genitore.
Perciò, Tertulliano pensava che tutte le anime fossero contenute in Adamo e sparse da lui per propagazione: in tal modo Adamo avrebbe contaminato tutta l’umanità con il suo liquido seminale, facendo di esso il canale di trasmissione della dannazione.
A Tertulliano si ispirò Agostino che tentò di conciliare la concezione di Tertulliano con quella ortodossa della Chiesa mediante la teoria per la quale ad Adamo, creato naturalmente peccatore, sarebbe stata aggiunta una grazia che gli avrebbe impedito di peccare sino al momento predestinato.
È da notare che Agostino parla di una grazia creata ed aggiunta all’uomo non per deificarlo ma per inibire temporaneamente il manifestarsi della sua natura difettosa.
Questa teoria di Agostino suscitò autorevoli e forti reazioni contrarie tra i suoi contemporanei: Vincenzo di Lerino bollò le sue tesi come privatae opinionuncolae (personalissime ideuzze) e Giovanni Cassiano, che a Costantinopoli era stato Diacono di Giovanni Crisostomo, le riteneva fataliste e dannose.
Infatti Agostino, ponendo l’accento sulla corruzione assolutamente radicale della natura umana, ha elaborato la teoria della massa damnata, la cui conseguenza postuma è stata la concezione della doppia predestinazione elaborata dalla Riforma protestante (non a caso Martin Lutero era un Agostiniano) per la quale Cristo, nella Sua misericordia, ha versato il Suo Sangue solo per gli eletti e Dio ha rinchiuso l’atto stesso della creazione in una scissione iniziale: ha cominciato con il luogo dei dannati, l’inferno, ed ha creato una categoria di esseri umani destinati a popolarlo e questa, in tale concezione, sarebbe la Giustizia di Dio.
Il Paradiso ed il Regno di Dio si situerebbero nella rottura dei livelli ontologici e sarebbero radicalmente trascendenti rispetto al destino terreno; mancando una dottrina ben approfondita dell’Immagine di Dio e del suo posto fondamentale nell’antropologia, ad essa si sostituisce l’arbitrio divino; l’Incarnazione e la Grazia (gratia irresistibilis) diventano le vie di espressione di questo arbitrio che attraverso di esse forza l’uomo, ma questa Grazia non è originaria in lui, gli si aggiunge, provenendo da ciò che gli è trascendente, da ciò che gli è estraneo ed esteriore.
La Grazia della salvezza agisce sull’uomo, suo malgrado e all’occorrenza anche contro di lui; la salvezza viene ottenuta in forza della sola Grazia e la felix culpa è felix proprio perché fa scattare l’espiazione e la Grazia organizzata della Chiesa.
Ogni antropologia che parta dal peccato, dall’elemento demoniaco della natura umana, viene ad essere rinchiusa in questi termini immanenti: all’inizio l’Angelo con la spada fiammeggiante che sbarra l’accesso al Paradiso, al termine il terribile Tribunale con il lago di fuoco.
Per l’Oriente cristiano, invece, in modo molto esplicito, il fondamento dell’antropologia è l’elemento divino della natura umana, l’Immagine di Dio: la concezione dell’uomo ha le sue origini in un momento che precede il peccato originale; infatti, nei Padri l’essere umano è sempre definito, anche dopo la caduta, dal suo destino originario, dallo stato edenico che continua a pesare sul suo destino terreno.
L’escatologia, in quanto dimensione esistenziale del tempo, è immanente alla storia: essa consente la comprensione delle cose prime ed ultime e presuppone quindi una certa immanenza del Paradiso e del Regno di Dio; alla nostalgia innata dell’immortalità e del Paradiso perduto, che in quanto sempre normativi della vera natura costituiscono la fonte di ogni nostalgia, corrisponde la presenza realissima del Regno: il tempo liturgico è già l’eternità e lo spazio liturgicamente orientato è già l’Oriente del Regno.
Così, superando il Giudizio Finale che appartiene ancora al tempo e riguarda il passato, l’antropologia si apre escatologicamente al suo vero termine, il sacramentum futuri, l’integrazione della totalità dell’economia terrena nel Regno dei Cieli.
Lo scopo della spiritualità del Cristianesimo orientale, la deificazione (thèosis), trascende le rotture del tempo storico attraverso l’esperienza delle teofanie, attraverso l’irruzione dei tempi propizi (kairoi) e attraverso l’avvento delle condizioni del Regno nella santità della nuova creatura.
La dottrina occidentale del peccato originale fu elaborata in forma compiuta -benché estremamente rozza- per la prima volta, da alcuni vescovi delle Gallie in un incontro tenutosi ad Orange nel 528 d.C.; tale Sinodo è stato ritenuto, dall’autorevole Enchiridion di H. Denziger, assolutamente locale, sconosciuto ai più e dimenticato per secoli; inoltre, per formulare la dottrina, il Sinodo utilizzò venticinque sole frasi di Agostino, per di più avulse dal contesto originale e malamente manipolate.
La dottrina riemerse solo più di mille anni dopo, il 17 giugno 1546, quando fu ripresa ed ufficializzata come dogma dalla Chiesa Romana nel Concilio di Trento.
La base scritturale su cui si fonda la dottrina occidentale del peccato originale deve essere rinvenuta in una difettosa lettura del celebre passo di Paolo di Tarso (Rm.5, 12): “Così come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così la morte si è estesa a tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”; in particolare, nella frase “così la morte si è estesa a tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” la teologia occidentale rinviene l’affermazione della solidarietà di tutti i discendenti di Adamo nella sua colpa.
In realtà, la frase originale del testo greco “kè ùftos ìs pàndas anthròpus ò thànatos diìlthen, ef’ò pàndes ìmarton” non può essere tradotta così.
Anzitutto la parola greca che correttamente esprime la congiunzione “perché” è diòti e non “ef’ò”.
Inoltre, le parole “ef’ò pàndes ìmarton” non possono essere correlate ad altra parola che a “thànatos” (morte), con la conseguenza che la traduzione esatta non può che essere: “sulla base della quale (morte) tutti hanno peccato”; in questa lettura, il passo paolino afferma non già la solidarietà dei discendenti di Adamo nella sua colpa, ma la spiegazione della loro condizione di peccatori: la morte, conseguenza del peccato di Adamo, li ha resi tali; quindi l’uomo, più che colpevole del peccato di Adamo, è colpito dalle conseguenze del peccato di Adamo.
Satana, essendo lui stesso il principio del peccato, attraverso la morte e la corruzione, conseguenze del peccato in cui ha indotto Adamo, coinvolge tutta l’umanità e la creazione nel peccato, nella corruzione e nella morte.
Questa lettura è giustificata da due ordini di ragioni, l’uno grammaticale, l’altro esegetico.
In ogni epoca, la costruzione grammaticale della preposizione “epì” col dativo, come fa Paolo nel passo, è sempre stata usata come pronome relativo per modificare il nome o la frase precedenti; fare un’eccezione per questa frase, ritenendo che Paolo di Tarso utilizzi in modo errato l’espressione greca “ef’ò” per significare “perché” significa non considerare questa realtà.
La possibilità dell’interpretazione di “ef’ò” anche come “perché” fu ipotizzata in Oriente per la prima volta da Fozio ma in una prospettiva diversa da quella di Agostino; Fozio, infatti, affermava che del passo di Rm. 5, 12 potessero darsi entrambe le letture perché, interpretando Paolo di Tarso in un contesto di leggi morali naturali, cercava di giustificare la morte di tutti gli uomini con una colpa personale; tuttavia, né Fozio né i Padri orientali hanno mai accettato l’insegnamento secondo il quale tutti gli uomini sono colpevoli del peccato di Adamo.
In ragione anche della stessa antropologia biblica “ufficiale”, non è possibile trovare nell’Antico Testamento appigli per sostenere la teoria occidentale del peccato originale in termini di una colpa morale e di una punizione e la stessa difficoltà viene incontrata dai moralisti occidentali nell’approfondimento del pensiero dei Padri orientali.
Il contributo della riflessione del Cristianesimo orientale alla questione della natura e del destino dell’uomo per quanto concerne il cosiddetto peccato originale non può essere spinto oltre questi approdi perché anche la Chiesa orientale, pur distinguendosi notevolmente sul punto da quella occidentale e caratterizzandosi per un’antropologia biblica certamente più ottimistica, non vede nella caduta dell’uomo che un atto volontario e cosciente di insubordinazione al Dio Creatore ed ipotizza che, in conseguenza della caduta, l’ordine della Creazione sia irrimediabilmente distrutto fino alla Redenzione.
Nella prospettiva del Cristianesimo “ufficiale”, anche orientale, queste conclusioni sono necessitate ed inevitabili poiché esso parte dall’assunto che la Somiglianza divina sia esclusivamente un potenziale che può essere realizzato solo alla fine della storia della salvezza e non una condizione originaria, strutturale ed intangibile dell’uomo.
In questa prospettiva, il male, la rovina dell’ordine della creazione e la condizione decaduta dell’uomo non possono che essere attribuite all’uomo stesso in termini di “disobbedienza”, anche se intesa come fallimento rispetto al programma di evoluzione che Dio aveva predisposto. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Questo scritto è largamente debitore dell’opera: G. Romanidis Un virus mortale. Il peccato originale secondo San Paolo, Asterios, 2006.