Giungiamo oggi alla terza e ultima parte dell’intervista inedita di Franco Garofalo a Giuliano Vasilicò. È possibile leggere qui la prima parte, e qui la seconda. Buona lettura.
VASILICÒ: L’ esistenza di Dio per Musil non deve essere data per scontata, ma sperimentata. Ci sono solo le discipline che una persona si può infliggere, diciamo: di là un mistero, di qua ciò che introduce al mistero… dove è l’ essere trascendentale. Penso che oggi molte persone, specialmente molti giovani stiano cercando una visione più chiara… mi sto sbagliando?
GAROFALO: Credo di no, quando però non trovano strumenti adatti per entrare in questa dimensione, diventano agnostici e passivi.
Vedo però tutto questo grande interesse per la new age, l’esoterismo, l’alchimia, anche per le sette demoniache; e mi appare qualcosa di…
Epocale, forse.
Sì, epocale. Quindi il progresso e la scienza non sono del tutto efficienti! Devo però riconoscere che, come tu mi dici, queste persone non hanno coscienza che dall’altra parte c’è il cammino di fede. È vero che certe volte il misticismo diventa business! Ecco, probabilmente loro subiscono il condizionamento di questa visione utilitaria della realtà. Musil vuole piuttosto sperimentare la possibilità di unire ragione e sentimento, intelletto e vissuto, e per questo si serve della letteratura; va alla ricerca di una dimensione di attualità perenne.
Il mondo in cui viveva, l’ impero austriaco, stava per scomparire.
Sì, le sue letture negli ultimi anni – stava leggendo le Lettere di San Paolo – indicano che si è interessato alle cose che ti ho detto, ed è per questo attuale…
S’interessava, diciamo, alla “doppia realtà”?
Ha la consapevolezza di questa doppia realtà mentre, e mi lego a quel che dicevi, si è consapevoli quasi per tutta la vita soltanto di questo lato, quello in cui ci troviamo anche ora. La ricerca, oggi, si fa però pressante… Ci sono dei movimenti religiosi, in questo momento.
Esistono eccome! Sono rimasto molto colpito dal caso di qualche tempo fa, delle due ragazze della provincia di Foggia che sacrificarono una compagna di classe.
Ma è un caso di satanismo…
Naturalmente, però mi ha colpito il fatto che fossero due adolescenti, o poco più.
Io invece mi riferisco ai movimenti di tipo cristiano… Questa nuova realtà spiritualistica confermerebbe l’attualità delle profezie di Musil. È l’antagonista dell’edonismo di massa. Ma tu dici che c’è un difetto di trasmissione della coscienza.
Questo difetto sta nella facilità con cui si può scivolare in un misticismo anch’ esso edonistico. Bisogna aspettare di vedere delle opere congrue ad una vera dimensione spirituale.
Posso aggiungere che l’autore delle Onde del destino appare perfettamente cosciente di questo sviluppo della civiltà. L’arte come l’ ho descritta può essere il mezzo per sperimentare nuovi equilibri dell’essere.
Insomma, come diceva Huysmans, l’alternativa “la pistola o il crocefisso”. Dovrebbe essere in “A ritroso”. Da un punto di vista teorico non siamo andati molto avanti; non per mitizzare un punto del passato come un’Atlantide, però la fine dell’ottocento e inizi del novecento sono stati un momento altissimo della riflessione estetica, una crisi che è poi sfociata in qualcosa di diverso, di enorme portata.
Immagino che parli del decadentismo.
Se avessimo senso musicale, potremmo dire che, trovandoci in un’altra fine di secolo…
Forse, appunto questo “inorganico” tende ad avvicinarsi al decadentismo. Ne imita un po’ il gusto necrofilo…
C’è poi Karl Kraus. Si parla spesso di scrittori austriaci solo perché si sono trovati alla fine dell’impero… Ma anche in Italia, c’è stata secondo me una grande letteratura invisibile; non parlo di modernissimi, ma più che altro di gente come D’Arzo negli anni Trenta, o Morselli nei Cinquanta… Tutte persone che si sarebbero opposte, che si opposero, alla tradizione realistica e che si sarebbero trovate del tutto a loro agio dalla nascita del teatro di ricerca in poi.
Una esplosione della libertà di espressione ha caratterizzato, non dimentichiamolo, il periodo immediatamente successivo alla rivoluzione russa e alla guerra in Russia, in Germania e in Italia. L’arte russa, per esempio, non è più stata sui livelli immediatamente successivi alla rivoluzione.
Certo. Il suicidio di Majakovskij conclude simbolicamente l’ epoca della libertà. Senti, dimmi qualcosa sulle prospettive del tuo lavoro, così concludiamo la nostra conversazione pensando a qualcosa di positivo!
[sorridendo] Non è facile… Certo, mi piacerebbe concludere in bellezza questo lunghissimo periodo di studio su Musil… Dall’ ottantaquattro perseguo questa linea; una riflessione su che cos’è il teatro, che cos’è l’ arte, spettacoli di tipo didattico… sul genere del monologo, cosa che ho fatto da sempre – addirittura dal settantuno. Al Vascello, l’anno scorso, ho fatto questo monologo che si chiama Regista in scena.
Spettacoli in cui più che rappresentare… non sono dei veri spettacoli, sono lavori didattici.
A chi si rivolgono?
Sono didattici per me e forse anche per gli altri.
Si rivolgono a persone che trovano interessante trovare una risposta possibile alla domanda: che cos’è l’arte? A che cosa serve?
Oppure l’arte è un lusso… che non potremmo permetterci, in questi anni di disoccupazione?
In questi spettacoli io cerco di dare una risposta al quesito su cosa sia l’arte, e il regista mette in scena sé stesso; poi arrivano gli attori, che rappresentano gli spettatori; infine sorge un dialogo che proseguirà nello spettacolo successivo. Tutto questo intendo farlo anche per il Compimento dell’amore, il racconto che ti ho citato prima.
In questi anti-spettacoli, tu cerchi una dimensione cooperatrice con altre persone, in scena e in sala, insomma fai delle conferenze-spettacolo?
Si tratta più che altro di monologhi. Ci siamo io ed alcuni personaggi, poi i finti spettatori che entrano in scena verso la fine… Il percorso artistico invece è una specie di summa, una rievocazione dei miei spettacoli più importanti e del filo rosso che li collega; credo che i primordi di tutto questo sia stato ciò che tu hai visto al Palazzo delle Esposizioni alla fine degli anni Settanta. Fu allora che cominciai tutte queste “prove generali”. Si sono sempre intitolate Il delitto a teatro: riferito ad Amleto, all’uccisore del re; al delitto sadico, al delitto psicologico in Proust. Quindi l’uccisione in Musil, una sorta di azzeramento “scientifico” con lo scopo di mettersi in contatto con l’essere che sta sotto tutte le cose… Insomma, il delitto a teatro, partendo da un monologo.
Ho molti nuovi progetti, sia di teatro “estremista”, sia di teatro didattico. Da alcuni anni è diventato terribilmente difficile realizzare spettacoli: il teatro di ricerca è diventato il monopolio esclusivo di alcuni critici, che sono diventati dei manager e decidono loro chi fa e chi no.
Nota dell’ intervistatore. Si conclude qui la conversazione fra me e Giuliano Vasilicò, almeno per la sua parte intellegibile e fornita di senso per il lettore. Posso, di mio, aggiungere che di questa esperienza con un maestro dell’avanguardia teatrale si può lamentare soltanto la brevità, e rimpiangere l’eccezionale intensità. Al di là di tutte le considerazioni teoriche, storiche e critiche, Giuliano mi è apparso un grande spirito in cattività, un uomo ricchissimo di energie e comunicativa, un re in esilio. La sua relativa “emarginazione” dalla produzione culturale italiana è in gran parte imputabile proprio a quei “critici” dei quali lui fa solo una fuggevole menzione. Costoro, sfruttando la propria presenza su quotidiani e riviste, hanno impresso un ritmo nevrastenico all’avvicendamento di sempre nuove “ondate” di stilemi, fino alla scipitezza integrale del cosiddetto “terzo teatro” o “teatro povero”.
A quel punto, la soppressione cosciente del teatro di ricerca – uno dei settori più vitali dell’arte italiana contemporanea – poteva dirsi perfezionata. Nei cartelloni è tornato ad imperare l’odioso teatro di repertorio, con testi immutabili e progetti visivi regrediti di almeno un secolo. Sarebbe vano cercare, nelle attuali stagioni, nulla di più di una sparuta postazione di difesa della ricerca teatrale, da individuare nella programmazione del teatro romano “Il Vascello” di Giancarlo Nanni.
Temo che alcuni lettori troveranno questa tematica scarsamente congrua all’oggetto del mio saggio Antiaestetica. Eppure, proprio grazie al contributo di pensiero di Giuliano Vasilicò ho scoperto l’ultimo file del piano – cattivo gusto: l’eliminazione degli avversari scomodi. Siccome la ricerca ha lo scopo di estendere lo spazio mentale a disposizione degli uomini il cattivo gusto, che al contrario opera per restringerlo al massimo e per semplificarne le numerose e complesse articolazioni, si è impadronito del dibattito critico, e dai ruoli (accademici) della critica ha dettato agli operatori artistici le regole “estetiche” idonee per accedere ai finanziamenti, senza dei quali la ricerca – che, come Vasilicò ribadisce spesso, precede la materia degli spettacoli – non può assolutamente realizzarsi.
Naturalmente il cattivo gusto, in questo caso, non è un puro e semplice ritorno a precedenti codici estetici; esso raduna e assimila un certo numero di postulati che dovranno sempiternamente rappresentare il “moderno”, i suoi slogan, in una speciale modalità d’ibernazione. Tutto ciò ha la funzione di trasmettere al futuro, nel quale in ogni caso non si crede, la peggiore immagine possibile del mondo quale è adesso, più in particolare quella delle arti rappresentative, ove gli artisti sono più portati alla collaborazione. La diffusa percezione negativa del mondo oggi non viene più, come un tempo, avversata e censurata; il cattivo gusto, che è il gusto di un insieme che non è un’ unità denominato “pubblico”, ritiene accettabili alcuni aspetti crudeli della modernità e ne permette la rappresentazione attraverso le fonti della comunicazione di massa: si pensi alla celebre foto del vietcong nell’istante in cui gli viene sparato alla tempia.
Ciò che il gusto egemone non può ammettere, invece, è un sistema estetico “della crudeltà”, dove il raggiungimento del bello viene ottenuto mediante un percorso tortuoso che attraversa di preferenza il brutto, e per durate a volte estenuanti.
Quel che voglio evidenziare, in conclusione, è il fatto che l’emarginazione di artisti importanti – in questi anni – è il riflesso di una strategia di semplificazione estetica, basata sulla tesi che la produzione artistica sia secondaria, e con le sue risorse non può produrre artisti illimitatamente: meglio dunque eliminare i casi più evidenti di identificazione vita – estetica. Questo è però un calcolo miope, perché il gusto non può sostituirsi all’opera, più di quanto lo spettatore non si possa sostituire allo spettacolo – malgrado utopie scriteriate abbiano cercato di propagandare questa possibilità. E’ illusorio affidarsi ai critici per sapere cos’è arte, dato che essi possono, nel migliore dei casi, dire cos’è arte solo facendo esperienza di un prodotto artistico.
Da questo punto di vista l’operazione Regista in scena di Vasilicò esprime una sublime ironicità, poiché è un’opera che si nega come tale, restando sempre al di qua della fruizione e sottraendosi quindi al giudizio critico. Non posso che esprimere la mia ammirazione per questa linea di riserbo e resistenza dell’ artista, contro il dilagare di una mentalità critica ed ipercritica che detta regole ricavate soltanto dalla propria astrattezza; ammirandola non mi ritengo però obbligato a condividerla, dato che credo necessario oggi emendare l’operazione artistica tanto dalla sua ermeticità quanto dalla sua scostumatezza, affinché possano essere preservate l’ arte nel suo insieme e la mente estetica con tutte le sue potenzialità di giudizio.
Comporre opere con escrementi, pesci o attori nudi è indifferente per il critico filosofico, ovvero entra nella sua riflessione solo nella forma di riflessione sul materiale creativo, non perché socialmente o politicamente “provocatorio”. Ciò che è essenziale è che la vigilanza sul gusto non sia delegata a vigilantes dello stesso, ma sia restituita al complesso degli operatori estetici, con la garanzia di un senso dell’operazione artistica che ne sia anche la principale regola di gusto.