sciamanesimo

Teatro, maschera e sciamanismo

975 Visite

Vediamo la relazione che intercorre tra lo Sciamanesimo, il Teatro, l’uso della maschera nel suo senso filosofico, gli spiriti largamente intesi, le diverse forme di dramma sacro. Il primo a indossare una maschera è il dio, quello ignoto e persino quello rivelato. L’antichità come principio del bisogno di dialogo con la natura è il momento dove conoscenza e desiderio di conoscere sono ancora uniti e spinti dalla medesima forza: quella di agitare le apparenze. Vediamo alla semplificazione storica inarrestabile, come una deriva: dall’estasi dello sciamano e il Teatro quale spazio sacro, all’attore, all’impronta che lascia sulle liturgie, e da queste via via verso la vita ordinaria di teatralità intesa come falsificazione ordinaria della vita. Stiamo perdendo la vitalità nel sacro.


Caratteristiche dello Sciamanesimo, le maschere, gli spiriti-guida, il rifiuto di un dio fermo e invisibile

Lo sciamano, sotto l’amorevole protezione di uno spirito-guida, assume su di sé la maschera del dio non meno di quanto la maschera del dio non assuma lui. Questa semplice constatazione è l’essenza ed il cuore “teatrale” della cerimonia sciamanica, ed è anche un atto sovrannaturale autenticamente fenomenico.

Nella religione sciamanica pensare gli dèi assolutamente invisibili, o informi, o peggio ancora riluttanti ad assumere una forma, suona come un’assurdità. È fatale che, essendo l’uomo il figlio della natura, la creatura, tocchi al dio – che può entrare ed uscire dalla forma e passare da una forma ad un’altra – discendere dentro l’uomo ed assumere un aspetto compatibile con le sue potenzialità sensoriali.

Per usare un’immagine, se il dio è un padre responsabile di un bimbo di pochi mesi, la sua cura maggiore sarà quello di nutrirlo adeguatamente perché possa crescere in perfetta salute. Ma se desse da mangiare al piccolo ancora privo di denti un coscio di cinghiale, fave secche o ricci di mare, si dimostrerebbe un genitore inadatto o sventato.

All’infante si deve dare un cibo idoneo, molto liquido e nutriente. La maschera nel teatro, da intendersi quindi come risalente ad uno spazio rituale e definito come luogo di un’epifania, rappresenta una sorta di liquefazione del dio, o ancor più un suo travestimento aeriforme che, quindi, si va rivolgendo alla percezione uditiva oltre che alla visiva: ecco l’importanza della voce dell’attore e delle sue intonazioni, a prescindere del senso concettuale delle parole e del testo.

L’attore: ovvero l’agente del dio. Non una possessione ma un rapimento, poi l’infrangersi

Accade che lo sciamano, e la sua versione profanizzata che è l’attore, con l’indossare la maschera assume le caratteristiche del dio di cui la maschera riproduce le fattezze. Poco importa che quelle fattezze siano puramente immaginarie; poiché è ovvio che, pur essendo una sorta di scienziato sperimentale, una testa di ponte verso il cielo e un unicum della comunità, egli – passando nel mondo dell’invisibile – brancola nel buio come chiunque altro.

Poi viene potentemente ed improvvisamente strappato da sé stesso, dalla sua base organica, per essere trascinato da flutti (molti referti di viaggi sciamanici fanno riferimento all’ essere trascinati su imponenti onde marine) verso gli dèi. Uno dei compiti dello sciamano è risalire mediante il volo estatico alle ragioni di un risentimento divino, che il più delle volte si manifesta con epidemie e sciagure collettive (per questo in alcune tradizioni, come quella dei nativi americani, è chiamato “uomo-medicina”). Per i fini del nostro discorso è significativo che questo stato può essere descritto come una spersonalizzazione violenta – sia pure con gradi diversi di violenza – e sembra alquanto diverso dalla condizione interiore che si definisce impersonalità.

Il divenire impersonali, in questo senso, è un percorso lento e complesso che non implica in tutti i casi la distruzione della personalità. Nella fenomenologia sciamanica, invece, per poter effettuare la “risalita” richiesta nel rito la personalità dell’operatore magico sembra andare in pezzi, come un vetro frantumato da un sasso.

È pur vero che, alla fine del viaggio estatico, l’operatore ritrova sé stesso. Ma non dimentichiamo che lo sciamano si muove lungo la verticale ultraterrena grazie alla protezione di due Dioscuri, che prendono il nome di “spirito guardiano” e “spirito guida”. E custodire il corpo materiale quando lo spirito dello sciamano è in volo si direbbe piuttosto compito del “guardiano”, la cui vigile presenza impedisce che la morte o i demoni prendano possesso di quel corpo temporaneamente disabitato.

Dunque il viaggio ultraterreno avviene in regime controllato: sia esternamente, dagli altri membri della comunità che pongono lo sciamano al centro di un apparato ritualistico; sia dall’interno e dall’alto, ove entità che dimorano stabilmente negli strati sottili dell’essere cooperano all’ estasi e guidano il mago lungo tutto il suo cammino, tanto di andata quanto di ritorno.

Sulla base di queste osservazioni, si può dire quindi che lo sciamanesimo rappresenti uno schema magico fondato sull’impersonalità?

Il quesito presenta difficoltà di vario tipo. Parlando della maschera e del teatro, è forse il caso di tornare su alcuni approfondimenti. La maschera mostra il contenuto sacro in tutta la sua ampiezza, quando viene letta in senso metaforico. Il teatro fondato sulla recitazione di maschere, indossate da attori realmente invisibili come uomini e donne, concreti e materiali, ad esempio nel caso dei notissimi Pulcinella ed Arlecchino, è stato a tutti gli effetti il genere scenico preponderante fino alla fine del XVIII secolo. Con il sorgere del cosiddetto teatro “borghese”, fondato su un realismo imitativo della vita ordinaria e sull’ introspezione dei personaggi, curiosamente il genere del teatro di maschera scompare, proseguendo in un succedaneo – con conseguente ridimensionamento –che è il teatro di figura o teatro dei pupi.

Teatro di figura, dei pupi o dei tipi. Pulcinella e il confinamento della maschera

Questo teatro dei pupi sarebbe stato meglio definito come teatro dei tipi, poiché di questo si tratta: il teatro d’ombre, di marionette o di burattini parla soltanto di archetipi dell’umanità e delle sue sfaccettature, con un sottile quanto grazioso gioco di rimandi con la realtà.

Pulcinella è il tipo del popolano affamato, anche se forse la sua condizione sociale oggettiva sarebbe quella di proletario stabilizzato, non nomade né straniero e solo vagamente perseguitato dalle autorità. Balanzone è il tipico dottore universitario: un tipo molto precisamente comprensibile in una città segnata dalla fama di sede universitaria come Bologna, ma non priva di significato anche per i non bolognesi, in quanto rappresenta il dotto, l’intellettuale, la cui aria saccente dissimula una natura profondamente godereccia di epicureo.

In breve, si direbbe che a partire dall’800 il teatro di maschera venga diretto e deviato su macchine inanimate, perché si comincia a considerarlo particolarmente pericoloso per individui in corpo e anima. Vedo così che la tradizione popolare, specie in un campo di attività così riverito, e contemporaneamente generatore di marginalità come l’arte teatrale, non ha mai messo in discussione l’origine sacra di quest’arte, e ancor meno il suo potenziale magico.

La metafora della maschera è d’altronde chiarissima. Quando l’attore la indossa, la maschera ne viene riempita e prende a vivere; quando l’attore se la sfila, la maschera ritorna ad essere materia morta, inerte, un infinito segnato da due orbite vuote. Ancora una volta, come nella più raffinata teologia contemporanea, il centro dell’essere è posto nel volto. Il volto di dio è ciò che l’essere umano non può guardare direttamente ed è, quindi, un’immagine della totalità universale; allo stesso modo è il centro dell’individuo, della connotazione e della discernibilità di esso da tutti gli altri individui. La persona è il volto, il volto è la persona.

Divenire impersonali è dunque uno strano addestramento a mantenere le proprie fattezze senza dipenderne più in alcun modo. Della spersonalizzazione sciamanica non si può dire la stessa cosa: in quanto strappo violento, anche i connotati vengono in qualche modo “divelti”, e la riconoscibilità del volto naturale viene alterata.

Forme del dramma sacro. Relazione tra Teatro e liturgia cattolica, magia, paganesimo

In un certo senso il potenziale simbolico del teatro, genere artistico la cui fondazione si perde nel tempo tanto antichi sono gli spazi scenici, sembra andare in questa direzione. Il Miste e il Sacerdote, l’Aruspice e lo Sciamano sono altrettanti attori protagonisti entro la cornice di diverse forme di dramma sacro.

Non deve sfuggire quanta segreta parentela esista fra la liturgia della messa cattolica e la performance teatrale. Non dico semplicemente nel senso della teatralità insita nella celebrazione liturgica, ma proprio di un legame intimo, peraltro mai negato dalla stessa Chiesa, che ad opera di alcuni gruppi tradizionalisti eterodossi come la Fraternità sacerdotale San Pio X, più noti come lefebvriani, in conseguenza di un accelerato processo di secolarizzazione del sacerdozio e della gerarchia, ha dato vigoroso impulso alla solennità e grandiosità delle celebrazioni, moltiplicando i paramenti e mettendo ogni attenzione allo sfarzo degli addobbi e degli abiti clericali: una reazione decisa alla semplificazione e attualizzazione dei Riti promossa dal Concilio Vaticano Secondo.

Anche il teatro, come la ricopertura e “riconsacrazione” dei luoghi sacri della religione pagana, è uno strumento operativo della magia; da molto tempo quindi la Chiesa si mostra perfettamente consapevole della necessità cruciale di porre sotto il suo potere tutti i santuari ed i centri spirituali, altrimenti attivi in senso magico: Santa Maria Antiqua sull’Atrium Minervae nel Foro romano; Santa Maria dell’Aracoeli sul tempio di Giunone Moneta al Campidoglio, mentre per un certo tempo sono stati consacrati come chiese il Pantheon, persino il Partenone ad Atene, e così via.

Al centro della rappresentazione teatrale di ogni tempo c’è la maschera – significherà qualcosa il fatto che una lingua abbastanza vicina alla nostra, la spagnola, abbia come vocabolo tecnico per “spettacolo” il termine funciòn, proprio come se per la lingua popolare la derivazione sacra dell’azione teatrale sia un luogo comune.

È ben nota l’esistenza, nel teatro classico, di due tipi di maschera per gli attori: la comica e la tragica. Insisto sul fatto che dell’uso di tali maschere nel dramma antico si è spesso data una spiegazione volgarizzante e semplicistica: l’impiego di maschere, insieme a quello di alti coturni con zeppe di sughero simili a trampoli, di deus ex machina  per stupire e dell’acustica per far risuonare anche i più sottili sospiri, servivano a creare un velame suggestivo, un’“atmosfera” che predisponeva lo spettatore ad accogliere la narrazione scenica, sospendendo la propria spontanea incredulità nei confronti dell’ artificio.

Vitalità nello spazio sacro: il Teatro e il cielo

Ma questo genere di spiegazione trascura del tutto il simbolismo, e rende veramente impenetrabile il semplice banchetto degli dèi e degli uomini che era esattamente lo scopo dell’evento teatrale.

Ma anche a voler negare qualsiasi presenza o trascendenza nel teatro, il critico scettico dovrebbe spiegare perché la disposizione “puerile” a credere nella finzione scenica abbia una parte così importante nell’azione. Oppure perché gli attori hanno sentito, nel corso dei secoli, l’esigenza costante di occultare in scena la propria identità privata, travestendola prima con la maschera, poi con la biacca ed il cerone del trucco, poi con travestimenti ispirati ad una visione fantastica dell’ideale cavalleresco e più recentemente – già nel tempo della modernità – con l’ invenzione della maschera neutra e del clown bianco, il Pierrot.

Persino il diaframma, o “quarta parete”, la separazione virtualmente posta fra l’attore in proscenio ed il primo degli spettatori è apparsa, a questi critici, come una convenzione puramente tecnica e motivata (ma molto debolmente) con l’esigenza di evidenziare lo spazio dell’azione e il realismo del “gioco” teatrale. Più semplicemente, dimenticano che la delimitazione dello spazio è la primaria esigenza dei “luoghi sacri”: la cella all’interno del Partenone è l’unica opera muraria di uno spazio peraltro aperto. Il tempio nel suo insieme viene edificato su un precedente tempio, l’Hekatompedon, come significando che lo spazio sacro è definito in rapporto al cielo e non può essere spostato a piacimento. Romolo traccia con un aratro il perimetro della nuova fondazione sul Palatino, e uccide il fratello Remo perché aveva violato sprezzantemente il suo monito a non attraversarlo. Lo spazio semicircolare tipico del teatro antico rispecchia con ogni probabilità questa geometria sacra.

Siamo purtroppo abituati, nel mondo contemporaneo, a veder negare e rimuovere qualsiasi ambito e vitalità del sacro; non di rado anche ad opera di alcuni suoi ministri; membri della gerarchia sacerdotale che, nel circoscrivere accuratamente, con il fasto e la dispendiosità degli apparati appunto “scenici”, le “solennità” religiose, sembrano non vedere l’ora di correre ai loro affari, interamente secolari e lucrosi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

I post più recenti nella categoria Storia e pensiero

Mirko Servetti, addio?

Carlo di Francescantonio ricorda l’Amico, il Poeta Mirko Servetti. L’estate 2023 ha fatto in modo che…