La repubblica turca è un vasto stato che si affaccia sulla sponda sudorientale del Mediterraneo che molti italiani credono di conoscere, per aver visitato qualcuno dei suoi magnifici siti archeologici, oppure le spiagge (spesso sopravvalutate) di qualche sua celebre costa come Antalya; o ancora per aver visitato l’infinita megalopoli sul Bosforo, Istanbul. Ma da moltissimo tempo il paese e la sua tentacolare “porta d’oriente” sono anche il crocevia di poderose tensioni internazionali, una linea di faglia che unisce e separa Europa e Asia, un labirinto senza uscita che fa smarrire il senso anche delle più approfondite analisi storiche, politiche e strategiche.
Il peccato originale della Turchia. La fine dell’Impero ottomano e la nascita della repubblica nel tumulto, Atatürk, il Trattato di Sévres
Intanto c’è da considerare il peccato originale della Turchia nata dalle spoglie dell’impero ottomano, alleato delle potenze centrali nella Prima Guerra Mondiale, sconfitto e smembrato dopo il 1918. Mustafa Kemal fu il protagonista assoluto degli anni tumultuosi che vanno da 1918 fino alla proclamazione della Repubblica Turca il 29 ottobre 1923. Kemal prese poi il nome di Atatürk (padre dei turchi) non, come comunemente si ritiene, come un appellativo, ma come vero e proprio cognome. Lo adottò dal 1934 quando un decreto presidenziale, la cd. “legge sul cognome”, vincolò i cittadini ad avere un cognome e non più il semplice patronimico usato correntemente in epoca ottomana. Va ricordato che a seguito della sconfitta, lo smembramento dell’impero si era tradotto in una vera e propria spartizione fra gli Alleati, regolata con il Trattato di Sévres: esso prevedeva per la Francia un Mandato su Libano e Siria, uno britannico su Iraq, Transgiordania e Palestina, Tracia e Smirne alla Grecia, Dodecanneso e Rodi all’Italia. Ma la vigorosa reazione dei militari turchi sotto la ferrea guida di Kemal, impedì e rese di fatto inattuabile il Trattato e la spartizione.
Kemal, ufficiale intermedio senza quarti di nobiltà, ebbe un momento di autentica gloria in occasione dello sventurato (per gli Alleati) sbarco a Gallipoli del corpo di spedizione dell’ANZAC (Australian and New Zealand Army Corps) nel 1915: Kemal, con un altissimo costo in vite umane, respinse l’invasione. A tutti gli effetti fu la battaglia decisiva per preservare quel che sarebbe stato il “corpo” della nascente Repubblica di Turchia, cioè l’Anatolia, la Tracia e gli stretti. Tutti questi potrebbero sembrare fatti ormai lontani del tempo; ma nella contorta logica della regione sono quanto mai vivi ed attuali. Vediamo perché.
Lo sterminio degli Armeni tra responsabilità da chiarire e censure ancora in atto
Intanto la fisionomia istituzionale di Atatürk. Fu l’unico generale turco a conseguire significativi successi negli stessi anni del disfacimento dell’impero ottomano. La sua personale responsabilità nel genocidio degli armeni non è mai stata chiarita, e forse storicamente occultata. Lo sterminio di 1,2 milioni di armeni nel corso degli anni di guerra fu sistematicamente organizzato da una sigla secondaria dei “Giovani Turchi”, denominata “Organizzazione speciale”, e attuata mediante “marce della morte”, ossia deportazioni dalle regioni più orientali della penisola anatolica verso l’ovest e il nord, in condizioni climatiche proibitive e con fucilazioni estemporanee: scopo di tutta l’operazione appariva essere, insomma, l’eliminazione dei deportati ed è di fatto ciò che accadde. La reticenza dei successivi, e anche dell’attuale, governi turchi a riconoscere questo sterminio non può far ombra al dato che – ad oggi – ventinove paesi oltre alla Santa Sede lo hanno riconosciuto come tale. Attualmente la Turchia vieta l’uso del termine genocidio a proposito degli Armeni sul proprio territorio: e su questo ho una testimonianza personale e diretta. Una collega insegnante italiana di Storia presso la Scuola Italiana di Istanbul (Istituti Medi Italiani di TomTom Sokak) qualche anno fa usò l’espressione “genocidio degli armeni” durante una lezione, invitando i suoi studenti a riflettere e dibattere sul controverso tema. L’effetto fu che venne ufficialmente richiamata, attraverso il dirigente scolastico italiano, dal provveditore turco, con l’invito a correggere le sue affermazioni, considerate lesive dell’onore turco. In mancanza di tale correzione sarebbe stata dichiarata immediatamente persona non grata e quindi obbligata a lasciare il paese nel più breve termine possibile (in alcuni casi ventiquattr’ore, se la richiesta è cogente ed immediata per eventi unilateralmente ritenuti di particolare gravità). L’ “incidente” non fu sanzionato ma in ogni caso l’insegnante, che aveva un incarico annuale, non fu riconfermata e non insegnò più ad Istanbul. Analogo caso, durante la mia residenza in Turchia, coinvolse una nostra Console Generale, per aver avuto l’impudenza di partecipare assieme ad altri consoli (di Olanda e di Germania) ad un’udienza del processo al noto giornalista di opposizione Can Dundar, manifestando silenziosamente la propria solidarietà con l’imputato.
Il ‘kemalismo’ come religione laica, i partiti CHP e AKP, la Presidenza a vita: un desiderio anche di Erdogan
È stato dunque proprio Mustafa Kemal ad inaugurare la consuetudine della “presidenza a vita” che Recep Tayyip Erdogan non ha mai fatto mistero di voler riprendere. Atatürk fu presidente della repubblica, dall’istituzione della carica nel 1923 ininterrottamente fino alla morte, il 10 novembre 1938. La tendenza politica definita “kemalismo”, che è stata negli anni incubatrice di vari partiti fino al più recente CHP (Partito Popolare Repubblicano) di Kemal Kılıçdaroğlu, ha una forte impronta laicista e secolare; lo stesso ispiratore improntò la sua lunga presidenza a valori laici: abolì il velo islamico per le donne, vietò fez e baffi “alla turca” ai militari; scelse la scrittura latina per la lingua al posto di quella araba in uso durante il periodo ottomano; adottò il sistema metrico decimale; promulgò un codice civile ispirato al sistema civilistico svizzero, e un codice penale ricalcato sul codice Rocco italiano. Cosa forse più importante – ma fra le rivoluzionarie riforme di Kemal non è facile stabilire un ordine d’importanza – pose a presidio della costituzione repubblicana le forze armate, creando un Consiglio di sicurezza composto di nove membri militari e due civili, il cui scopo, apparentemente solo consultivo, era quello di bilanciare gli ampi poteri presidenziali più e meglio del parlamento monocamerale, facilmente “scalabile” da una maggioranza parlamentare granitica, come quella che per lunghi anni è stata la maggioranza dell’ AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) del presidente Erdogan.
Il kemalismo è una forma di religione laica, e l’”erdoganismo” ancor oggi imperante in Turchia non poteva non entrare in collisione con questo precedente storico. Accadde nel 2013. Erdogan, allora primo ministro, varò una legge restrittiva sul commercio dell’alcol, che era stato liberalizzato da Atatürk. Nel commentare questa legge del 2013, Erdogan si lasciò scappare che liberalizzare l’alcol era stata proprio una cosa degna di “un ubriacone”. Metà del paese era pronto a insorgere. Dovette rendersi conto, l’allora primo ministro, che toccare il padre della Patria era una pessima idea e che anche le masse islamiche e islamizzate che supportavano l’AKP, messe di fronte ad una scelta radicale fra il leader attuale e l’uomo i cui busti commemorativi campeggiano un po’ dovunque, gli si sarebbero potute rivoltare contro. Non si fece mai più cenno alla questione: la stampa addomesticata dalle persecuzioni si occupò di far dimenticare l’episodio, ma non tutti si rimisero a dormire.
Erdogan, la ‘democratura’, una politic con due facce, ma anche una complessità ancora da capire
Per i non esperti di cose turche, bisogna dire che Erdogan ha una fisionomia molto più complessa di come la rappresentano i media occidentali: sì certo, il quasi-dittatore di una “democratura” più simile alla Russia di Putin che a qualsiasi paese dell’Europa occidentale; l’eterno candidato all’entrata nell’Unione Europea sulla cui adesione la stessa Unione frena accelerando ed accelera frenando; il liberticida repressore della etnia curda, percepita come costante pericolo perché demograficamente sta raggiungendo la proporzione di un quarto della popolazione totale; tutto questo è vero, ma è solo una parte di verità. Anche messe insieme queste parti di verità non colgono adeguatamente l’intero.
Erdogan è abituato da sempre ad essere un politico double face: una faccia più feroce per l’opinione pubblica interna, che un giorno sì e il successivo pure fa strame dell’Europa (definendola indecisa, pavida, isterica, serva eccetera) e persino degli alleati della NATO (fra i membri della NATO quello turco è per numero di effettivi il secondo esercito, dopo gli Stati Uniti). Poi una faccia decisamente più mite, tranquillizzante e filo-occidentale per l’opinione pubblica estera. Erdogan, uomo proveniente dall’aspro altopiano anatolico, in realtà non è mai piaciuto alle élite culturali urbane di Istanbul, Smirne o Ankara, per svariate ragioni culturali, religiose certamente – queste élite cittadine sono cosmopolite e secolarizzate esattamente come le nostre – ma prevale l’aspetto psicologico. Erdogan è un abile mercante, ma un mediocre oratore. La sua lingua appare tagliente perché le sue analisi sono essenzialmente rozze: noi di qua, i cattivi di là. Cattivi sono i nemici del momento: curdi in primo luogo; ma anche gli europei e gli occidentali in genere.
In breve, il presidente Erdogan cade, e non di rado, vittima delle proprie macchinazioni e delle acrobazie dialettiche con cui da tempo sta cercando di costruire un nuovo spazio strategico per la Turchia: non contentandosi di un ruolo di media potenza regionale, annidata sulle coste del Mediterraneo orientale, ha portato le sue ricerche minerarie in prossimità delle coste di Cipro Est, staterello turco nato dopo lo sbarco del 1974 che tagliò l’isola in due entità, l’una sotto influenza greca e l’altra turca. Dopo i continui sconfinamenti e le operazioni di “sicurezza” sul territorio iracheno sotto controllo curdo ed il tentativo di creare una terra-di-nessuno fra Turchia e Kurdistan, è notizia di queste settimane il nuovo attacco al Rojava, l’area multietnica creata nella Siria orientale in cui è presente la milizia curda dell’YPG. Questa milizia ha contribuito significativamente alla dissoluzione dello Stato Islamico (da cui dipende il famigerato ISIS), ma Erdogan la considera formazione terroristica, emanazione dell’esecrato PKK (Partito Comunista Curdo) e gli ha attribuito la responsabilità di tutti gli attentati suicidi del 2016 fino all’ultimo del 13 novembre di quest’anno.
Amici che hanno vissuto a lungo in Turchia invitano a considerare con tutta l’obiettività possibile la figura di Erdogan. Non è certo un campione di democrazia: fin troppi giornalisti, intellettuali e oppositori, anche provenienti dalle aree rurali a maggioranza curda, lo stanno a testimoniare. Il controllo militare esercitato su città come Diyarbakır ha più l’aspetto di un’occupazione vera e propria che quello della quotidiana gestione dell’ordine pubblico. Ma bisognerà resistere alla tentazione, in fondo ingenua, di applicare un unico modello di democrazia ad aree del mondo le cui conflittualità hanno sovente radici millenarie.
Altri partiti e candidature che preparano nuovi cambiamenti?
Ad ogni modo le elezioni amministrative del 2019, a seguito delle quali il partito di governo ha perso le maggiori città, e in particolare la sconfitta del candidato AKP Binali Yildirim ad opera di Ekrem Imamoglu, sostenuto dal CHP e dal Iyi Party (Partito del Bene) nonostante la ripetizione del voto, risuonano con un rintocco sinistro per il sistema di potere creato dal presidente negli oltre vent’anni di dominio assoluto: una combinazione fra populismo ruralistico, con calmiere dei prezzi di generi alimentari, che nonostante la spirale inflattiva della lira turca rimangono a basso costo, e affarismo per la ristretta cerchia dei potenti, con l’impetuoso sviluppo di costruzioni immobiliari e di grandi opere (autostrade, ponti sul Bosforo, centri commerciali e grandi hotels). Tutta la macchina messa in piedi dall’aspirante “presidente a vita” e dai suoi familiari, sembra prossima a bloccarsi: magari a causa della ipertrofica ed inefficiente burocrazia, o forse perché, a lungo andare, il deficit di democrazia – sia pure intesa alla maniera occidentale – finisce per corrodere anche il più lubrificato congegno clientelare.
Molto ancora ci sarebbe da raccontare sulla complessità di questa potenza mediterranea e sulla sua multiforme identità geopolitica: ma sono temi impossibili da liquidare in poche battute, sui quali mi riprometto di tornare in qualche prossima occasione. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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